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La nuova Entente Cordiale franco-britannica nella difesa europea

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È stato siglato lo scorso 2 novembre, nel corso del “UK-France Summit” di Londra, un accordo bilaterale fra Francia e Gran Bretagna in materia di cooperazione militare e di difesa. Tale intesa – già in qualche modo preannunciata nel corso dell’ultima campagna elettorale inglese e da una serie di dichiarazioni dell’ex Ministro della Difesa francese Hervé Morin – permetterà ai due Stati europei di dare non solo nuova linfa all’industria di settore, ma soprattutto di affrontare con decisione la nuove sfide poste dall’attuale quadro internazionale e di rilanciare, ad un secolo di distanza dall’Entente cordiale con cui si definirono le sfere di influenza nel Mediterraneo (1904), le proprie aspirazioni geopolitiche sia a livello regionale che a livello globale. Il rinnovo di questa alleanza, inoltre, pone con forza l’accento sul futuro dell’intera architettura della sicurezza europea: da un lato sulla Politica Estera di Sicurezza e Difesa (PESD) che è attualmente di natura intergovernativa; dall’altro sulle relazioni fra Unione Europea (e singoli Paesi europei) e NATO e, quindi, sull’elaborato nuovo Concetto Strategico della NATO da cui deriveranno i prossimi obiettivi e le prossime strategie da applicarsi su scala regionale e internazionale.

L’asse franco-britannico

Gran Bretagna e Francia – entrambe maggiori ex imperi coloniali del Vecchio Continente – rappresentano, soprattutto dopo la dichiarazione congiunta anglo-francese di Saint Malo che ha dato avvio alla PESD (1998), lo zoccolo duro della sicurezza in Europa: esse, da sole, coprono il 43% delle spese nel settore della difesa dell’Unione Europea, sono membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sono le uniche due potenze nucleari europee, impegnate in prima persona sui principali scenari di crisi internazionali e in grado di incidere sugli equilibri di alcune regioni mondiali. La nuova intesa, dunque, non potrà far altro che rafforzare le loro capacità militari.

L’accordo in questione, infatti, è costituito da due trattati, uno riguardante una cooperazione militare di ordine generale, l’altro relativo ad una collaborazione nell’industria difensiva con particolare riferimento al settore nucleare.

Riguardo alla cooperazione militare, l’accordo prevede per la prima volta la formazione dal 2011 di un corpo d’armata congiunto formato da una componente terrestre, una marittima ed una aerea per un totale di circa 5000 uomini. Tale contingente, non permanente, sarà capeggiato da Francesi o da Britannici a seconda della natura dell’operazione da svolgere e potrà prestare il proprio servizio anche per la NATO, per l’Unione Europea e per la Nazioni Unite. Inoltre, grazie al potenziamento logistico e tecnologico di alcune portaerei, nei prossimi anni potrà essere costituita una vera e propria forza aeronavale integrata.

Quanto alla collaborazione in materia nucleare, Francia e Gran Bretagna hanno previsto di simulare, a partire dal 2014, il funzionamento del loro arsenale e di testarne la validità e la sicurezza a lungo termine: il centro di simulazione sarà costruito a Valduc (in Borgogna), presso un sito del Commissariato per l’Energia Atomica (CEA), e ad Aldermaston, nel Regno Unito, sarà invece allestito un centro di ricerca comune. Inoltre, sarà messa a punto una nuova generazione di equipaggiamenti, tra cui nuovi sottomarini nucleari, missili, sistemi antimine e lo sviluppo di microelicotteri UAV di media altitudine e di autonomia a lunga durata.

Secondo quanto dichiarato da Sarkozy e Cameron, questo approccio permetterà ai due Stati, dal punto di vista nazionale, di fronteggiare l’attuale crisi economica riducendo la spesa pubblica nel settore della difesa, e, dal punto di vista internazionale, di unire le forze nella lotta alla proliferazione delle armi di distruzione di massa e dei missili balistici, di intensificare la lotta al terrorismo e agli attacchi cibernetici e di garantire, così, la sicurezza marittima e spaziale. Tutto ciò, secondo quanto affermato dai due leader europei, avverrà non solo in stretta collaborazione con le politiche comunitarie e con le forze della NATO, ma favorirà anche una più stretta collaborazione fra le due istituzioni. Eppure, proprio il fatto che l’iniziativa dei due Stati è stata avviata autonomamente rispetto alle strutture di difesa occidentali, apre il dibattito su quali siano i reali obiettivi di Francia e Gran Bretagna e come questi si pongano nei confronti non solo  della  politica di sicurezza e difesa dell’Unione Europea, ma anche e soprattutto della NATO, la quale, in particolar modo, a causa delle difficoltà incontrate nella missione in Afghanistan, sta vivendo un periodo di ridefinizione della sua stessa identità e dei suoi prossimi obiettivi.

Prospettive geopolitiche

Entrambi i Paesi, infatti, hanno negli ultimi tempi intrapreso un nuovo corso di politica estera, ridefinendo le proprie priorità geopolitiche. Da un lato la Francia, dopo la pubblicazione del “Libro Bianco sulla Difesa e la Sicurezza nazionale”, con il reintegro nella NATO e con il mantenimento delle relazioni politico-economiche con la Germania, punta a rilanciarsi come potenza regionale e globale, soprattutto nel contesto euro-atlantico, in quello euro-mediterrano, in quello euro-asiatico e, come si faceva riferimento in un altro articolo apparso su Eurasia, in quello del Pacifico.

Dall’altra parte, la Gran Bretagna, con la recente pubblicazione del documento contenente le nuove linee in materia di sicurezza e difesa – “The Strategic Defence and Security Review” (SDSR) – e con la decisione di rinnovare il programma nucleare basato sui sottomarini “Trident”, punta a mantenere e a rafforzare la propria autonomia militare in modo da agire in maniera più incisiva non solo in contesti di crisi come l’Afghanistan, ma anche nei nuovi conflitti per l’acqua e per le risorse energetiche e nella lotta alla proliferazione nucleare che caratterizza in particolar modo il Medio Oriente. Al tempo stesso, il rafforzamento dei rapporti bilaterali – anche con le potenze emergenti come Cina, India e Brasile – permetterà al Regno Unito di operare, anche grazie all’istituzione di un “National Security Council”, sempre più indipendentemente dagli Stati Uniti e di avere una maggiore influenza globale, non solo in Europa, ma anche in contesti complessi come quello asiatico e latino-americano. Sul piano regionale, invece, l’accordo con la Francia le permetterà di rafforzare il suo ruolo all’interno dell’Unione Europea e, soprattutto, come ha dichiarato il neoministro degli Esteri Liam Hague nel corso dell’ultima campagna elettorale, di cooperare con quei Paesi europei che hanno un bilancio della difesa significativo e impiegano i loro soldati in operazioni complesse come quella in Afghanistan. Proprio questa linea dimostra che è improbabile che Londra, nonostante la presenza nel Governo delle forze liberal-democratiche, possa vincere definitivamente il suo tradizionale scetticismo verso le istituzioni di Bruxelles. Anzi, ciò che con ogni probabilità più interessa alla Gran Bretagna è riuscire a bilanciare l’enorme influenza della Germania in Europa, alla luce non solo della revisione del Patto di Stabilità, ma anche del consolidarsi del cosiddetto “Triangolo di Weimar” (costituito da Francia, Germania e Polonia), attualmente punto di riferimento per il problema della sicurezza dei confini orientali – e non solo – del continente europeo. Ciò vorrà dire che la Gran Bretagna avrà la possibilità di essere più influente nei rapporti con la Russia e che, quindi, i Governi di Berlino e Varsavia (quest’ultimo si appresta a detenere nel 2011 per la prima volta la Presidenza europea di turno) saranno con ogni probabilità costretti a rivedere le proprie strategie. Ne sarà agevolata certamente la Francia, che avrà, infatti, la possibilità di giocare su più tavoli nel quadro della sicurezza europea e di riuscire a realizzare un’Europa sotto il segno di Parigi.

Una nuova difesa europea?

Autorevoli think tank europei suggeriscono, dunque, tre possibili scenari per la sicurezza in Europa. Il primo dipenderebbe dalla capacità della Francia di riuscire a gestire il suo potenziale diplomatico e di incoraggiare, in questo modo, gli altri partner europei a stringere una più stretta collaborazione fra di loro e a costituire una forza integrata sotto l’egida francese. È tuttavia possibile anche il contrario, ossia che gli altri Stati europei, a seguito dell’incertezza delle ultime missioni internazionali, avvertano un senso di sfiducia nei confronti di nuove iniziative militari e che ritengano anacronistiche le posizioni francesi e britanniche: l’intesa potrebbe favorire, infatti, quella che il Segretario alla Difesa americano Robert Gates ha definito una cultura della “smilitarizzazione” in Europa.

Ma lo scenario più realisticamente prospettabile è quello secondo il quale l’asse franco-britannico riesca progressivamente a costruire intorno a sé una serie di gruppi di Stati europei divisi a seconda del loro contributo alla difesa europea. Si tratterebbe, insomma, della costruzione di un modello a “geometria variabile” in cui il primo partner sarebbe ovviamente la Germania, non solo per la maggiore stabilità dell’economia tedesca, ma anche perché essa intrattiene con la Francia importanti legami industriali principalmente nel settore aerospaziale. Sarebbe, in fondo, qualcosa di abbastanza simile al sistema proposto dal Trattato di Lisbona, ma attuata – per vincere l’euroscetticismo britannico – senza alcun coinvolgimento delle istituzioni comunitarie.

Il futuro della NATO

Un nuovo assetto della difesa europea solleva infine il quesito relativo al futuro del Patto Atlantico. Ventuno dei ventotto membri della NATO, infatti, sono anche membri dell’Unione Europea e ventiquattro fanno parte dell’Unione Europea Occidentale (UEO), che con il Trattato di Lisbona è passata sotto il controllo dell’UE. Come possono dunque conciliarsi gli obiettivi dei maggiori contribuenti della NATO in termini di forze militari – e, più in generale, di un’Europa che sembra richiedere più autonomia – con la NATO stessa?

Nonostante la diffusa sfiducia – specialmente nei Paesi dell’Est Europa – nei confronti del Patto Atlantico, Francia e Gran Bretagna hanno riaffermato in più di un’occasione il loro impegno all’interno delle strutture politiche e militari della NATO. Anzi, al fine di rafforzarne la struttura e di garantirne l’efficienza, esse si sono adoperati, nel corso del Vertice NATO di Lisbona, a definire i progetti di riforma e il nuovo Concetto Strategico. Perfettamente in linea con la loro volontà di rafforzare la loro capacità nucleare e di utilizzarla all’interno di una deterrenza globale, i due Paesi europei hanno sostenuto con forza il potenziamento della difesa antimissilistica all’interno dei territori alleati e lo sviluppo, soprattutto, del Programma “Active Layered Theatre Ballistic Missile Defence” (ALTBMD) che sia coerente con il livello della minaccia nucleare proveniente dal Medio Oriente e che permetta un partenariato con la Russia. Per Francesi e Britannici la difesa antimissili è un complemento e non un sostituto della deterrenza, la quale, allo stato attuale delle cose, può essere solo garantita da una maggior coesione dell’Alleanza Atlantica. In questo senso, quindi, se pur sorto su iniziativa bilaterale, l’accordo di cooperazione anglo-francese non potrà che apportare un cambiamento sostanziale all’interno della NATO, non solo in termini di razionalizzazione e gestione delle risorse, ma anche in termini di ridistribuzione delle decisioni, bilanciando, cioè, l’attuale preponderanza degli Stati Uniti. L’obiettivo finale di Francia e Gran Bretagna è, infatti, proprio quello di riuscire ad essere potenze concorrenti e alternative a quella americana nella sicurezza internazionale.

Se è possibile, dunque, ipotizzare più scenari sul futuro assetto della Politica Estera di Sicurezza e Difesa, è più difficile, invece, immaginare come gli Stati europei possano effettivamente trovare una via autonoma rispetto alla NATO, che per sessant’anni ha rappresentato il vero punto di riferimento della sicurezza occidentale: lo dimostrerebbero, d’altra parte, i recenti allargamenti a diversi Stati europei strategici in chiave euro-asiatica e l’istituzione e il mantenimento di importanti relazioni esterne (si pensi al “Partenariato Euro-Atlantico” – EAPC).

Il problema della difesa in Europa è, dunque, quanto mai complesso e suscettibile di cambiamenti. A distanza di sessant’anni dal fallimento della Comunità Europea di Difesa e dopo innumerevoli tentativi di raggiungere un’integrazione anche in campo militare, per un verso gli Stati europei si dimostrano ancora riluttanti ad adottare una linea effettivamente comune, ma per l’altro, la nuova Entente franco-britannica è sintomo di una rinnovata vitalità della geopolitica del nostro Continente.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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Iran: la Centrale di Bushehr e le imminenti trattative

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L’alimentazione della  centrale nucleare iraniana di Bushehr, e le seguenti reazioni della comunità internazionale, sono solo uno degli ultimi sviluppi della lunga diatriba diplomatica riguardo il programma nucleare iraniano.

La centrale di Bushehr è stata ufficialmente rifornita per la prima volta di combustibile lo scorso 26 Ottobre. Secondo le dichiarazioni delle autorità iraniane la struttura dovrebbe essere in grado di iniziare a produrre elettricità a partire dai primi mesi del 2011, quando tutte le 163 forniture di combustibile saranno state inserite nel reattore. Lo scopo ufficiale della centrale è quello di produrre forniture energetiche per la rete elettrica nazionale, dunque per l’utilizzo “civile” della tecnologia nucleare, in piena conformità con quanto dichiarato dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare(TNP).

Al contrario di altre strutture, quella di Bushehr non è oggetto delle sanzioni decise dalle Nazione Unite ed il combustibile, una volta esaurito, dovrebbe essere rispedito in Russia, da dove proviene. Gli Stati Uniti e la comunità mondiale hanno infatti riconosciuto alla centrale piena legittimità: Hilary Clinton, lo stesso giorno della prima fornitura di combustile al reattore, ha dichiarato come Bushehr non sia tra i principali oggetti delle apprensioni statunitensi. Le maggiori obiezioni riguardano infatti altri siti, tra cui quello di Natanz ed alcune strutture definite come “segrete” dall’intelligence americana, dove la Repubblica Islamica potrebbe, sempre secondo le medesime fonti, perseguire un programma nucleare di tipo militare.

In una recente intervista, Emma Belcher, ricercatrice statunitense specializzata sulla tematica della non-proliferazione ed il disarmo nucleare, ha espresso il suo pensiero riguardo alla presunta opposizione al presidente Ahmadinejad all’interno del Parlamento; infatti, porta con se un’ambiguità politica riguardo la questione nucleare abbastanza difficile da leggere. In occasione dei colloqui intrattenuti tra l’Iran ed il gruppo dei 5+1( USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) nell’Ottobre 2009 a Vienna, la delegazione iraniana si era mostrata favorevole alla proposta avanzata dagli altri partecipanti, alla quale si espresse favorevolmente lo stesso Ahmadinejad. La trattativa prevedeva uno scambio secondo cui la Repubblica Islamica avrebbe dovuto dare alla Russia il suo uranio arricchito al 3,5 % in cambio di uranio arricchito al 20 %, venendo incontro ai desideri internazionali di evitare il processo di arricchimento sul suolo iraniano. La proposta fu tuttavia rifiutata una volta giunta in Parlamento, nonostante i precedenti segnali positivi al riguardo da parte iraniana. Un’interpretazione di questo contesto risulta piuttosto difficoltosa: molti analisti infatti, hanno obiettato come probabilmente non si debba interpretare la bocciatura dei trattati come un totale rifiuto al dialogo da parte del Parlamento Iraniano. Se anche è vero che la proposta non soddisfaceva del tutto le aspettative della Repubblica Islamica, la quale infatti presentò nel Gennaio 2010 una contro offerta al Gruppo di Vienna, l’elemento di maggior rilievo sembrerebbe essere comunque un altro evidenziato sempre da Emma Berchel nell’intervista sopracitata: un accordo tra Ahmadinejad e la comunità internazionale porterebbe ad un rafforzamento della figura del Presidente che in molti al di fuori dell’Iran preferirebbero evitare.

I nuovi colloqui previsti tra Iran ed il gruppo dei 5+1, secondo l’emittente iraniana TV Press, dovrebbero svolgersi il 5 Dicembre a Ginevra, seguendo la proposta dell’alto rappresentante per le politiche estere dell’Unione Europea, Catherine Ashton. Tuttavia, alcune fonti vicine al Parlamento di Tehran, hanno già riportato il secco rifiuto dell’Istituzione a qualsiasi negoziato che preveda la fine del processo di arricchimento d’uranio sul suolo iraniano. Il raggiungimento di un soddisfacente accordo tra le parti, dunque, sembrerebbe al momento piuttosto lontano.

Alla luce dei fatti, formulare ipotesi sulle intenzioni di Tehran, resta un’impresa ardua. Per le potenze ostili, USA in primis, lo scopo esclusivamente civile della tecnologia nucleare in Iran è ancora tutto da accertare ed il pericolo della creazione di armi nucleari quanto mai incombente. Tuttavia, al momento, sembrerebbe comunque difficile determinare con sicurezza se l’Iran abbia o meno intenzioni belliche riguardo il suo programma nucleare. Non di meno, una politica di prevenzione, se così può essere definito il tentativo di evitare l’arricchimento dell’uranio sullo stesso suolo iraniano, sembrerebbe la strada preferibile per gli Stati Uniti , in concordanza con il filone di pensiero maggiormente diffuso: se si dispone della tecnologia necessaria per raggiungere un livello di arricchimento del 20 %, quello cioè necessario per la produzione di energia, non dovrebbe essere troppo difficile raggiungere quello del 99%, necessario per la produzione di tecnologia bellica. Neanche a dirlo, uno dei maggiori ostacoli per l’organizzazione di un nuovo tavolo di trattative è stato proprio l’oggetto su cui queste ultime si sarebbero incentrate: il governo di Tehran ha infatti chiesto più volte di chiarire da subito le intenzioni degli altri partecipanti all’incontro, dichiarando fin dal principio inammissibili alcune richieste, tra cui, per l’appunto, un eventuale arricchimento in sede straniera.

Un altro elemento infine, è oggetto dell’attenzione delle potenze mondiali: il proseguimento da parte dell’Iran della sua politica nucleare, nonostante le sanzioni e le richieste internazionali, potrebbe minare in profondità la credibilità e l’assetto stesso di istituzioni quali l’ONU. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha ripetutamente affrontato il discorso sull’arricchimento dell’uranio ma è noto che nemmeno le sanzioni economiche sancite a discapito della Repubblica Islamica, hanno ottenuto maggior successo: l’ultima tornata, approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU lo scorso Giugno, prendeva di mira le operazioni bancarie iraniane all’estero, le assicurazioni, il commercio di armi. Sanzioni definite dalla stessa Clinton come “particolarmente pesanti”, ma che in realtà hanno avuto ben poca influenza sul proseguimento del programma nucleare, com’è dimostrato dall’attivazione della stessa centrale di Bushehr.

Il messaggio che una simile politica invia è altamente rischioso nell’ottica non solo statunitense, ma anche delle istituzioni internazionali, soprattutto se a raccogliere il detto messaggio sono altri Paesi sotto “osservazione”. Nel caso specifico dell’Iran, non si può neppure prescindere dall’aerea geopolitica di appartenenza, un’area estremamente delicata: il Medio Oriente. Il discorso nucleare in Medio Oriente presenta problematiche innumerevoli ma ciò che davvero preoccupa, al di là dell’acquisizione delle tecnologie militari, è un profondo mutamento degli assetti geo-politici finora conosciuti. Il possesso della tecnologia nucleare è, allo stato attuale delle cose, un potente mezzo di ricatto e non tanto, come appena affermato, per un suo eventuale utilizzo militare, quanto piuttosto per l’influenza politica che una minaccia del genere automaticamente regala al Paese che ne dispone. In altre parole il potere contrattuale del Paese in questione, aumenta esponenzialmente dinanzi alla comunità degli Stati.

Al di là della paventata minaccia militare, il rischio maggiormente temuto è quello di un cambiamento degli equilibri di potere e non solo a livello  strettamente regionale: ciò che davvero si vorrebbe evitare, soprattutto da parte statunitense, è di trovarsi in una posizione di svantaggio all’interno dell’intricato sistema delle relazioni internazionali e nello scacchiere del Medio e Vicino Oriente.


* Valentina Gentile è Dottoressa in Studi Islamici (Università di Napoli l’Orientale)


Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Italia: 150 anni di una piccola grande potenza

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La rivista italiana di studi geopolitici “Eurasia” dedica il suo ventesimo volume all’imminente anniversario dell’unità d’Italia, con un numero (2/2010) intitolato Italia: 150 anni di una piccola grande potenza. Quasi trecento pagine per affrontare il tema dalla prospettiva più consona a “Eurasia”, cioè quella geopolitica.

Il direttore Tiberio Graziani, nel suo editoriale, s’interroga sulla “Geopolitica nell’Italia repubblicana” o, meglio, sulla sua assenza, ch’egli imputa non solo alla scarsa cultura geopolitica delle classi dirigenti italiane, ma anche alla profonda crisi dell’identità nazionale ed alla limitazione della sovranità determinata dall’inserimento nella sfera egemonica degli USA. I recenti sviluppi internazionali aprono però inedite possibilità all’Italia, a patto che essa sappia riconoscere i due nuovi punti di riferimento della sua politica estera: la Russia, grazie a cui sganciarsi dalla sfera d’influenza nordamericana, e la Turchia, con cui rilanciare una politica mediterranea e vicino-orientale.

Proprio a “Italia e Turchia negli anni di Erdogan” è dedicata una breve nota di Aldo Braccio (“Eurasia”). I due paesi hanno intensificato i propri rapporti economici e diplomatici, e Berlusconi si è dimostrato uno dei maggiori patroni dell’ipotetico ingresso della Turchia nell’UE. Un ulteriore salto di qualità nel rapporto tra i due paesi sarà però impossibile finché Roma manterrà una linea rigidamente atlantista e filo-israeliana, distanziandosi così dai nuovi orientamenti geopolitici di Ankara.

Due sono invece i contributi che trattano dei rapporti tra Italia e Russia, realizzati rispettivamente da un autore russo e da uno italiano.

Il russo è Vagif Gusejnov (“Vestnik Analitiki”, ISOA), che si esprime “Sulla cooperazione tra Russia e Italia” concentrandosi particolarmente sugli ultimi anni, testimoni di progressi sotto tutti i punti di vista. Contrariamente a quanto si crede, ciò non è stato reso possibile solo dai buoni rapporti personali tra Berlusconi e Putin, ma principalmente della comprensione, da parte di tutti gli attori politici dei due paesi, dei vantaggi reciproci ottenibili dalla cooperazione. L’Italia si è fatta apprezzare per la sua posizione conciliante, malgrado le pressioni provenienti dagli USA e dall’UE, e per il favore con cui ha accolto la proposta russa d’un trattato di sicurezza collettiva in Europa. Rilevanti poi i rapporti economici e, soprattutto, energetici. Ma l’ottimismo verso il futuro è frutto soprattutto di quell’intesa spirituale che sembra attrarre Russi e Italiani gli uni verso gli altri.

Il contributo di fonte italiana è invece di Daniele Scalea (“Eurasia”) e reca l’eloquente titolo di “L’importanza della Russia per l’Italia”. L’articolo di Scalea è davvero complementare a quello di Gusejnov, perché inquadra i rapporti tra i due paesi in un’ottica storica e dal punto di vista italiano. La distanza geografica, le vicende storiche e gli orientamenti geopolitici per secoli hanno separato i due paesi, ma ormai da cent’anni Mosca ha assunto una grossa importanza per la politica estera italiana. Quest’ultima si basa tradizionalmente su un sistema di pesi e contrappesi, di alleati e di “amici” che servono a limitarne l’invadenza. Oggi solamente la Russia può essere per l’Italia quel “amico” necessario a frenare lo strapotere degli USA nel loro rapporto d’alleanza ineguale con Roma. Inoltre, l’Italia più d’ogni altra potenza europea è dipendente dalla Russia per il suo approvvigionamento energetico, ragione in più per cui i dirigenti italiani debbono fare di Mosca uno dei principali punti di riferimento della loro politica estera.

La storia de “La politica estera italiana” è ripercorsa sinteticamente ma con precisione da uno dei suoi maggiori studiosi, Alfredo Canavero (Università degli Studi di Milano). Secondo il professor Canavero il problema storico della politica estera italiana è il contrasto tra la volontà di protagonismo e la debolezza materiale, che ha condotto spesso a disillusioni o persino catastrofi. I risultati migliori si sono ottenuti nel campo dell’integrazione europea, dove l’Italia può ancora giocare un ruolo importante.

Pietro Longo (Università l’Orientale di Napoli) approfondisce “La politica estera italiana nel Vicino Oriente”. Così come le alleanze europee, ed in epoca più recente la NATO e l’UE, sono servite a garantirsi la sicurezza sul confine alpino, i rapporti coi paesi mediterranei sono stati essenziali per assicurare la lunga linea costiera. Tuttavia, l’Italia non ha saputo sviluppare un coerente “mediterraneismo” – cercando invece di sfruttare anche nel Mediterraneo i più compiuti “atlantismo” ed “europeismo”, ma risultando così legate a strategie etero-dirette. Questa è una grave pecca per un paese che affonda le proprie radici nel Mediterraneo, e vi è fisicamente immerso.

Côme Carpentier de Gourdon (“World Affairs”, EuroAsia Institute), allontandosi dalle regioni europea e mediterranea, tratta de “L’Italia e l’India tra mito e storia”. L’autore franco-indiano individua numerose analogie geografiche e storiche tra i due paesi. L’avvincente tragitto dell’articolo si conclude in un evento emblematico: il ruolo di primo piano raggiunto da un’italiana, Sonia Gandhi, nella classe dirigente indiana.

Molto spazio è dato alla questione linguistica. Aldo Braccio (“Eurasia”) giustifica la necessità di “Difendere la lingua italiana” leggendo in un’ottica geopolitica l’affermazione globale della lingua inglese. Il tema è esaminato nel dettaglio da Claudio Mutti (“Eurasia”) con “Il veicolo linguistico del dominio statunitense”, dov’è tracciata una storia della lingua italiana e dell’influenza cui è sottoposta da parte dell’inglese. Sullo stato attuale e le prospettive future della lingua italiana si pronuncia in un’intervista Giovanni Adamo (CNR).

Alessandra Colla (“Eurasia”) affronta un problema annoso dell’Italia: quello dei rapporti tra “Chiesa e Stato”. L’Italia si trova ad avere al proprio interno un piccolo Stato, il Vaticano, che dispone però d’una fitta rete d’influenza e potere su tutto il territorio nazionale italiano.

Pessimistica la valutazione di Fabrizio Di Ernesto (saggista), secondo cui a centocinquant’anni dalla proclamazione dell’Unità gl’Italiani sarebbero “Più divisi di prima”. L’Italia è sempre stata deficitaria in termini d’identità nazionale, ed oggi essa è sottoposta all’attacco dell’atomizzante ideologia neoliberale.

Luca Donadei (saggista) descrive “La debolezza strategica italiana”, la quale dipende precipuamente dalla conformazione geografica del paese: un po’ continentale ed un po’ marittimo (e dunque costretto a difendersi su ambo i lati), percorso da catene montuose che ostacolano le comunicazioni interne. Oggi l’Italia si presenta protetta in una “teca di cristallo” composta da alleanze e relazioni diplomatiche, apparentemente sicura ma che, qualora tali rapporti si deteriorassero (soprattutto quello con gli USA), lascerebbe il paese esposto in tutta la sua crescente vulnerabilità.

Un tema molto dibattuto in Italia e molti altri paesi è quello della concorrenza commerciale cinese: ne parla Caterina Ghiselli (“Strategic Advice”) nel suo “Il made in China sfida il made in Italy”.

Dario Giardi (saggista) tratta della “Geopolitica dell’energia: l’Italia nello scacchiere euro-mediterraneo”. Secondo Giardi la politica energetica è divenuta il fulcro della politica estera degli Stati, ed in particolare la Russia sta impiegandola per scalare la gerarchia delle potenze. L’Europa dovrebbe agire unitariamente ed in collaborazione con gli USA per diversificare ed assicurare le proprie fonti energetiche, ma evitare politiche anti-russe, anti-iraniane o anti-cinesi. L’Italia è assai vulnerabile perché il suo “mix energetico” è particolarmente caro e sbilanciato. Le priorità dovrebbero essere: coniugare nuovi gasdotti e rigassificatori per diventare un hub energetico europeo; dedicarsi all’efficienza ed al risparmio energetico; riadottare il nucleare; potenziare il solare; diversificare le fonti d’energia.

“Ahi serva Italia…” è il titolo dell’articolo con cui, riecheggiando Dante, Giancarlo La Grassa (economista) lamenta il deplorevole stato dell”Italia, da vent’anni priva d’una politica. Roma dovrebbe puntare decisamente sull’avanzante multipolarismo, difendere quel che resta delle sue industrie strategiche dalle brame straniere, sgonfiare l’ipertrofico apparato dell’amministrazione pubblica. Ciò sarà possibile solo vincendo la resistenza di quel blocco sociale parassitario che vive sulla spesa pubblica improduttiva, e cercando invece di mobilitare a favore della svolta i ceti produttivi, in particolare il lavoro autonomo.

Alessandro Lattanzio (“Eurasia”) descrive la “Italia atomica” e la storia dei programmi sia militari sia civili.

Fabio Mini (generale in ausiliaria) critica la “Voglia di SpA” recentemente impadronitasi dell’Italia: il Governo ha costituito una serie di SpA (Banca del Sud, Protezione Civile, Difesa Servizi) per permettere ai Ministeri di eludere le procedure ed i controlli statali.

Costanzo Preve (filosofo) tratta de “Il comunismo italiano nella seconda metà del ‘900″, da Gramsci all’anti-berlusconismo.

Esterni al dossario sull’Italia sono alcuni articoli: Fabio Falchi sul “Homo Europaeus”, Claudio Mutti su “Henry Corbin: l’Eurasia come concetto spirituale”, Alì Nakbar Naseri su“L’Iran e la pace nel mondo” (testo dell’intervento dell’ambasciatore iraniano all’omonima conferenza organizzata da “Eurasia” a Roma), Maria Rosa Comunale su “Il caso Lettonia”, Augusto Marsigliante su “I rapporti sino-africani”.

Il volume è concluso da alcune interviste: oltre al già ricordato Adamo, a Roberto Albicini (giornalista), Gianluigi Angelantoni (industriale), Giovanni Armillotta (“Africana”), Sergej Baburin (Duma, Federazione Russa), Pietrangelo Buttafuoco (giornalista e scrittore), Tarun Das (confederazione industriali indiani), Paolo Guerrieri (IAI, Università La Sapienza di Roma), Luciano Maiani (CNR), Sergio Romano (“Corriere della Sera”) e David Sanakoev (Ossezia del Sud, ufficio presidenziale).


Informazioni su come acquistare il volume (cliccare)

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Sviluppi e dibattito sulla democrazia in Myanmar

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Fonte: Strategic Culture Foundation
http://www.strategic-culture.org/pview/2010/11/20/positioning-myanmar-developments-and-democracy-debate.html

Il Myanmar occupa un posto chiave nella politica Asiatica, sia grazie alla sua posizione che per le sue risorse nella situazione nella matrice geopolitica asiatica. A ovest trova l’India, a nord la Cina, la Baia del Bengala a sud che ulteriormente si estende verso l’Oceano Indiano, a est il blocco del sud-est asiatico rappresentato da uno dei raggruppamenti più conosciuti, chiamato ASEAN. Myanmar detiene il passaggio da ovest al sud-est asiatico.

Il Myanmar con le sue ricche risorse energetiche, la sua importanza come corridoio per i trasporti e anche per le sue risorse come le foreste e i minerali, attrae ampia attenzione. Tuttavia, recentemente è stato catapultato nell’ambito internazionale, non a causa di queste ragioni, ma soprattutto a causa del rilascio dellaleader della Lega Nazionale della Democrazia (Nld), Aung San Suu Kyi. Resta da vedere come questo andamento particolare conformerà la politica in Asia e oltre, ma certamente, nei prossimi mesi, assisteremo a altri colpi di scena, forse una specie di tumulto nella regione, mentre i paesi limitrofi si ritroveranno in guardia ad affrontare realtà emergenti.
Il governo di Than Shwe ha rilasciato Suu Kyi il 13 novembre 2010. Sei giorni prima, il governo aveva sostenuto il Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo, che è dilagato nelle controverse elezioni nazionali generali. Come rilasciato dalle agenzie governative, ha avuto l’80 per cento dei voti. Il rilascio di Suu Kyi è avvenuto sotto la molto più garve nube del sospetto, così come della speculazione, perché il suo precedente previsto rilascio, nel 2009, era stato prorogato di 18 mesi a causa dell’accusa  ufficiale di aver ospitato illegalmente uno statunitense senza il permesso del governo. C’è bisogno di sototlineare il perché Suu Kyi gode di popolarità tra il popolo birmano. Suo padre, Aung San, è stata una figura predominante nella politica del Myanmar (Birmania), e aveva svolto un ruolo cruciale per la sua indipendenza dal dominio britannico nel 1947. Nel 1962 i militari presero il potere. Nelle elezioni popolari del 1990 il partito di Suu Kyi, NLD, aveva avuto i voti popolari, ma non poteva andare al potere, poiché il regime militare si rifiutò di accettare i risultati.

Suu Kyi è rimasta agli arresti per lungo tempo. La sua liberazione dagli arresti domiciliari nella sua villa di Rangoon, è stata ben accolta da molti paesi, tra cui i confinanti India, Thailandia e Indonesia.

Le percezioni sul recente sviluppo variano a seconda delle politiche delle nazioni. La questione dei diritti del popolo può essere autentico in Myanmar, ma è la questione che deve essere analizzata in modo approfondito. I militari affermano che, nonostante le enormi sanzioni da parte dell’Occidente, inclusi gli Stati Uniti, l’economia ha registrato un andamento positivo, tanto che ora il Myanmar ha riserve di valuta estera per circa sei miliardi di dollari. Ha sviluppato ottime relazioni commerciali con i paesi vicini, in particolare con la Cina. La Cina ha sviluppato il porto di Sittwe, oltre a sviluppare un gasdotto attraverso il Myanmar fino al terminale del gas al largo delle sue coste.

L’India ha anche importanti interessi commerciali con il Myanmar. L’India condivide circa 1600 chilometri di confine con il Myanmar. L’interesse dell’India risiede nelle risorse energetiche del paese. Inoltre, vi sono anche dei colloqui per aprire rotte di navigazione dal porto di Kolkata, in India, al porto di Sittwe in Myanmar, che potrebbe collegarsi ulteriormente verso altri paesi del sud-est asiatico.

Vi sono proposte dall’India e dalla Cina per sviluppare progetti comuni in Myanmar. Cina e India fanno parte dei colloqui estesi nei format ASEAN+3 e ASEAN+1 rispettivamente, in cui il Myanmar è un membro di spicco. Forse questa è stata la ragione per cui i leader indiani hanno adottato un approccio calibrato, quando il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, durante la sua visita in India ai primi di novembre, ha accusato direttamente la leadership del Myanmar di ‘rubare‘ le elezioni, e ha criticato lo scarso rispetto dei diritti umani. Mentre, invece, paesi come la Russia e la Cina hanno adottatto diversi approcci. 

Mentre la Cina ha definito le elezioni ‘riuscite e serene‘, il ministero degli esteri della Russia ha dichiarato: “Noi vediamo le elezioni come un passo avanti nella democratizzazione della società del Myanmar, in conformità con le riforme politiche adottate dalla leadership del paese.” La seguente visita di Obama nei paesi asiatici, come Indonesia, Corea del Sud e Giappone, tre democrazie, potrebbe essere ulteriormente aggiunto al dibattito che riguarda la democrazia in Asia, e in particolare nei paesi in cui il modello occidentale di democrazia è assente.

Inoltre, la dichiarazione del Primo Ministro britannico, David Cameron presso l’Università di Pechino, all’inizio di novembre, secondo cui lo sviluppo economico deve accompagnare la democrazia e i diritti umani, potrebbe alimentare il dibattito e le differenze rispetto sui modelli di democrazia. Forse qui giunge d’aiuto l’immagine del modello cinese di apertura, che mirava ad aprire l’economia più velocemente della politica. La leadership del Myanmar sembra essere più attratta dal modello cinese, con cui intrattiene più strette relazioni che non probabilmente con altre potenze. Inoltre, l’imposizione da altre potenze, in materia di democrazia e diritti umani, invece di promuovere i valori democratici può produrre, nelle menti dei dirigenti, il timore dell’imposizione di valori e culture estranei. Forse questo è ciò che sta accadendo in Myanmar. La vicinanza di Suu Kyi all’Occidente, e il suo sostegno dall’Occidente con le pesanti sanzioni contro il regime militare, invece di aiutare la situazione, l’hanno portata a essere più complicata.

Il Myanmar deve gradualmente evolvere i propri meccanismi verso un’evoluzione in un sistema politico in grado di garantire pieni diritti e libertà al suo popolo. Suu Kyi, al suo rilascio, ha definito la moderazione una componente chiave della sua prossima strategia. Lei ha giustamente sottolineato la riconciliazione nazionale tra i diversi interessi e parità in Myanmar. Altrettanto importante, tutte le fazioni devono essere incoraggiata al dialogo e alla riflessione, e tutte le potenze internazionali devono sostenere il processo, ma al tempo stesso devono adottare un approccio pacifico e amichevole verso il paese. Nel contesto delle sanzioni, ha già dimostrato che esse non hanno aiutato molto ad influenzare i governanti militari, anzi di averli spinti ulterioremnte verso la loro ferma determinazione. Così, un processo complessivo di riconciliazione interna in Myanmar e un atteggiamento di sostegno delle potenze estere, possono andare molto lontano nel garantire uno sviluppo positivo nel paese, con conseguenze non solo per l’Asia, ma per il globo nel suo complesso.

*Il Dr Debidatta Aurobinda Mahapatra fa parte della facoltà di ricerca presso il Centro Studi Eurasiatici Centrali, Università di Mumbai, India.

Copyright 2010 © Strategic Culture Foundation
>La ripubblicazione è gradita con riferimento alla rivista on line Strategic Culture Foundation.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Avionica e missili cinesi per il Pakistan

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Fonte: http://www.southasiaanalysis.org/%5Cpapers42%5Cpaper4177.html

Il “Global Times” controllato dal Partito comunista cinese ha riferito quanto segue il 18 novembre 2010:

Il Pakistan ha firmato un accordo per dei missili cinesi
Xu Tianran in Zhuhai e Chris Dalby a Beijing

La Pakistan Air Force (PAF) ha confermato al Global Times l’acquisto di avionica e missili cinesi per equipaggiare la sua la flotta di 250 jet da combattimento JF-17 Thunder.
Rao Qamar Suleman, maresciallo dell’aria della PAF, ha rivelato in un’intervista esclusiva che anche valutazioni pre-acquisto su altri diversi sistemi di difesa aerea cinese erano in corso.
Suleman ha detto che il missile avanzato a guida radar attiva e homing a medio raggio sviluppato dalla Cina, il SD-10, diventerà l’ arma standard Beyond Visual Range (BVR) del JF-17. Ha inoltre aggiunto: “La PAF non ha intenzione di installare dispositivi e armi occidentali sul velivolo, per il momento.”
Sembra che l’accordo tra la Cina e il Pakistan sia stato reso possibile in seguito al ritiro della candidatura francese per l’armamento del JF-17, dopo le pressioni del governo indiano. Nel marzo scorso, il Dow Jones ha riferito che un’offerta congiunta da parte della società aeronautica francese ATE, insieme a Thales Group e MBDA, era in posizione privilegiata per garantirsi un contratto da 1,2 miliardi di euro per la fornitura di radar e missili per la prima serie di 50 caccia JF-17. Le Monde ha anche riferito, che l’accordo doveva essere firmato durante una visita ufficiale di Stato dal premier pakistano Yousaf Raza Gilani.
Nel mese di aprile, Le Monde aveva riportato che il governo francese non avrebbe dato il via libera all’affare da 1,2 miliardi di euro, citando una fonte interna all’ufficio del presidente Nicolas Sarkozy, che avrebbe detto che questo rifiuto era legato alle “relazioni franco-indiane”.
L’accordo tra la Francia e il Pakistan per equipagiare il caccia avrebbe portato 15 milioni di euro al consorzio ATE.
Le bombe di precisione sviluppate dalla Aviation Industry Corporation of China Defense (AVIC Defense) hanno catturato l’attenzione di Suleman presso l’Airshow di Zhuhai, provincia del Guangdong, in Cina. “E’ l’ideale per le operazioni anti-insurrezione”, ha detto Suleman.
Suleman ha anche rivelato che il Pakistan potrebbe ordinre avanzati sistemi missilistici di difesa provenienti dalla Cina, tra cui i sistemi missilistici Superficie-Aria (SAM).

a cura di B. Raman Paper no. 4.177 19 novembre 2010

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Il ruolo francese nell’accerchiamento dell’Iran

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L’Iran è ormai da tempo al centro di una fitta rete di tensioni geopolitiche e intrighi diplomatici.
Attualmente è Teheran il bersaglio grosso che fa gola a tutte le potenze globali, per portare la Repubblica Islamica stabilmente nel proprio campo (è il caso della Russia) o per piegarla ai propri diktat, come nel caso degli Stati Uniti.
Nella partita iraniana l’Europa gioca, come sempre, su più tavoli; ciascuno Stato membro, dietro a una facciata di unità di intenti, persegue i propri interessi specifici. Nel caso dell’Iran abbiamo una forte schizofrenia tra gli interessi di natura economica (i rapporti commerciali di Paesi come Germania e Italia sono storici e strettissimi) e quelli politici. Da questo punto di vista l’approccio delle cancellerie europee alla questione-Iran continua ad essere influenzato dalla voce grossa della Casa Bianca, che è addirittura arrivata a imporre agli europei sanzioni… contro loro stessi.
Questo articolo si concentra però su un Paese specifico, la cui tensione con Teheran si è recentemente ancora più innalzata rispetto agli altri: la Francia. Al recente summit strategico della Nato a Lisbona, il più duro e il più risoluto degli astanti nell’attaccare l’Iran è stato proprio Nicolas Sarkozy.
I rapporti franco-iraniani sono sempre stati di una complessità non indifferente, e sono sempre stati leggibili a diversi livelli. In Francia trovarono rifugio diversi dissidenti del regime di Reza Pahlavi, inclusi Ali Shariati (il teorico del Socialismo Islamico) e lo stesso Khomeini. Fatto di cui col senno di poi a Parigi devono essersi pentiti. Già durante l’esilio il governo francese era indeciso sul trattamento da riservare all’ayatollah. Scartata l’idea di espellerlo per poterlo controllare meglio ed evitare che si rifugiasse in Paesi ostili come la Siria o la Libia (si vedano le memorie dell’ex consigliere governativo Alexandre de Marenches), i francesi considerarono anche l’opzione di eliminarlo fisicamente loro stessi. Lo stesso de Marenches cita al riguardo una proposta avanzata allo Scià dal principe Michel Poniatowski in visita ufficiale a Teheran. In seguito al ritorno in patria e agli eventi del 1979, fu proprio il governo francese uno dei più rigidi nei confronti della neo-proclamata Repubblica Islamica. Il primo passo fu la sospensione del programma nucleare congiunto che i francesi avevano concordato con lo Scià. Pahlavi aveva infatti stipulato con la società francese Cogéma (di proprietà statale) l’accordo per istituire la Sofidif (Società Franco-iraniana per l’arricchimento dell’uranio per diffusione gassosa), una sussidiaria del consorzio europeo Eurodif. Accordo che Miterrand fece prestissimo a cancellare una volta deposto Pahlavi. Questo, si badi, nonostante l’Iran avesse già versato più di un miliardo di dollari nelle casse della società mista. Si può dire senza esagerare che fu da questo lontano episodio del 1982 che affonda le sue radici l’attuale querelle sul dossier nucleare iraniano. Solo una decina di anni dopo, nel 1991, la Francia riconobbe agli iraniani un risarcimento pari a più di 1,6 miliardi di dollari. All’annullamento dell’accordo fece seguito l’irrigidimento dei rapporti tra Parigi e Teheran.
Si ha poi la data-spartiacque del 1980, l’inizio della guerra di otto anni imposta dall’Occidente all’Iran contrapponendolo all’altro Stato forte della regione, l’Iraq baathista di Saddam Hussein. Parigi ha sempre vantato stretti legami con gli irakeni, come dimostra anche la fiera e orgogliosa opposizione all’invasione angloamericana del 2003 del presidente Chirac, vero capofila del fonte internazionale contrario all’intervento. Gli interscambi commerciali (civili e militari) di Baghdad con Parigi all’epoca erano secondi solo a quelli con l’Unione Sovietica. Il reattore nucleare irakeno di Osirak, costruito a sud di Baghdad e distrutto dagli israeliani nel 1981, venne costruito col determinante contributo della Francia. A questo quadro generale si aggiungeva una notevole dipendenza francese dal petrolio irakeno.
Il supporto del governo di Miterrand all’Iraq durante il conflitto fu imponente: in particolare per quanto riguarda l’aeronautica, con oltre 100 caccia Mirage F-1 e cinque bombardieri Super Etendard, all’avanguardia per l’epoca. In più, diversi elicotteri d’assalto, fra cui i Puma e i richiestissimi Gazelle, e una varietà di munizioni ad alta precisione (i missili Exocet). Questi i rifornimenti pubblicamente ammessi. Inoltre, si verrà a sapere anni dopo, attraverso la presunta intercessione del trafficante internazionale di armi Sarkis Soghanalian (molto vicino all’amministrazione Reagan) giungeranno in Iraq diversi carri armati AMX-30. Qui cominciano i primi duri contrasti tra Parigi e Teheran. La ritorsione iraniana per l’aiuto francese agli irakeni ha come teatro il Libano. Uno dei principali motivi del contrasto tra i due Paesi risiede nel fatto che la Repubblica Islamica ha esteso la propria influenza politica in aree del Vicino Oriente in cui la Francia giocava fino ad allora un ruolo di primo piano. Soprattutto nel Levante, ovvero le ex colonie Siria e Libano. Anche oggi la Francia aspira a tornare punto di riferimento geopolitico per quest’area, come dimostra l’iniziativa di Sarkozy di istituire l’Unione per il Mediterraneo nel 2008 nella speranza di sganciare Damasco dall’amicizia con l’Iran. Speranza presto disillusa.
Nel pieno della guerra civile libanese, Parigi (che ha sempre considerato Beirut come suo feudo) partecipa con un contingente di 1500 paracadutisti al mandato della Forza Multinazionale, composta anche dai marines statunitensi e dai soldati italiani. Il mandato politico di francesi e statunitensi, squilibrato in favore di una fazione (quella maronita) a differenza della neutralità italiana, costò gli attentati suicidi che colpirono i rispettivi quartier generali dei due eserciti il 23 ottobre 1983 (241 morti tra i marines e 58 tra i parà transalpini). Inoltre il confronto si focalizzò anche sul rapimento di diversi cittadini francesi da usare come moneta di scambio per la squadra di agenti iraniani che aveva tentato di eliminare a Parigi l’ex primo ministro dello Scià, Shapour Bakhtiar. Il responsabile operativo dell’azione, Annis Naccache, venne rilasciato assieme ai suoi quattro compagni il 27 luglio 1990. In cambio Miterrand promise anche agli iraniani di espellere alcuni influenti esuli fuggiti in Francia dopo il 1979.
Promessa mai mantenuta. Nei decenni successivi, infatti, Parigi si è affermata come vero epicentro della dissidenza iraniana all’estero. Addirittura non è scorretto affermare che tutte le campagne propagandistiche rivolte strumentalmente contro Teheran negli ultimi anni sono partite proprio da Oltralpe, prima ancora che dalle altri capitali ostili alla Repubblica Islamica come Washington e Tel Aviv. Questo per una ragione ben precisa: è a Parigi che ha sede la più grande centrale politica di destabilizzazione dello Stato iraniano, ovvero il sedicente Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, braccio politico dell’Organizzazione dei Mujaheddin del Popolo dell’Iran (Pmoi). I Mujaheddin del Popolo, inizialmente nemici del regime dello Scià al fianco dell’opposizione islamica, furono espulsi dal Paese dopo la Rivoluzione, per via della loro visione marxista-leninista incompatibile col nuovo corso politico. Da lì in poi, la loro opposizione alla Repubblica Islamica diverrà talmente disinvolta da fargli meritare l’appellativo di “monafeqin” (“ipocriti” in lingua farsi). Nel corso dei decenni si sono alleati con chiunque si schierasse contro l’Iran. Da Saddam Hussein, che gli concesse come base la cittadella di Ashraf (teatro di scontri con l’esercito irakeno un anno fa), e al cui fianco combatterono contro il loro stesso Paese, per arrivare a contatti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, nonostante figurassero nella black list dei gruppi terroristi (rimossi da quella della UE solo nel 2009). Recentemente le pressioni per toglierli dalla lista delle organizzazioni terroristiche si sono alzate anche negli Usa. I Mujaheddin, la cui leadership è saldamente nelle mani di Maryam Rajavi (moglie del fondatore Massoud), rifugiata a Parigi sin dal 1982, hanno abbandonato la vecchia ideologia marxista-leninista (sorpassata e piuttosto imbarazzante per i loro nuovi amici…) per puntare a un progressismo democratico all’occidentale, tutto incentrato sui diritti umani e sul politicamente corretto. Richiami alla separazione tra Stato e religione, ai diritti delle donne, e via dicendo: tutti i luoghi comuni tanto cari all’Occidente quando si tratta di attaccare la Repubblica Islamica. A Parigi hanno trovato terreno decisamente fertile, stringendo contatti bipartisan sia con ambienti della destra post-gollista sia con quelli socialisti radical-chic della sinistra al caviale. L’agibilità politica degli esuli iraniani in Francia è sempre stata totale, tanto da sollevare più di un dubbio al riguardo; l’unico episodio di un certo rilievo risale a una serie di perquisizioni nel 2003 per un’inchiesta poi archiviata in tutta fretta. Fra i contatti più stretti del Pmoi vanno annoverati tutti quegli intellettuali o presunti tali, paladini dei diritti umani. I cosiddetti “nuovi filosofi” alla Bernard-Henri Lévy e alla André Glucksmann, anche loro ex comunisti pentiti passati alla religione dell’occidentalismo, sempre in prima fila quando si tratta di difendere Israele e attaccare qualche Stato non allineato, che sia l’Iran o la Russia di Putin, e sempre degnati di grandi attenzioni dai principali mezzi di comunicazione (in Italia soprattutto dal Corriere della Sera). La recente mobilitazione globale sul caso Sakineh, ad esempio, parte proprio da questi ambienti, con momenti addirittura paradossali, come quando a inizio novembre è lo stesso Lévy a dichiarare (non si sa bene su quali prove) sulla sua rivista online che l’esecuzione della donna “sarebbe questione di ore”. Ovviamente congettura poi totalmente smentita dai fatti, ma l’obiettivo (tenere costantemente alta la pressione su Teheran) è raggiunto. Il ruolo di primo piano giocato dai francesi nella vicenda è stato presto percepito dagli iraniani, col corollario della polemica (molto scenografica ma politicamente poco rilevante) delle polemiche sulla premiére dame, la nostra –ex– connazionale Carla Bruni.
Ma non c’è solo questo. Anche l’annoso braccio di ferro sul dossier nucleare iraniano nasce proprio da rivelazioni fatte dai dissidenti iraniani in Francia. Rivelazioni risalenti al 2002, che sul momento passarono sottotraccia (si era in piena fibrillazione per un’altra bufala, quelle delle armi di distruzione di massa irakene), ma che in seguito si sono via via gonfiate. Vezzeggiata come perseguitata politica, forte di una organizzazione politica capillare, la Rajavi è stata più volte invitata a parlare al Parlamento Europeo, rilasciando dichiarazioni allarmistiche sulla presunta volontà di Teheran di entrare in possesso del nucleare a scopo militare, e invocando addirittura severe sanzioni contro il suo stesso Paese. Allo stesso tempo, anche i contatti con la destra statunitense si moltiplicano: è recente la visita a Parigi del falco neo-con John Bolton, così come sono frequenti i contatti con associazioni di esuli iraniani negli Usa, la cui opera di lobby per togliere il Pmoi dalla lista delle organizzazioni terroristiche sta riscuotendo sempre più consenso in seno al Partito Repubblicano.
In sintesi, una vera e propria opera di spionaggio e di manipolazione mediatica volta a isolare politicamente la Repubblica Islamica, a fronte di un sostegno popolare pressoché nullo (gli agenti provocatori infiltrati dai Mujaheddin all’interno dell’Onda Verde sono stati smascherati e neutralizzati senza troppi problemi dalle forze di sicurezza iraniane nel 2009).
Il tutto dall’esilio di lusso dei salotti bene parigini.

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Come Castro e Chávez hanno perduto le elezioni 2010

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Interessante soffermarsi sulle opinioni espresse dal Washington Post riguardo le conseguenze delle elezioni di mid-term negli Stati Uniti. Il punto di vista quasi istituzionale può essere illuminante sulle idee oggi diffuse negli Usa e i loro rapporti con l’America Indiolatina, di nuovo considerata giardino di casa.

Fonte: Woshington Post

Molti leader esteri hanno ragione ad essere rammaricati per il risultato ottenuto negli USA alle ultime elezioni di medio termine, dal Comitato norvegese del Nobel per la Pace al Presidente russo Dmitry Medvedev.
Tuttavia, se esiste un vero sconfitto non-americano dal voto di martedì (2/11/2010, NdR) quello deve essere Raúl Castro.
Da mesi, il Dittatore cubano e suo fratello Fidel, ormai verso il pensionamento, hanno intrapreso un’attraente offensiva mirata all’amministrazione Obama e al suo Congresso.
Hanno spedito alcuni prigionieri politici in esilio; hanno invitato giornalisti americani all’Havana; hanno incoraggiato i Cardinali di Cuba appartenenti all’Ordine della Chiesa Cattolica di sostenerli (Obama e la sua amministrazione, NdT) facendo pressione su Washington. Fidel ha perfino denunciato l’antisemitismo.
Gli scopi erano ovvi: ottenere dagli Stati Uniti l’attenuazione delle sanzioni imposte su Cuba, in tempi in cui l’economia del paese ha disperatamente bisogno d’aiuto. In particolare, i fratelli Castro hanno sperato nell’abolizione del bando di transito dei turisti americani – evento che secondo i calcoli avrebbe portato, nelle spiagge cubane, una piena di turisti statunitensi e un importante flusso di moneta.
In poche parole, un incentivo a legiferare proprio su ciò che ancora è in sospeso fra le decisioni del Congresso.Nonostante tutto, le vittorie dei repubblicani alla Camera dei Rappresentanti e la vittoria ottenuta da Marco Rubio come prossimo senatore repubblicano della Florida, quasi certamente, significano che i desideri dei fratelli Castro non verranno esauditi.Rubio, figlio di rifugiati cubani, ha già promesso, nel suo toccante discorso di vittoria, che mai dimenticherà la comunità esiliata da cui proviene.
Il che significa con tutta probabilità, che ogni misura pro-Castro avrà bisogno di 60 voti per passare al Senato degli Stati Uniti (il passaggio delle principali leggi al Senato necessita di una maggioranza qualificata di 60 voti, dei 100 disponibili, che consentono di evitare il diritto dell’opposizione di fare ostruzionismo; fenomeno che con i nuovi seggi ottenuti dai repubblicani sarà ancora più forte, NdT).

Ancora più rilevante, il cambio di poltrona all’interno del Comitato della Camera degli Affari Esteri, che sotto il potere repubblicano pare sarà presieduta da Ileana Ros-Lehtinen, nata all’Havana e difensore dei diritti umani degli abitanti di Cuba.
Il Presidente uscente, il democratico Howard Berman, ha deciso nel settembre scorso di rimandare il voto sul progetto di legge riguardante l’eliminazione del divieto di viaggio. Decisione che con la leadership di Ros-Lehtinen, molto probabilmente, sarà sepolta per sempre.

Le cattive notizie per la sinistra Latina non finiscono qui.
Ros-Lehtinen è stata in passato una critica dichiarata del “caudillo” venezuelano Hugo Chávez e dei suoi alleati, come il nicaraguense Daniel Ortega e il boliviano Evo Morales.
Le prove dell’amministrazione Obama volte a “resettare” le relazioni con Chávez e Morales, sembrano dunque volgere verso un critico e minuzioso esame da parte della nuova guida degli Affari Esteri.

Nel frattempo, qualche vecchia guardia sta per abbandonare la partita.
Bill Delahunt (Distretto del Massachusetts), membro degli Affari Esteri, fra i più grandi apologisti di Chávez all’interno del Congresso, è in procinto di ritirarsi. Allo stesso modo anche Chris Dodd, senatore democratico del Connecticut, da tre decadi il favorito della sinistra latina, difensore di Chávez fin dagli inizi del suo mandato, e sopratutto un regolare critico del suo (di Chávez, ma anche della sinistra latina, NdT) principale rivale, il Governo democratico della Colombia.
Grazie a questo cambiamento congressuale, le possibilità della Colombia di ottenere la ratificazione dell’accordo di libero commercio con gli Stati Uniti, sono incrementate considerevolmente.

Le cattive notizie provenienti da Washington aggravano ciò che è stata una serie di sconfitte per Chávez, i fratelli Castro e i suoi sodali. Sia Cuba che il Venezuela stanno economicamente colando a picco, sebbene il resto della regione stia crescendo forte fuori dalla recessione.
Chávez ha perso il voto popolare e dozzine di seggi nel suo Congresso durante l’ultima tornata elettorale avvenuta il mese scorso (26/09/2010, NdR).
La settimana passata (l’articolo risale al 4 novembre 2010, NdR) è stata protagonista dell’improvvisa morte dell’ex-Presidente argentino, Nestor Kirchner, stretto alleato di Caracas; così come le elezioni presidenziali del Brasile della scorsa domenica (31 ottobre 2010, NdR) hanno rimpiazzato il carismatico Luiz Inacio Lula de Silva, con una tecnocrate senza fascino che paia inverosimile possa ricoprire il ruolo di Lula come leader della regione.

Il tanto celebrato impeto della sinistra latina sembra volto all’indebolimento. E il nuovo assetto politico di Washington si assicurerà che gli Stati Uniti non possano rinvigorirlo.

(Traduzione a cura di Stefano Pistore)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Giappone: tecnologia e “soft power”

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Ogni Stato nazionale esercita il proprio potere e la propria influenza sugli altri attori internazionali attraverso due principali strategie: la prima, definita hard power, si basa sulla forza coercitiva che lo Stato pone in essere attraverso la forza militare; la seconda è invece definita soft power, in cui la capacità attrattiva dello Stato si esprime attraverso modalità che esulano da politiche aggressive e che ricorrono, ad esempio, all’intervento bellico. Il termine “soft power” fu coniato da Joseph Nye, professore universitario ad Harvard, per definire il modo in cui gli Stati raggiungono il proprio scopo nella politica internazionale attraverso un’azione persuasiva piuttosto che per mezzo della coercizione.

I governi hanno da sempre utilizzato il proprio potere militare ed economico per raggiungere gli obiettivi nazionali ed accrescere il proprio potere. Tuttavia, la diplomazia culturale, intesa come la possibilità per un paese di costruire efficacemente un’immagine favorevole di sé a livello internazionale, è sempre stata un punto focale della politica estera sin dai tempi dell’antica Grecia. L’esperienza ellenica, attraverso le poleis, e l’antica Roma con il suo impero, fecero della diplomazia un abile strumento di propaganda capace di garantire l’attrazione esercitata sui popoli assoggettati. Nel diciassettesimo secolo la Francia indicò le politiche di soft power tra le principali risorse per lo Stato centrale. Successivamente, nel periodo tra le due guerre, i Ministeri degli Affari Esteri di ogni Stato si dotarono di dipartimenti per la costruzione e la diffusione dell’immagine nazionale a livello internazionale. La nascita della radio apportò alla diplomazia culturale un poderoso strumento di comunicazione. Oggi, decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’uso del soft power si è affinato al punto di diventare fondamentale nella politica estera degli Stati moderni. In un mondo globalizzato caratterizzato da molteplici collegamenti transnazionali, gli strumenti diplomatici e dell’espressione della potenza statuale includono non solo l’”hard power”, ossia l’uso della forza militare ed economica per trattare o indurre altri a cambiare o rafforzare la propria posizione, ma anche il “soft power”, cioè l’abilità di ottenere i risultati desiderati attraverso la costruzione di un’immagine dello Stato attraente per l’opinione pubblica internazionale, piuttosto che tramite la coercizione e la riscossione di debiti contratti da parte di uno Stato nei confronti di un paese egemone. Gli Stati non devono solo gestire la propria forza militare, ma hanno anche la possibilità di esercitare una certa influenza a livello globale, tanto che l’abilità di influenzare gli altri attraverso la combinazione dell’hard e del soft power è stata denominata “smart power”.

Il soft power giapponese si è imposto in Asia per decenni e continua ancora oggi a costituire un nodo centrale nella costruzione dell’equilibrio regionale del Pacifico asiatico. La cultura tradizionale giapponese, insieme alle nuove tendenze sociali e al nuovo stile di vita del paese, fino ad arrivare al commercio degli ultimi prodotti di animazione, esercita una certa attrattiva per le popolazioni non giapponesi. Nonostante nell’ultimo decennio il crollo economico abbia rappresentato una battuta d’arresto per le politiche economiche giapponesi, le risorse e la forza del soft power rimangono intatte. L’influenza culturale a livello globale esercitata da parte del paese è cresciuta con una certa consistenza tra varie disavventure politiche ed economiche, e, a livello internazionale, in comparti che comprendono la moda, il cibo, la musica, il consumo elettronico, l’architettura e l’arte. La tradizionale disciplina spirituale come il Buddismo Zen e le arti marziali giapponesi hanno ispirato visitatori ed emulatori negli ultimi decenni. Inoltre, la ripresa giapponese della seconda metà del secolo ha reso il Giappone un luogo più sicuro economicamente, sostenendo lo sviluppo del soft power del paese. È altresì importante notare come il Giappone moderno sia assurto al rango di superpotenza culturale.

Il peso economico e diplomatico del paese del Sol Levante sembrava essersi ridotto di molto nell’ultimo decennio, anche in seguito all’emergere di due superpotenze economiche asiatiche come la Cina e l’India. Ciò nonostante il Giappone ha rafforzato la propria influenza negli ultimi dieci anni in una crescente varietà di aree culturali. Tra queste da annoverare sicuramente il commercio delle piattaforme multimediali di intrattenimento, le auto ibride, e punte di eccellenza come le green technology. I sondaggi dimostrano come il Giappone negli ultimi anni abbia accresciuto la propria influenza a livello planetario nel campo delle tecnologie prima annoverate. Un’indagine del 2009 effettuata dalla British Broadcasting Corporation dimostra come su 21 paesi il Giappone si attesti al quarto posto nella classifica riguardante il gradimento di un paese all’estero, mentre gli Stati Uniti siano meno popolari e si posizionino solo al decimo posto. In base a quanto affermato da Yoshikazu Tarui, membro del Partito Democratico e capo di un gruppo di parlamentari unitisi con lo scopo di promuove il Giappone ed i principali prodotti digitali, ha affermato che “il Giappone spicca per la sua cultura pop a livello internazionale, e che “i giapponesi hanno bisogno di trovare un significato che valorizzi questo vantaggio”. Ha poi aggiunto: “I prodotti di animazione giapponesi hanno raggiunto un riconoscimento a livello internazionale dovuto all’impegno nella qualità e nel dettaglio”.

Durante la bolla economica degli anni ’80, l’economia giapponese ha cercato di accrescere il giro d’affari proponendo all’estero i propri prodotti culturali, esercitando delle pressioni sugli altri paesi. Tuttavia, una volta la sua immagine di feroce competitor commerciale ha raggiunto una fase di declino, la reputazione del paese ha cominciato a cambiare volto e l’essenza di Tokyo come partner mondiale ad essere più largamente accettata. Si è così largamente diffusa la cultura pop giapponese, di pari passo con il commercio e l’utilizzo delle piattaforme multimediali di intrattenimento. Il soft power giapponese ha così mosso definitivamente i suoi primi passi ricavando un profitto economico elevato per il paese: secondo quanto affermato dalla Japan External Trade Organization, Tokyo ha venduto 6.5 milioni di prodotti legati all’industria del divertimento negli Stati Uniti solo nel 2008.

Shigeru Miyamoto, una delle figure più autorevoli della Nintendo, la famosa multinazionale produttrice di tecnologia, e l’artista Takashi Murakami, il quale si affida per la creazione dei suoi prodotti alla cultura ”otaku”, sono entrambi nella lista del settimanale Time delle 100 persone più influenti degli ultimi anni, accanto a Hayao Miyazaki, che vinse l’Oscar nel 2003 per il film di animazione “Spirited Away”. A dispetto dei film di animazione che hanno venduto meno negli Stati Uniti negli ultimi anni, lo stile giapponese dei “manga” ha avuto un grande successo: le vendite di fumetti “manga” in America del Nord sono triplicate da 60 milioni nel 2002 a 180 milioni nel 2005, raggiungendo i 200 milioni nel 2006. Nel suo libro del 2006, Tomoyuki Sugiyama, il fondatore di Digital Hollywood, una scuola di Tokyo per artisti e designers digitali, dal titoto “Cool Japan: Why the World is Buying Into Japan”, spiega in che grado ed in che termini le industrie possono giocare un ruolo chiave nel futuro economico del paese. Sugiyama afferma che l’evoluzione della tecnologia digitale ha accelerato l’integrazione delle industrie che precedentemente operavano in maniera indipendente, generando prodotti di maggiore complessità e favorendo in questo modo la fuoriuscita del Giappone dalla stagnazione economica. Ma che la visione di Sugiyama sia concretamente valida potrebbe dipendere in parte da quanta importanza il Partito Democratico Giapponese, attualmente al potere, dia all’evoluzione tecnologica.

Negli ultimi anni i prodotti industriali hanno vissuto un periodo di transizione. A causa dell’invecchiamento continuo e costante della popolazione giapponese, i produttori sono costretti ad adattare i prodotti per una clientela sempre più in là con l’età. Taizo Shinya, capo delle relazioni pubbliche dell’organizzazione non profit Visual Industry Promotion Organization (VIPO), ha affermato che per superare le difficoltà contingenti e per incrementare la competitività industriale a livello internazionale, sarebbero necessari degli aiuti da parte del governo e maggiori sinergie tra i diversi attori industriali. Con 130 membri associati, che includono i più grandi nomi tra i media giapponesi, la VIPO promuove l’industria del divertimento in Giappone, producendo film, anime, video games, musica e libri. “I governi di Corea del Sud, Cina, Stati Uniti e Francia – ha affermato Shinya – sono tutti attivamente coinvolti nella promozione industriale. Il Giappone, per rimanere competitivo, ha bisogno sia della cooperazione tra le varie industrie che del sostanziale aiuto da parte del governo”. Dal 2007, la VIPO partecipa alla CoFesta (Japan International Content Festival), un evento che si tiene ogni autunno per presentare le produzioni giapponesi in tutto il mondo. Il festival è cresciuto progressivamente: nel 2009, più di un milione di persone hanno assistito ai suoi 18 eventi, che includevano il Tokyo Game Show, il Tokyo International Film Festival e il Japan Fashion Week a Tokyo. Tomoharu Ishikawa, direttore della produzione di CoFesta, ha affermato che il Giappone, rispetto agli altri paesi, riceve molti meno sussidi per la produzione di contenuti artistici ed innovativi. “Tecnicamente, il governo dovrebbe investire di più nel coltivare le risorse umane e lo sviluppo di nuovi mercati” ha detto Ishikawa. “Abbiamo bisogno di un’organizzazione in grado di guardare oltre e aiutare l’industria intera”. La recessione però non semplifica la situazione, anzi rallenta i flussi finanziari diretti anche verso il Sol Levante, diminuendo gli emolumenti dell’indotto commerciale. La VIPO ha protestato per i tagli drastici della spesa statale sulla promozione dell’industria del divertimento a livello locale. Il Ministro dell’Economia, del Commercio e dell’Industria ha stanziato 1,87 miliardi di yen per il 2009, prevedendo dei tagli degli investimenti pari al 43% per il prossimo anno, in linea con il piano di austerità varato dal Governo. Il 10 Dicembre del 2009, in una dichiarazione indirizzata al Ministero, la VIPO ha sottolineato l’importanza della ricerca industriale, sostenendo che essa rappresenta uno dei settori fulcro per accrescere la competitività globale del paese e contribuire alla futura crescita giapponese: la diffusione della cultura giapponese nel mercato internazionale sarebbe dunque un’importante fonte di guadagno, grazie all’industria dell’intrattenimento e della tecnologia, determinando così l’aumento del PIL nazionale. Ishikawa ha poi affermato che il governo ha inteso l’importanza degli investimenti industriali culturali, ma si è ancora assistito a nessun sforzo tangibile in questa direzione. “Speriamo che il Partito Democratico Giapponese ci presenti una strategia di crescita plausibile” ha aggiunto. Tuttavia Tarui, il legislatore del vecchio governo del Partito Democratico, ha affermato che i politici giapponesi tendono a sottostimare l’importanza della cultura popolare. “In realtà, la competitività dell’industria dell’intrattenimento e il potere nazionale sono spesso proporzionati”. Il Giappone è determinato nel costruirsi un’immagine da paese leader nel campo della tecnologia. In questo senso, il governo è disposto ad investire in grande misura. Il potenziale c’è, e le multinazionali come la Sony e la Panasonic stanno compiendo passi da gigante per i prossimi appuntamenti di portata mondiale (basti ricordare l’idea della creazione di ologrammi dei calciatori in occasione dei Mondiali di calcio del 2020).

Il soft power giapponese emana anche da alcune delle sue politiche ufficiali come la sua “Costituzione Pacifica” e il suo supporto alle Nazioni Unite. La fornitura all’Ufficio per l’Assistenza e lo Sviluppo a molti paesi, così come i programmi di scambio supportati, come ad esempio la mobilità degli insegnanti stranieri in Giappone, hanno creato un immenso benessere. Il Giappone ha dato inoltre i natali a sette delle 25 aziende più importanti al mondo e a tre delle 25 multinazionali più rilevanti per marchio al mondo, ossia la Toyota, la Honda e la Sony. Tuttavia, nonostante il Giappone disponga di questa sua forte diplomazia culturale che si tramuta in potere economico, ci sono alcuni limiti allo sfruttamento di questo tipo di politiche. Il Giappone sta affrontando dei cambiamenti demografici molto importanti e la sua lingua nazionale non è parlata ovunque in tutto il paese, mentre la lingua inglese non è praticata in maniera efficiente, rendendo così difficile attrarre talenti da ogni parte del mondo nelle sue università. Inoltre, sebbene la cultura giapponese sia aperta alle influenze provenienti dall’estero, non c’è un supporto né politico né pubblico all’immigrazione e agli immigranti. Riconoscendo la necessità di relazioni pubbliche più forti, il Giappone si è mosso in maniera più decisa attraverso la campagna chiamata “Visit Japan”, per la quale ha stanziato 17 milioni di dollari. Ma se ciò potrebbe aiutare il settore turistico, la conferma di un soft power penetrante, nel lungo periodo, richiede un impegno maggiore, anche per quanto riguarda l’attitudine nei confronti degli stranieri. Alcune scelte politiche non del tutto condivisibili, come ad esempio le visite frequenti dell’ex primo ministro Koizumi a Yasakuni, un santuario scintoista dedicato alle vittime militari e civili perite in combattimento per la difesa dell’imperatore, hanno ridotto la popolarità del Giappone nella regione asiatica del nord est e del sud est e hanno allentato l’effetto positivo del soft power nella cultura. Tuttavia, la popolarità crescente della moderna cultura giapponese può aiutare a compensare la negatività che circonda gli storici problemi legati a quanto accaduto in situazioni di conflitto nei secoli precedenti, colmando le inimicizie presenti in particolare con la Cina e la Corea. Dall’altro lato, il suo soft power culturale produce già dei dividendi per il suo potere economico complessivo.

I limiti del soft power giapponese

Sin dalla prima guerra del Golfo, alcuni conservatori giapponesi come Ichiro Ozawa, leader del Partito Democratico del Giappone, hanno sostenuto l‘idea che il Giappone divenisse una nazione “normale”, intendendo per tale uno Stato che respingesse l’articolo 9 della Costituzione ed aumentasse le sue capacità militari, in maniera tale da partecipare attivamente alle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. Dato che il Giappone è situato in un contesto regionale pericoloso e che gli Stati Uniti vogliono farsi carico del grosso fardello rappresentato dalle politiche di sicurezza nella regione, i difensori dell’hard power affermano che il Giappone non può più nascondersi a lungo dietro il suo pacifismo unilaterale. Un analista della CIA, William Middlebrooks, a tal proposito, ha affermato che il Giappone dovrebbe abbandonare il dettato dell’art.9 Cost. affrontando i sospetti diffusi tra i giapponesi che costituiscono effettivamente un grande ostacolo. I leader giapponesi, dal canto loro, si scontrano con la questione, ormai divenuta di ordine pubblico, sulla difficoltà di una crescente cooperazione con gli Stati Uniti nell’ambito della sicurezza (si deve ricordare a tal proposito la querelle sulla base di Okinawa), e continuano a nutrire forti dubbi sullo svolgimento delle guerre in Iraq ed in Afghanistan. Da un punto di vista regionale, è chiaro come sia diffuso un forte anti-nazionalismo giapponese, e che divenga sempre più necessario un piano di sicurezza maggiormente efficace. Il saggio edito da Yasushi Watanabe e David L. McConnell, dal titolo “Soft Power Superpowers” riassume le tematiche più pregnanti del connubio tra soft power ed hard power nel sud-est asiatico, andando al cuore del problema. Di fatto, si legge nel saggio, non c’è nulla che suggerisca l’assunzione a superpotenza per il Giappone, sebbene il suo fascino sulla cultura internazionale rimanga indiscusso. Tra l’altro, gli autori si focalizzano perlopiù sui limiti del soft power piuttosto che sulle sue reali possibilità. Uno dei nodi gordiani della questione è rappresentato dal fatto che gli strumenti di soft power, in molti casi, non sono sotto il controllo del governo, e che gli esecutivi, per cercare di applicare tali strumenti, rischiano di perdere la propria legittimazione e la propria influenza. In termini di soft power, i “manga” e le “anime” non possono tradursi in una reale influenza dello Stato sulle altre nazioni, e, come affermano Yoshiko Nakano e Anne Allison, è un errore credere che la cultura stabilisca una chiara corrispondenza con la nazione o possa essere utilizzata dalle autorità. Naoyuki Agawa, funzionario presso l’Ambasciata giapponese a Washington dal 2002 al 2005, descrive come il Giappone effettivamente intraprenda misure di diplomazia culturale con gli Stati Uniti per migliorare l’immagine che il Giappone ha in America, modellando così di conseguenza le politiche di governo. Ma Yasushi Watanabe nota a sua volta come la percezione della cultura giapponese negli Stati Uniti sia fortemente deteriorata. Il saggio getta dunque chiarezza sulla globalizzazione della patrimonio culturale giapponese, e dimostra come il soft power del Sol Levante disponga ad oggi di potenzialità limitate.


* Alessia Chiriatti è dottoressa in Sistemi di comunicazione delle relazioni internazionali (Università per stranieri di Perugia)

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La floscia spada della prode Gabanelli all’assalto di Finmeccanica

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1. François de La Rochefoucauld sosteneva essere l’ipocrisia un omaggio che il vizio rende alla virtù. Cambiando invece radicalmente cornice, registro e statuto teorici, Niccolò Machiavelli annoverava, tra le virtù del Principe, la capacità di farsi simulatore e dissimulatore, ove ciò sia funzionale alla conservazione del potere (a sua volta diretta alla stabilità e potenziamento dello Stato, ecc.) . Ed il poeta barocco Torquato Accetto, nel suo trattatello Della Dissimulazione Onesta, di cui si sono rilevate le ascendenze anche nell’opera del sommo pensatore fiorentino, avrebbe propugnato – secondo un’inconsueta interpretazione politica di quel testo –  la necessità, nelle “cose” politiche, di essere accorti e prudenti sulla base del calcolo dei rapporti di forza esistenti in quel dato momento, alla ricerca del momento opportuno, del kairos in cui agire, sottomettendo così l’impulso alla ragione.

Ma tutto questo solamente per sottolineare come qui si riconosca senza riserve l’importanza della prudenzia (proprio nell’accezione machiavelliana del termine, e quindi non in senso assoluto, poiché, quando la prudenza diventa regola assoluta, trasmoda in paludosi attendismo ed inerzia), unitamente alla forza, per aspirare, in modo non velleitario, alle “grandi fortune” nell’agire politico. Ma, appunto, “nell’agire”, ossia nel bel mezzo dell’attuazione di un dato progetto. Quando invece si intende analizzare fatti di rilevanza politica ed in genere pubblica, e lo si pretende fare in quella veste di osservatore esterno che nel nostro attuale assetto sociale trova incarnazione per lo più nella figura del giornalista d’inchiesta, allora la necessità dell’ipocrisia dovrebbe venire meno.

E ciò per lasciare spazio ad una ricognizione della realtà non soltanto priva di imbellettature ma anche, per quanto possibile, non limitata a quegli aspetti che servono a confermare, o a suggerire, l’esattezza di una propria convinzione, bensì capace di vedere anche circostanze idonee a confutare o quantomeno a rendere problematica, relativa, non perentoria tale convinzione. Non certo perché ho il gusto per la “complessità” in sé. Semmai, ho interesse alla decostruzione di discorsi in base al loro stesso principio di funzionamento, cercando di mostrarne lacune ed aporie, tanto più quando tali discorsi si ammantano della patina dell’Evidenza (perché accade che sovente l’evidenza è soltanto il nome con cui si designa l’applicazione pigra, seppure comprensibile per l’economia nel dispendio di energia mentale che essa consente, di schemi cognitivi dettati dall’abitudine o dalla convenienza sociale).

2. Ecco, il servizio principale della puntata del programma televisivo Report trasmessa domenica 21 novembre 2010, mi sembra abbia invece esibito un concentrato di quella stessa ipocrisia da cui pure si compiace essere esente, il tutto calato in una narrazione tanto sovraccarica di “fatti” quanto, però, omissiva ed allusiva negli snodi cruciali. Vediamo.

Intitolato “La famiglia Finmeccanica”, il servizio ha trattato dell’indagine penale condotta dalla Procura di Roma la quale, coinvolgendo talune attività di questa holding industriale, ha portato sinora all’arresto, tra gli altri, di Lorenzo Cola, presunto consulente economico di Pierfrancesco Guarguaglini, presidente ed amministratore delegato di Finmeccanica. Più in particolare, ed in estrema sintesi, l’ipotesi investigativa degl’inquirenti capitolini s’incentra sulla costituzione di “fondi neri” effettuata (anche) a favore di Finmeccanica mediante il trasferimento del 51% delle quote sociali della Digint S.r.l. (il cui 49% è invece di proprietà di Finmeccanica) da una fiduciaria lussemburghese ad altro soggetto (Mokbel, già arrestato nell’ambito di altra indagine), il quale le avrebbe acquistate con denaro di provenienza illecita versato al citato Lorenzo Cola, quale incaricato di Guarguaglini.

Un dato è balzato subito agli occhi: nel corso del servizio non si è indicata alcuna prova regina del coinvolgimento di Guarguaglini. Ci si è inebriati con una girandola di nomi, interviste pregne di considerazioni banali e però suggestive (di una suggestività da feuilleton, invero, che irradiava dalla sfilata del corteo composto da Soldi-Armi-Servizi segreti-Potere), e tuttavia, oltre l’affermazione per cui Cola è stato arrestato per riciclaggio, non si è potuti andare.

Cosi, per colmare la lacuna, si è puntato tutto sull’insinuazione e sull’analogia.

3.  Sull’insinuazione. Muovendo dalla premessa che Cola, accusato di riciclaggio, è consulente di Guarguaglini, si è lasciato intendere che allora dominus dell’attività supposta illecita altri non potrebbe essere che Guarguaglini. Non prendendosi minimamente in considerazione, tuttavia, che, anche ammesso che Mokbel abbia trattato e concluso la cessione della Digint con Cola, quest’ultimo, per come sembra presentarsi, ben potrebbe avere gestito in proprio l’operazione con Mokbel stesso; oppure – altra ipotesi – condotta dietro sollecitazione della Ernst & Young, che ha inteso proporla a Finmeccanica tramite, appunto, Cola, che avrebbe così assunto la veste di collaboratore della menzionata banca d’affari d’origine statunitense. Proprio a questo proposito, Report intervista un dipendente di quest’ultima, tal Giuseppe Mongiello, il quale esclude che Cola ne fosse consulente. Eppure lo stesso Mongiello dichiarò, secondo quanto riportato dai quotidiani nel luglio 2010, che la maggioranza (il 51%) delle quote della fiduciaria lussemburghese che, come visto, controllava a sua volta la Digint (con il 51%), erano state intestate provvisoriamente alla propria moglie, in attesa di una loro ulteriore cessione. Dunque, una banca d’affari che non propone e promuove un’operazione di cessione societaria ma che avrebbe svolto soltanto servizi di consulenza dietro richiesta di Cola, e che tuttavia giunge ad intestarsi (addirittura tramite la moglie di un suo dipendente) le quote societarie oggetto dell’operazione stessa, come fosse interessata in prima persona alla stessa. La questione avrebbe quantomeno meritato un approfondimento degno della leggendaria diligenza degli eroici giornalisti di Report; ma così non è stato.

Ancora. Parte delle quote della finanziaria lussemburghese sono state acquistate da Nicola Mugnato, uno dei tecnici progettisti di un software della Digint particolarmente efficace ed evoluto, ed attualmente direttore generale della Digint stessa. Il giornalista di Report, intervistandolo, gli domanda sconcertato se sia normale e non preoccupante che i suoi soci della fiduciaria lussemburghese fossero occulti. Il tutto a voler enfatizzare ulteriormente l’anomalia dell’intera operazione. Eppure, quando nel gennaio 2010 la Repubblica pubblicò un articolo sulla Digint, menzionando anche l’esistenza di una fiduciaria lussemburghese che ne aveva il controllo, siffatta circostanza non sembrava certo uno scandalo, mentre il fuoco dell’articolo era tutto condensato nell’interesse di Finmeccanica, per il tramite del “nuovo fiore all’occhiello” (così veniva definita nell’articolo la) Digint, al settore della gestione delle intercettazioni per conto delle Procure. Pertanto, è solo ora ed in questo preciso contesto narrativo che il fatto che i soci della fiduciaria fossero, appunto, “schermati”, acquista la sua valenza evocativa. Per contro, valutata la cosa alla luce della pratica degli affari, ed in altro contesto, tale circostanza non era poi così sconvolgente (ed infatti tono e contenuti del citato articolo di Repubblica del gennaio 2010 non erano minimamente improntati allo scandalo).

4. Il procedimento analogico è stato, poi, come accennato, l’altro strumento usato per compensare carenze di elementi che inchiodino Guarguaglini. A tale strumento si è fatto ricorso nei passaggi effettivamente tra i più suggestivi (e suggestivamente speciosi) del servizio.

Il primo passaggio è rappresentato dall’intervista a Pacini Battaglia, finanziere noto per il suo massiccio coinvolgimento nelle vicende di “Tangentopoli”. Costui conferma che nel 1995 aveva costituito con Guarguaglini, che all’epoca era amministratore delegato della Oto Melara, una serie di società lussemburghesi che avrebbero dovuto ricevere una serie di commesse da Finmeccanica, così da valorizzarle per poi rivenderle, con notevoli plusvalenze, a quest’ultima. In altri termini, secondo Report si tratterebbe dello stesso metodo poi adottato con la Digint. Peccato, però, che Guarguaglini, nel 1995, era, come detto, amministratore delegato di Oto Melara, mentre a Finmeccanica giungerà soltanto nel 2002. Difatti, Pacini Battaglia è vago sul punto, asserendo che l’operazione sarebbe stata completata o con l’arrivo di Guarguaglini in Finmeccanica oppure perché “era molto amico della Finmeccanica”. Ma sul punto l’indomito intervistatore non ritiene di incalzare Pacini Battaglia, soddisfatto, evidentemente, dell’effetto evocativo indubbiamente generato dall’auto-abbinamento di quest’ultimo a Guarguaglini. Eppure, forse un po’ più di acribia sarebbe stata opportuna, se non altro perché ci si trovava pur sempre al cospetto di colui che ebbe a dichiarare: “Le bugie sono il mio mestiere”. Del resto, non va trascurato che, per la vicenda in parola, Guarguaglini fu bensì imputato ma assolto perché il fatto non sussiste. Peraltro, nel servizio viene precisato che intervenne l’assoluzione, ma sostenendo che questa fu ottenuta solo perché il progetto Pacini Battaglia-Guarguaglini non fu portato a termine. Senza rendersi conto che in questo caso si sarebbe configurato allora quantomeno il tentativo, e quindi la condanna. Ma allora non ha alcun senso logico affermare – come invece fa Gabanelli intervenendo dopo l’intervista in questione – che “nel ‘96 avevano scoperto i magistrati e oggi confermato dallo stesso Pacini Battaglia” proprio il sopradescritto progetto. Proprio perché ciò che è stato rigettato dal giudice, ossia il contenuto della tesi accusatoria, non può essere oggetto di alcuna conferma da chicchessia, tantomeno da un coimputato (assolto) quale Pacini Battaglia.

Il secondo passaggio è rappresentato dall’intervista ad un (anonimo) direttore dell’ufficio vendite di un’impresa produttrice di armi. Quest’ultimo rivela che, nel settore, tutte le imprese, per ottenere commesse, versano tangenti a funzionari e politici locali mediante la mediazione di agenti locali. Ergo, anche Finmeccanica sarebbe partecipe dello stesso meccanismo. Perfetto, nulla da obiettare; trattasi di per sé di spunto interessante. Tuttavia, in una trasmissione giornalistica seria, ossia tale da non procedere soltanto a tesi ma da esplorare quelle diverse linee di sviluppo che nel suo svolgimento essa stessa ha avuto il merito e/o la fortuna di lasciare intravedere, si sarebbe dovuto collegare quello spunto all’episodio costituito dall’acquisto da parte della Finmeccanica, in data 22 ottobre 2008, della DRS Technologies Inc., società statunitense avente un ruolo strategico nel settore della tecnologia degli armamenti e tra le prime fornitrici delle forze armate  e dell’intelligence USA.

Perché, applicando la regola di condotta suggerita dal suddetto anonimo direttore dell’ufficio vendite, ne viene necessariamente che qualche agente locale avrebbe intermediato e versato tangenti ad alti funzionari del Pentagono e/o politico di elevato livello (conformemente al grado d’importanza dell’affare) per l’acquisto della menzionata società statunitense. Peccato, perché sarebbe stato interessante estendere la valorosa inchiesta giornalistica anche in territorio statunitense per l’approfondimento di siffatto aspetto, d’indubbia rilevanza. Né può sostenersi che Report non avesse presente l’esistenza dell’avvenuto acquisto della DRS, dal momento che il programma si chiude proprio con il riferimento ad esso. Ma è riferimento che serve soltanto per far dire a Gabanelli che Guarguaglini, pagando la DRS 3 miliardi e mezzo di euro, ha gravato i suoi successori di un debito ingente da estinguere sino al 2022. Singolare impostazione, peraltro: si valuta un affare di questa portata economica (ed a volerne tacere quella strategico-politica), non quale investimento patrimoniale di Finmeccanica in immobilizzazioni, generatore o meno di reddito futuro (semmai era questo l’aspetto da stimare), bensì quasi come un debito personale di Guarguaglini, che lo stesso avrebbe scaricato sui suoi successori-persone fisiche. Bocciata in ragioneria, e per di più nei suoi fondamentali, dottoressa Gabanelli.

Ma, soprattutto, ritengo avrebbe meritato sviluppo su un piano più generale la regola (enunciata dal menzionato anonimo direttore dell’ufficio vendite e che si potrebbe definire) del “così fan tutte” (le imprese produttrici d’armi). Ma qui credo che l’omissione non dipenda soltanto da mala fede (che pure è probabile ci sia) o da un deliberato intento denigratorio (che pure non può escludersi) degli autori del servizio. L’omissione è per sistema; per l’abito mentale che normalmente indossa, ma come una vera e propria seconda pelle, la generazione, germinata eminentemente dalla seconda Repubblica, dei c.d. giornalisti d’inchiesta che “vanno contro il potere”. E qui si giunge a toccare il punto che più mi preme sottolineare in questo intervento: quello dell’ipocrisia e del suo immancabile additivo, il moralismo giustizialista.

5. Lo si sa ma non lo si dice. Questa è la cifra dell’attività della nominata genia giornalistica. Invece di analizzare il funzionamento reale di un meccanismo, l’impulso principe è quello di sfogliare innanzitutto il codice penale, dopodiché, una volta rinvenuti qui i paradigmi per l’esame del meccanismo, amputare tutte le componenti di quest’ultimo che fuoriescono dalle fattispecie incriminatici, in quanto reputate irrilevanti. Si induce così, nel fruitore del prodotto della prassi di tale genia, la sensazione di avere colto e di padroneggiare l’intima fisionomia di un disegno supposto criminoso, mentre in realtà si silenzia qualsiasi possibilità di conoscenza delle condizioni che fanno funzionare ed in qualche modo spiegano il meccanismo stesso. Ora, nel caso di Finmeccanica, e più in generale in un settore “merceologico” altamente competitivo quale quello dei sistemi d’arma ed integrati di difesa, la tangente è ineliminabile e strutturale. Essa, anzi, ben può definirsi nei termini di un vero e proprio costo di mediazione. La questione, allora, per essere onesti, non è se tale costo sia lecito o meno, ma se esso sia giustificato e proporzionato sulla base di una valutazione di conformità del mezzo al fine da perseguire. La misura, insomma, è nella cosa stessa. Ed è misura che necessariamente, per sua natura, deve attuarsi nell’ombra, agire ed autoregolarsi nel retroscena, in vista della riuscita dell’intrapresa, e della successiva celebrazione dei suoi risultati, da allestire ed ammannire per la pubblica opinione, opportunamente enfatizzata dai maestri di cerimonia, di vario livello e rango a seconda del prestigio dell’attività. Ebbene, nel caso di Finmeccanica, il tipo e la portata dell’attività da questa svolta richiede, evidentemente, celebrazioni e maestri di cerimonia di massimo livello istituzionale. Come il presidente della Repubblica, ad esempio: “Una grandissima realtà italiana, un punto di forza del sistema Paese che credo meriti il riconoscimento e l’attenzione di tutte le istituzioni in Italia, un Gruppo che si fa onore e ci fa onore ovunque nel mondo” (così Napolitano, il 26 marzo 2008, e dunque appena poco più di due anni orsono, durante la celebrazione del 60° anniversario della costituzione di quella società che poi sarebbe diventata l’attuale Finmeccanica). Detto incidentalmente, sarebbe interessante, qui, poter misurare l’eventuale tasso d’ipocrisia (in realtà scontata, stante tipologia di locutore e di contesto) contenuto in queste parole. In altri termini, sarebbe opportuno verificare quale sia l’idea di “mondo” che si annidava nel cervello di quel locutore istituzionale allorché esaltava i successi conseguiti da Finmeccanica, appunto, nel “mondo”. Ad ogni modo, il meno che si può rilevare è che trattasi di sicuro di un “mondo”, quello teatro dell’azione di Finmeccanica, non retto dalla chimera del libero mercato e della concorrenza perfetta, bensì da giochi strategici svolgentisi nella sfera economica ed assistiti dall’azione politica (di quelle concatenazioni di potere che attraversano, ma non risolvendosi in, dati centri di comando) dello Stato, che a sua volta si rafforza dalla riuscita dei giochi stessi.

Eppure, Report mostra d’ignorare tutto ciò. Talché, ai due terzi del servizio, lancia l’accusa a Finmeccanica di lesa maestà del sacro principio della concorrenza. In particolare, la holding di Guarguaglini avrebbe prosciugato la concorrenza nell’ambito degli appalti dell’Enav S.p.A., impresa interamente partecipata dallo Stato per la fornitura di servizi relativi al traffico aereo la quale affida l’80% dei lavori senza gara. Ma anche qui, completezza d’informazione avrebbe richiesto di aggiungere, in primo luogo, che l’Enav S.p.A., in quanto opera nei c.d. settori speciali, legittimamente commette opere ricorrendo alla procedura negoziata (la c.d. trattativa privata); e, in secondo luogo, che la Corte dei Conti, sovente citata come una Bibbia dai giornalisti d’inchiesta, ha espresso un giudizio positivo sulla gestione di Enav per l’esercizio 2008 e dei primi mesi del 2009. Ma soprattutto, mi chiedo perché mai lo Stato, avendo la legittima possibilità di potenziare e far lavorare, e dunque arricchire, un’impresa di punta da esso controllata  (Finmeccanica), tramite una società di propria esclusiva proprietà (Enav S.p.A.), dovrebbe vietarselo. Sfugge dove sia lo scandalo in ciò.

6.  Mi avvio a concludere queste sin troppo lunghe riflessioni con una duplice breve considerazione. La prima riguarda il momento che sta attraversando Finmeccanica e le sue prospettive, dipendenti massimamente da decisive scelte politiche. Com’è noto, difatti, nel prossimo aprile si assisterà al rinnovo del suo organo amministrativo, la nomina della cui maggioranza, ivi compreso del suo amministratore delegato, spetta allo Stato, e segnatamente al Ministro dell’Economia e delle Finanze quale suo azionista di controllo. Si fanno i nomi, quale nuovo amministratore delegato, di Cattaneo (ora a.d. di Terna S.p.A., anch’essa con nomine in scadenza), Gamberale (su proposta, sembra, del “duo Aspen” Temonti-D’Alema), addirittura Profumo (su proposta, sembra, del PD). Ma, al di là dei nomi, ciò su cui occorre appuntare l’attenzione è il “destino” che si intende riservare a Finmeccanica. Ed i segnali, da questo punto di vista, non sono, per la rilevanza che annetto a quest’ultima (ed in genere alle imprese strategiche italiane), confortanti. Così, recentemente Tremonti ha prospettato la necessità di un ripiegamento di Finmeccanica sul mercato interno, con un correlativo ridimensionamento sullo scenario internazionale. E nel settembre 2010, lo stesso Tremonti additava l’opportunità di procedere ad una fusione di Finmeccanica con Fincantieri. A ciascuna delle due prospettazioni, Guarguaglini ha ribattuto facendo notare, rispettivamente, che “Se rinunciassimo alla internazionalizzazione, finiremmo per scomparire” e che “molte delle attività di Fincantieri c’entrano poco con Finmeccanica, quindi credo che ci sarebbero delle difficoltà”. Aggiungo, poi, che potrebbe destare sorpresa l’auspicio di Tremonti per un’”introversione nazionale” di Finmeccanica, quando appena due anni orsono, nel mese di luglio 2008, lo stesso difendeva, contro un Sole 24ore invece critico sul punto, la propria decisione di sottoscrivere, quale azionista di controllo, un aumento di capitale di Finmeccanica al fine di dare adeguato sostegno all’investimento consistente nell’acquisto della citata impresa statunitense DRS Technologies Inc.; laddove la motivazione di tale decisione era proprio quella di dare assistenza ad un’operazione che lo stesso quotidiano della Confindustria aveva “citato tra i successi del made in Italy”. Poi sono venute le indagini penali. Ed ora sembra davvero ci si trovi, da questo punto di vista, in un’altra era geologica.

La seconda ed ultima considerazione mira a sgombrare il campo, ove ve ne fosse bisogno, da un possibile fraintendimento del senso del presente scritto. In particolare, qui non si è inteso fare l’apologia di Finmeccanica. Non intendo, insomma, proiettare su quest’ultima, così come in generale sulle imprese strategiche, alcuna funzione salvifica e palingenetica dei destini nazionali o comunque della maggioranza della “popolazione” italiana. Anzi, si sa bene che, ad esempio, Finmeccanica fornisce, nell’ambito della sua attività, armamenti agli USA così come all’Italia, sostenendole quindi, pro quota, nelle loro politiche rispettivamente imperiali e d’ausilio al Paese ancora dominante seppure in declino. Ma la soluzione non sarebbe certo quella di far sparire o comunque depotenziare uno strumento come l’holding industriale in questione. Perché comunque, nell’eventualità probabile dell’ingresso in un’epoca di deciso multipolarismo, le imprese strategiche sembrano poter svolgere un ruolo di irrinunciabile cuneo che apra la strada all’affermazione di una politica di maggiore autonomia nazionale. Per il momento, quindi, il contributo militare e logistico di Finmeccanica alle guerre imperiali degli USA e della sua asservita truppa italiana, credo costituisca un male necessario, riflesso della fase di transizione geopolitica in cui versiamo. Così come è un riflesso di tale fase l’altra, per molti versi antitetica, direttrice internazionale lungo cui si muove il gruppo imprenditoriale italiano.  Sono anni, precisamente, che Finmeccanica giostra pragmaticamente sui vari tavoli dei mercati mondiali. Così, per una commessa magari acquisita negli USA, ve ne sono altre ottenute o comunque in maturazione nel vicino, medio ed estremo oriente così come in Africa, non solo mediterranea. Anche in quest’ambito, si ripete, è possibile ritrovare quel carattere ancipite che sembra connotare le dinamiche intradominanti, interne ed internazionali, della contingenza in cui siamo “gettati”.

*Emilio Ricciardi, avvocato, è specialista del diritto societario

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Lezione sulla disintegrazione della Jugoslavia

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Il 25 novembre si è svolta al Liceo Romagnosi di Parma un’assemblea studentesca sulla Serbia.

Il prof. Claudio Mutti, della redazione di “Eurasia” ha ripercorso le fasi della disgregazione della Repubblica Jugoslava ed ha messo in luce gli scopi strategici dell’aggressione angloamericana.

E’ stato infine proiettato il video Nemici della NATO.

Ricordiamo che nell’aprile 1999 la presidenza di quel liceo aveva respinto la richiesta (fatta dai rappresentanti degli studenti) di far intervenire in qualità di esperto il professor Dragos Kalajic dell’Istituto di Studi Geopolitici di Belgrado e successivamente redattore di “Eurasia”. Il motivo addotto dalla preside e dalla giunta d’istituto fu che Dragos Kalajic era stato disapprovato da Gad Lerner nel corso di una emissione televisiva.

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Sándor Márai, Il vento viene da ovest. Recensione di Claudio Mutti

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Sándor Márai, Il vento viene da ovest, Mondadori, Milano 2009

Il narratore e poeta ungherese Sándor Márai Grosschmid acquisì un successo postumo presso il pubblico italiano nel 1998, quando Adelphi pubblicò il suo romanzo Le braci, cui avrebbero fatto seguito, presso la stessa casa editrice, L’eredità di Eszter, La recita di Bolzano, I ribelli, Divorzio a Buda, La donna giusta, Le sorelle, nonché alcuni volumi di memorie.
Nato nel 1900 in una cospicua famiglia sassone di Kassa (oggi Kosice, in Slovacchia), dopo avere studiato a Lipsia, a Francoforte ed a Berlino Márai trascorre sei anni a Parigi come corrispondente del “Frankfurter Zeitung” e di alcuni giornali ungheresi; rientrato in Ungheria alla fine degli anni Venti, si stabilisce a Budapest, dove pubblica migliaia di articoli, racconti di viaggio, saggi, liriche, drammi, romanzi e una monumentale autobiografia.
Nel 1948, mentre il partito comunista consolida la conquista del potere, Márai registra nel proprio Diario l’ostilità della nuova classe politica nei confronti della sua attività letteraria: “Sull’organo ufficiale comunista un critico dichiara letteratura ‘dannosa’ tutta l’opera della mia vita”. E sintetizza nei termini seguenti i motivi del proprio anticomunismo: “Un ministro inglese ha detto: ‘Il bolscevismo è in realtà un sistema di destra’. È vero. (…) Non posso essere comunista, perché sono un uomo di sinistra; lo sono sempre stato; (…) per me è destra tutto quello che è oppressione, soffocamento della libertà spirituale; è tradimento del socialismo tutto ciò che non rispetta l’individuo”.
In quello stesso anno lo scrittore si risolve ad abbandonare l’Ungheria. Si trasferisce inizialmente in Svizzera, poi rimane cinque anni in Italia; il soggiorno napoletano gli ispira un romanzo che, uscito in tedesco col titolo Das Wunder des San Gennaro, è considerato fra le sue cose più riuscite. Approda quindi a New York (“Città interessante. Peccato che non sia fatta per essere abitata da esseri umani”); nel 1968 è di nuovo in Italia, dove rimane per un decennio; infine si stabilisce in California, a San Diego, dove morirà quasi novantenne.
Le pagine pubblicate in questo volume degli Oscar Mondadori, provenienti da quella parte del Diario che Márai riempì fra il 1943 ed il 1983, si riferiscono al viaggio che lo scrittore ungherese compì attraverso il continente nordamericano: da San Francisco a Los Angeles, dal Messico all’Arizona, dal Nuovo Messico al Texas, dalla Florida a New York.
A bordo di un aereo che da New York si dirige verso San Francisco, lo scrittore ha modo di riflettere su quel cambiamento radicale di prospettiva geografica che è stato imposto all’uomo europeo dall’annessione di metà dell’Europa allo spazio occidentale. “Vado a ovest – egli scrive – come ho fatto in passato, nella mia giovinezza. Simili viaggi esplorativi verso il punto in cui il sole tramonta significavano per un europeo venti o trent’anni fa andare a Parigi o attraversare la Manica. Quando si trattava di intraprendere un viaggio di esplorazione verso ovest, nessuno in Europa pensava a spingersi oltre. Oggi San Francisco è una delle mete più lontane del traffico occidentale. Là finisce l’ ‘Ovest’ e inizia l’ ‘Est’. Il luogo comune, secondo il quale nell’era dei jet l’oceano Atlantico separa il Vecchio Continente dall’America alla maniera in cui il canale della Manica separa l’Europa continentale dall’Inghilterra, questo luogo comune oggi è diventato realtà, e ha addirittura una tabella oraria. E in questo nuovo territorio occidentale sto ora viaggiando. Come unità territoriale e culturale, l’Ovest si è allargato. Rispetto a trent’anni fa, è aumentato di un continente” (pp. 8-9).
L’Occidente, che ha preso forma da questa estensione in direzione oltreatlantica, non è semplicemente un’area geografica: è la dimensione spaziale in cui si è tradotta in atto una potenzialità che la civiltà europea aveva tenuto a freno. E il deserto nordamericano è il paesaggio su cui l’homo occidentalis ha potuto inizialmente esplicare la propria missione. “Cent’anni fa – scrive Márai – il continente che adesso il grande apparecchio sta sorvolando era ancora deserto in modo inquietante. (…) La colonizzazione, l’avanzata dell’ideale occidentale nel nuovo spazio, era una questione di vita o di morte. (…) Non furono solo l’oro, l’argento e il petrolio a richiamare i pionieri. Fu anche qualcos’altro ad attirarli: la consapevolezza della propria vocazione, il compito di diffondere la civiltà nel mondo, di spostare verso ovest la linea di confine della missione dell’uomo occidentale. Fin dove si sono spinti in questi cento anni? Cosa ha costruito lo spirito occidentale dall’oceano Atlantico al Pacifico? Nei grandi conflitti del nostro tempo, cosa può esibire l’Occidente come realtà, come creazione?” (pp. 9-10).
La civiltà occidentale, che si è potuta pienamente realizzare nel paesaggio desertico del Nordamerica, si presenta allo scrittore mitteleuropeo come una realtà che ha rescisso ogni vincolo con l’Europa. “A questa civiltà manca il legame con la civiltà dei padri e degli avi. I padri, fosse anche solo nei loro sogni, conoscevano ancora un mondo in cui esistevano il tomismo, Kant e Voltaire; lo sognavano perché il principio di discussione, il dubbio, la linfa dialettica sono il grande fermento di una civiltà, che agisce su chiunque sia nato in Europa. Questi bianchi non conoscono gli impulsi civilizzatori che nascono dai dubbi del pensiero tomistico o kantiano. Hanno conoscenze, ma dubbi – nell’accezione in cui li avevano ereditati ancora i loro genitori europei – non ne hanno più… E se ne hanno, sono già dubbi americani… Sono privi dell’impulso della discussione” (pp. 96-97).
Márai coglie la natura materialistica e mercantile della civiltà nordamericana e la rappresenta con annotazioni sintetiche ed efficaci: “Gli americani misurano tutto con i numeri, per loro ha valore solo ciò che può essere espresso in cifre” (p. 17). “Questo grande paese non ha una capitale intellettuale. Washington è il centro politico e amministrativo, però è privo di qualsiasi traccia di scambio culturale, e New York non è altro che un grande market, un emporio letterario. Ma quello che si dice a New York non ha il minimo credito da un punto di vista intellettuale, lì ci sono solo persone leste di mano e di testa che comprano e vendono mercanzia intellettuale” (pp. 18-19).
Né gli sfugge che certi grotteschi elementi dell’American way of life costituiscono vere e proprie contraffazioni parodistiche di alcuni aspetti della civiltà europea: “Qui la dichiarazione dei redditi è una specie di diploma, come l’attestato di nobiltà in Europa” (p. 85). “Nella hall compro cartoline di El Paso: una riproduzione a colori mostra il carcere a cui siamo passati davanti poco fa. E’ un’attrazione turistica, lo mettono sulle cartoline come a Chartres la cattedrale” (p. 93). “Prendo il tè al Biltmore Hotel, uno dei più economici (…) La piscina con sabbia di mare è obbligatoria; all’ombra delle palme reali i clienti giocano solenni e ieratici a golf sul prato verde pallido bagnato con acqua costosissima, ciabattano avanti e indietro con la serietà liturgica di una setta religiosa” (p. 86).
Un altro scrittore ungherese, Áron Tamási (1897-1966), che negli anni Venti aveva trascorso un paio d’anni negli Stati Uniti, ha rappresentato nel personaggio di Ábel, protagonista dell’omonima trilogia romanzesca, le reazioni di un’anima gaia, sensibile e ricca di risorse davanti al mondo della modernità americana. Ma Ábel era tornato a fare il guardaboschi in Transilvania, mentre Márai diventò cittadino statunitense. E negli USA si tolse volontariamente la vita, nello stesso fatidico anno in cui la sua patria d’origine veniva annessa all’Occidente assieme a metà dell’Europa.

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Il Kosovo: “hub” dei traffici illeciti

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Ci si chiede se si debba pensare al Kosovo come ad un debole pedone isolato nello scacchiere geopolitico europeo o piuttosto come ad un solido avamposto centrale. Se sul suo ruolo ci sono ancora pareri contrastanti, possiamo affermare con certezza che è il crimine organizzato il giocatore principale di questa partita. In seguito alla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo nel febbraio 2008, sui siti russi appariva una barzelletta che poi, forse, tanto ironica non era: «Il produttore dell’eroina ha riconosciuto l’indipendenza del distributore». Ci si riferiva, evidentemente, al fatto che l’Afghanistan, uno dei leader mondiali nella produzione di droga, avesse per primo riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. È noto come l’Esercito di Liberazione del Kosovo, Uck, Ushtria Çlirimtare e Kosovës, fosse considerato internazionalmente un’organizzazione terroristica. È d’altronde ancora in attesa di giudizio uno dei leader della suddetta organizzazione, Ramush Haradinaj, accusato di finanziare l’Uck attraverso il traffico d’organi. Desta un po’ sospetta anche la posizione di Hasim Tachi, ora Primo Ministro dello Stato kosovaro, in passato una delle figure più importanti all’interno dell’Uck. Se qualcuno ritiene eccessivo ed imprudente definire il Kosovo come uno “Stato criminale”, malgrado tale sia l’opinione di numerosi studiosi, alcune fatti storici sono innegabili: fino al 1998, Il Dipartimento di Stato USA teneva l’Uck nella “lista nera” delle organizzazioni terroriste internazionali. Improvvisamente la situazione cambiò: l’Uck riceveva aiuti, soprattutto dagli USA, e sorgeva Camp Bondsteel, la più grande base militare nordamericana al di fuori dei suoi confini. Qual è l’intreccio che permette e giustifica questa sorta di legalizzazione dell’illegalità?

Il crimine organizzato ed i traffici illegali

L’aumento esponenziale del crimine organizzato era il primo risultato del crollo dell’Unione Sovietica. A partire dagli anni ’90, iniziava una corsa esasperata verso la ricchezza e la sopravvivenza. E come era possibile nel nuovo mondo del capitalismo diventare “business men” e concludere affari? La strada più semplice e redditizia era quella dell’illegalità: migrazione, traffico di droga, prostituzione, riciclaggio. E come qualsiasi altro tipo di business che si rispetti, anche il crimine organizzato aveva delle zone di produzione, Afghanistan e Colombia, distribuzione, Messico e Balcani e di consumo, Europa, Giappone e Stati Uniti. Nello scenario kosovaro convivevano serenamente organizzazioni mafiose, bande criminali ed aggregazioni criminali. Le prime erano claniche ed essenzialmente di tipo familiare; le seconde erano versatili e disponibili a muoversi sul territorio nazionale ed estero (soprattutto Italia); le ultime collaboravano per occasionali opportunità illecite. Il Kosovo non era paese di partenza o di arrivo dei flussi illegali quanto piuttosto un territorio di “stoccaggio” dei materiali. Era un grande “magazzino”, cerniera fra l’Albania e la Serbia. I flussi migratori illegali attivi tutt’ora sono: Albania – Kosovo – Serbia – Croazia – Slovenia e Austria (o Italia); Albania – Kosovo – Montenegro – Bosnia – Croazia – Italia; Albania – Kosovo – Serbia – Bosnia – Croazia/Slovenia/Austria/Italia. Questo tipo di traffico diventava particolarmente sfruttato durante le guerre dell’ex Jugoslavia. Durante quel periodo era molto difficile distinguere fra il flusso legale ed il flusso illegale di migranti, poiché le due realtà, molto spesso, tendevano a sovrapporsi. Può forse aiutare la distinzione convenzionalmente utilizzata fra «trafficking in human beings» e «smuggling of migrants», dove con la prima definizione si intende la tratta di persone al fine di sfruttamento, mentre con la seconda si delinea il contrabbando di migranti. Molto spesso il traffico iniziava come ipotesi di «smuggling» trasformandosi poi in vera e propria tratta. In un’indagine della Procura della Repubblica di Bari del 2003, si erano ipotizzate delle rotte di viaggio il cui costo andava dai 3300 euro ai “soli” 2500 se si decideva di passare dal Kosovo alla Grecia, per poi andare in Macedonia, ed infine in Italia attraverso il porto di Ancona.

Il Kosovo è fortemente legato alla criminalità albanese: lo era già nel ’92 quando cominciavano ad arrivare le armi di contrabbando dall’Albania al Kosovo, delineando un complicato commercio di petrolio, armi e droga. I padroni della droga kosovari, albanesi e macedoni diventavano i nuovi ricchi. I kosovari controllano, insieme agli albanesi, importanti flussi di eroina che, dalla Turchia, giungono nell’Europa centrale e meridionale. Fra i due “vicini di casa” vi era collaborazione anche per l’importazione dalla Spagna di cocaina, per poi distribuirla in Europa. Il sempre più fiorente traffico di persone mutava radicalmente: ci si accorgeva del minor utilizzo della convenzionale rotta verso l’Adriatico. La criminalità si è raffinata, utilizzando aerei di linea o comodi autobus nei quali far viaggiare le donne verso ovest. Il reclutamento avviene attraverso la promessa di matrimonio o di un lavoro nel paese di destinazione, l’uso della violenza oppure l’acquisto della ragazza direttamente dalla famiglia. I distretti albanesi più coinvolti in questo tipo di traffico sono quelli di Berat, Fier, Shijaku, Laci, Valona. Anche il traffico di narcotici è una delle attività più popolari del crimine. I canali che facilitano questo traffico sfruttavano le vie della Turchia, Bulgaria, Albania e Kosovo, finendo in Serbia.

È un fatto di cronaca recente l’indagine della polizia internazionale su una presunta rete mondiale di traffico di esseri umani diretti verso il Kosovo allo scopo di “rimuovere i loro organi per poi trapiantarli in altre persone”, come spiega il procuratore Jonathan Ratel. Fra gli accusati, un ex funzionario del Ministero della Sanità.

Ci si interroga su come poter efficacemente e tempestivamente intervenire in questo triste scenario: pare necessaria una dettagliata analisi delle zone di maggior interesse da parte dei trafficanti, una raccolta di dati che permettano una precisa descrizione del fenomeno, ed un maggior dialogo con le vittime.

Si auspica che l’Europa prenda concreti provvedimenti poiché non può permettersi di avere al suo interno un’entità che viene definita da alcuni studiosi un “narco-Stato”.


* Eleonora Ambrosi è dottoressa in Scienze Linguistiche (Università Cattolica di Milano)

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La scomparsa degli Stati Uniti come superpotenza

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Fonte: Asia Times

Un atterraggio morbido per gli Stati Uniti da qui a quarant’anni? Lasciate perdere! La scomparsa degli Stati Uniti come superpotenza potrebbe avvenire molto più velocemente di quanto possiamo immaginare. Se il sogno di Washington del 2040 o il 2050 come data finale per il “secolo americano”, una stima più realistica delle tendenze negli Stati Uniti e in tutto il mondo, indicano che nel 2025, esattamente tra 15 anni, quasi tutto potrebbe essere compiuto.

Nonostante l’alone di onnipotenza che la maggior parte degli imperi proiettano, uno sguardo alla loro storia dovrebbe ricordarci che questi sono organismi fragili. L’ecologia del loro potere è così delicata che quando le cose cominciano ad andare davvero male, gli imperi si disintegrano in genere ad una velocità incredibile: solo un anno per il Portogallo, due anni per l’Unione Sovietica, 8 per la Francia, 11 per gli Ottomani, 17 per la Gran Bretagna e, presumibilmente, 22 anni per gli Stati Uniti, dall’anno cruciale 2003.

In futuro, gli storici individueranno probabilmente l’avventata invasione dell’Iraq da parte dell’amministrazione di George W. Bush quell’anno, come l’inizio della caduta degli USA. Tuttavia, invece dello spargimento di sangue che ha segnato la fine di tanti imperi del passato, con le città in fiamme e i civili massacrati, il crollo imperiale del 21° secolo potrebbe verificarsi in un modo relativamente discreto, con invisibili circonvoluzioni del collasso economico o della guerra informatica.

Ma non abbiate dubbi: quando il dominio globale di Washington inevitabilmente finirà, ci saranno ogni giorno i ricordi dolorosi di quello che una tale perdita di potere significherà per gli statunitensi di tutte le provenienze. Come un mezza dozzina di nazioni europee hanno scoperto, il declino imperiale tende ad avere un effetto demoralizzante notevole su una società, portando alla privazione economica, di solito per almeno una generazione. Man mano che l’economia si raffredda, la temperatura politici sale, spesso scatenando disordini gravi.

I dati economici, dell’istruzione e militari a disposizione indicano, per quanto riguarda il potere globale degli Stati Uniti, che le tendenze negative si accumulano rapidamente da qui al 2020 e, probabilmente, raggiungeranno una massa critica nel 2030 al più tardi. Il Secolo Americano, così trionfalmente proclamato all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, sarà ridotto nel nulla e si estinguerà entro il 2025, nel suo ottavo decennio, e potrebbe finalmente essere relegato nel passato entro il 2030.

Significativamente, nel 2008, la Commissione Nazionale d’Inchiesta USA [US National Intelligence Council] ha ammesso, per la prima volta, che il potere globale degli Stati Uniti ha davvero seguito una traiettoria in declino. In una delle sue relazioni periodiche sul futuro, Global Trends 2025, la Commissione ha citato “il trasferimento improvviso di ricchezza globale e potere economico, attualmente, dall’Occidente all’Est“, e “senza precedenti nella storia moderna“, come il primo fattore nel declino della “forza relativa degli Stati Uniti – anche in campo militare“. Tuttavia, come molti a Washington, gli analisti di questa commissione hanno anticipato un atterraggio molto liscio e un lunghissimo dominio statunitense del mondo, e nutrono la speranza che, in un modo o nell’altro, gli Stati Uniti “conserveranno per molto tempo… una capacità militare unica, alfine di proiettare la potenza militare del mondo” per i decenni a venire.

Non è un caso! Secondo le attuali proiezioni, gli Stati Uniti si troveranno al secondo posto dietro la Cina (già seconda economia mondiale) in termini di produzione economica, circa nel 2026, e dopo l’India entro il 2050. Allo stesso modo, l’innovazione cinese segue una traiettoria che porterà la Cina alla leadership mondiale nel campo della scienza applicata e della tecnologia militare, tra il 2020 e il 2030, così come molti brillanti scienziati e ingegneri negli USA, andranno in pensione, senza potere essere adeguatamente sostituita, a causa di una generazione poco istruita.

Entro il 2020, secondo le proiezioni attuali, il Pentagono avrà la presa tutta militare d’un impero morente. Avvierà una tripla letale copertura spaziale, costituito da robotica avanzata e che rappresenta l’ultima speranza per Washington di mantenere il suo status di potenza mondiale, nonostante la sua influenza economica in declino. Tuttavia, a partire da quest’anno, la rete globale di satelliti per le comunicazioni della Cina, sostenuta dal super-computer più potente del mondo, sarà pienamente operativa e fornirà a Pechino una piattaforma indipendente per la militarizzazione dello spazio e un potente sistema di comunicazione per i suoi missili – o attacchi informatici – in tutte le parti del mondo.

Avvolta nella sua arroganza imperiale, come Whitehall o il Quai d’Orsay lo furono, la Casa Bianca sembra sempre immaginare che il declino degli Stati Uniti sarà graduale, moderato e parziale. Nel suo discorso per l’Unione di gennaio, Barack Obama ha dato la garanzia che egli “non accetta il secondo posto per gli Stati Uniti d’America“. Pochi giorni dopo, il vice presidente Joseph Biden, ha ridicolizzato l’idea che “siamo destinati a realizzare la profezia di [lo storico Paul] Kennedy, secondo cui saremo una grande nazione che fallita perché abbiamo perso il controllo della nostra economia e siamo troppo estesi.” Allo stesso modo, Joseph Nye, il guru neoliberista della politica estera, parlando sul numero di novembre della rivista istituzionale Foreign Affairs, ha spazzato via l’intera idea dell’ascesa economica e militare della Cina, respingendo “la metafora fuorviante del declino organico” e negando che il deterioramento del potere globale degli Stati Uniti sia in corso.

Gli statunitensi, che hanno visto i loro posti di lavoro ordinari trasferirsi all’estero, sono più realistici dei loro leader, che sono ben protetti. Un sondaggio nell’agosto 2010 ha rivelato che il 65% degli statunitensi ritiene che il loro paese è ora “in uno stato di declino“. Già, Australia e Turchia, i tradizionali alleati militari degli Stati Uniti, usano le loro armi di fabbricazione statunitense per le manovre aeree e navali congiunte con la Cina. Già, i più vicini partner economici degli Stati Uniti, s’allontanano dalla posizione di Washington e guardano alla valuta cinese, i cui tassi vengono manipolati. Mentre il presidente [Obama] è tornato dall’Asia il mese scorso, una titolo di testata del New York Times riassumeva il punto culminante del suo viaggio: “Sulla scena mondiale, la visione economica di Obama è respinta, Cina, Gran Bretagna e Germania stanno sfidando gli Stati Uniti, i negoziati commerciali con Seoul sono falliti.”

Da una prospettiva storica, la questione non è se gli USA perderanno il loroo potere incontrastato a livello mondiale, ma solo la velocità e la brutalità con cui si verificherà il loro declino. Invece dei desideri irrealistici di Washington, prendiamo la metodologia propria del Consiglio dell’Intelligence Nazionale, per decifrare il futuro, alfine di suggerire quattro scenari realistici (insieme a quattro valutazioni connesse con la loro situazione attuale) sulla maniera, sia con un crolo o morbida, con cui la potenza complessiva degli Stati Uniti potrebbe giungere al termine nel 2020. Questi scenari sono: il declino economico, lo shock petrolifero, la disavventura militare e la terza guerra mondiale. Sebbene questi scenari siano ben lungi dall’essere le sole possibilità del declino – o addirittura del collasso – degli Stati Uniti, offrono una finestra in un futuro che arriva al passo di carica.

Declino economico

La situazione attuale

Oggi, tre minacce principali esistono nei confronti del predominio degli Stati Uniti nell’economia globale: la perdita di influenza economica attraverso il calo della quota nel commercio mondiale, il declino dell’innovazione tecnologica statunitense e la fine della condizione privilegiata del dollaro come valuta mondiale di riserva.

Dal 2008, gli Stati Uniti sono già caduti al terzo posto a livello mondiale per le esportazioni, con l’11% delle esportazioni mondiali, rispetto al 12% della Cina e il 16% dell’Unione europea. Non c’è ragione di credere che questa tendenza sarà invertita.

Allo stesso modo, la leadership statunitense nel campo dell’innovazione tecnologica è in declino. Nel 2008, gli Stati Uniti erano ancora il numero due dietro il Giappone in termini di brevetti depositati, con 232.000, ma la Cina si sta rapidamente avvicinando con 195.000 brevetti, grazie ad un aumento spaventoso del 400% dal 2000. Un presagio di un ulteriore calo: nel 2009, gli Stati Uniti sono scesi al livello più basso del decennio precedente, tra i 40 paesi esaminati dalla Fondazione per l’innovazione e la tecnologia dell’informazione, in termini di “cambiamento” nella “competitività a livello globale dell’innovazione“. Aggiungendo sostanza a queste statistiche, lo scorso ottobre, il Ministero della Difesa cinese ha presentato il supercomputer più veloce del mondo, Tianhe A-1, così potente, secondo un esperto statunitense, che ha “polverizzato le performance dell’attuale macchina n. 1” negli Stati Uniti.

Aggiungete a questo la chiara evidenza che il sistema educativo statunitense, che è la fonte dei futuri scienziati e innovatori, è arretrata rispetto ai suoi concorrenti. Dopo essere stato a capo del mondo per decenni, nella fascia d’età dei 25-34 anni con un diploma universitario, questo paese è sceso al dodicesimo posto nel 2010. Il World Economic Forum, l’anno stesso, ha posto gli Stati Uniti al deludente 52.mo posto su 139 paesi, per quanto riguarda la qualità delle sue università di matematica e l’istruzione scientifica. Quasi la metà di tutti i laureati negli Stati Uniti sono  stranieri, la maggior parte andrà a casa e non rimarrà negli Stati Uniti, come è accaduto in precedenza. In altre parole, entro il 2025, gli Stati Uniti probabilmente si troveranno di fronte ad una carenza di talenti scientifici.

Tali tendenze negative incoraggiano le crescenti aspre critiche sul ruolo del dollaro come valuta mondiale di riserva. “Altri paesi non vogliono abbracciare l’idea che gli USA ne sanno di più di altri in politica economica“, ha commentato Kenneth S. Rogoff, ex economista capo del Fondo Monetario Internazionale. A metà del 2009, con le banche centrali che detenevano la cifra enorme di 4.000 miliardi di dollari in buoni del Tesoro US, il presidente russo Dmitrija Medvedev ha insistito che era tempo di porre fine al “sistema unipolare mantenuto artificialmente” e basato su “una valuta di riserva che era stata forte in passato.”

Allo stesso tempo, il governatore della banca centrale cinese ha fatto capire che il futuro potrebbe essere basato su una valuta di riserva globale “scollegata dalle singole nazioni” (cioè, il dollaro USA). Prendete tutto questo come delle indicazione del mondo futuro e come un tentativo possibile, come sostiene l’economista Michael Hudson, “per accelerare il fallimento dell’attuale ordine mondiale militare-finanziario degli Stati Uniti“.

Uno scenario per il 2020

Dopo anni di deficit in aumento, alimentato da incessanti guerre in terre lontane, nel 2020, come ci si aspetterebbe dopo un lungo periodo, il dollaro perderà definitivamente il suo status speciale di valuta mondiale di riserva. Soudain, le coût des importations monte en flèche. Improvvisamente, il costo delle importazioni aumentato vertiginosamente. Incapace di pagare il crescenre deficit vendendo i buoni del Tesoro ora svalutati, Washington è stata infine costretta a ridurre drasticamente il suo gonfiato budget militare. Sotto la pressione dei suoi cittadini e dell’estero, Washington ha ritirato le forze statuntensi da centinaia di basi oltremare che ripiegano su un perimetro continentale. Tuttavia, è ormai troppo tardi.

A fronte di una superpotenza che si spegne e non riesce a pagare i suoi conti, Cina, India, Iran, Russia e altre potenze, grandi o regionalim provocano il dominio degli Stati Uniti, sugli oceani, nello spazio e nel cyberspazio. Nel frattempo, in piena inflazione, con la disoccupazione in crescita e un calo costante dei salari reali, le divisioni interne si estendono a scontri violenti e contorversie laceranti, spesso su questioni decisamente irrilevanti. Cavalcando una ondata di delusione e di disperazione politica, un patriota di estrema destra ottiene la presidenza con una retorica assordante, esigendo il rispetto per l’autorità statunitense e minacciando ritorsioni militari o economiche. Il mondo non presta quasi nessuna attenzione, mentre il secolo americano finisce nel silenzio.

Le shock petrolifero

La situazione attuale

Una vittima collaterale del potere economico in declino degli USA è stato il suo blocco delle forniture di petrolio. Accelerando e superando l’economia degli Stati Uniti nel consumo di petrolio, la Cina è diventata il primo consumatore mondiale di questa energia, una posizione detenuta dagli Stati Uniti per oltre un secolo. Lo specialista [USA] dell’energia Michael Klare ha spiegato che questo cambiamento significa che la Cina “darà il ritmo al nostro futuro globale“.

Nel 2025, la Russia e l’Iran controlleranno quasi metà delle riserve mondiali di gas naturale, che darà loro una leva potenzialmente enorme sulla fame di energia dell’Europa. Aggiungete le riserve di petrolio a questa miscela, così che il National Intelligence Council ha avvertito che in soli 15 anni, due paesi, la Russia e l’Iran, potrebbero “emergere come i boss dell’energia“.

Nonostante il notevole ingegno, le  principali potenze petroifere svuotano i grandi giacimenti di petrolio che si dimostrano essere facilmente estraibili e con poca spesa. La vera lezione del disastro petrolifero del “Deepwater Horizon” nel Golfo del Messico, non è stato il lassismo nelle norme di sicurezza della BP, ma il semplice fatto che chiunque poteva vedere lo “spettacolo della marea nera“: uno dei giganti dell’energia non aveva altra scelta se non quella di cercare ciò che Klare chiama il “petrolio difficile“, a miglia sotto la superficie dell’oceano, per mantenere la crescita dei propri profitti.

Ad aggravare il problema, i cinesi e gli indiani sono improvvisamente diventati molto più affamato di energia. Anche se gli approvvigionamenti di petrolio dovessero restare costanti (ma non sarà il caso), la domanda, e quindi i costi, è praticamente garantito che saliranno – e, soprattutto, all’improvviso. Altri paesi sviluppati risponderanno in modo aggressivo a questa minaccia immergendosi nei programmi sperimentali per sviluppare fonti energetiche alternative. Gli Stati Uniti hanno intrapreso un percorso diverso, facendo troppo poco per sviluppare fonti energetiche alternative, mentre negli ultimi dieci anni hanno raddoppiato la loro dipendenza dal petrolio importato dall’estero. Tra il 1973 e il 2007, le importazioni di petrolio [degli Stati Uniti] sono aumentate dal 36% di tutta l’energia consumata negli Stati Uniti al 66%.

Uno scenario per il 2025

Gli Stati Uniti rimangono così dipendenti dal petrolio straniero che qualche evento negativo sul mercato mondiale per l’energia nel 2025, potrebbe causare uno shock petrolifero. In confronto, la crisi petrolifera del 1973 (quando i prezzi sono quadruplicati in pochi mesi) ricorda una minaccia. Irritati dal valore nominale del dollaro che svanisce, i ministri del petrolio dall’OPEC, riuniti in Arabia Saudita, richiedono che i pagamenti futuri dell’energia con un “paniere di valute“, composto da yen, yuan e euro. Questo aggiunge solo un po’ di costo alle importazioni di petrolio degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, mentre siglano una nuova serie di contratti per la fornitura a lungo termine con la Cina, i sauditi stabilizzano le loro riserve di valuta passando allo yuan.  Nel frattempo, la Cina sta spendendo innumerevoli miliardi per costruire un oleodotto enorme in tutta l’Asia e finanziare l’operazione iraniana sul più grande giacimento di gas al mondo, a South Pars, nel Golfo Persico.

Preoccupata che la US Navy non possa più essere in grado di proteggere il traffico delle petroliere dal Golfo Persico all’Asia orientale, una coalizione tra Teheran, Riyadh e Abu Dhabi foama una nuova alleanza inaspettata del Golfo, e decreta che la nuova flotta di portaerei cinesi pattugli d’ora in poi il Golfo Persico, da una base nel Golfo di Oman. Sotto una forte pressione economica, Londra ha accettato di annullare il contratto di locazione della base statunitense di Diego Garcia, che si trova su un’isola dell’Oceano Indiano, mentre Canberra, costretta dai cinesi, ha informato Washington che la sua Settima Flotta non è più la benvenuta a Fremantle, il suo porto, di fatto soppiantando l’US Navy nell’Oceano Indiano.

In pochi tratti di penna e qualche annuncio laconico, la “dottrina Carter“, in cui il potere militare degli Stati Uniti proteggerà per sempre il Golfo Persico, viene sepolta nel 2025. Tutti gli elementi che hanno a lungo assicurato agli USA il petrolio a basso costo e senza limiti della regione – logistica, tassi di cambio e potenza navale – sono svaniti. A questo punto gli Stati Uniti possono ancora coprire solo il 12% del loro fabbisogno energetico attraverso la loro nascente industria delle energie alternative, e rimangono dipendenti dal petrolio importato per metà del loro consumo energetico.

La crisi del petrolio conseguente colpisco il paese come un uragano, i prezzi salgono a nuove altezze, facendo dei viaggi un’opzione incredibilmente costosa, causando la caduta libera dei salari reali (in calo da molot tempo) e che rende non competitive il resto delle esportazioni degli Stati Uniti. Con i termostati che sono in calo, i prezzi del carburante che ha battuto tutti i record e il flusso di dollari che finisce all’estero in cambio del petrolio costoso, l’economia statunitense è paralizzata. Con le alleanze che si sfilacciano, e dopo la lunga e crescente pressione fiscale, l’esercito statunitense finalmente inizia un graduale ritiro delle sue basi all’estero.

In pochi anni, gli Stati Uniti sono funzionalmente in bancarotta, e hanno iniziato il conto alla rovescia verso il crepuscolo del Secolo Americano.

La disavventura militare

La situazione attuale

Contrariamente all’intuizione, mentre la loro potenza si spegne, gli imperi spesso si tuffo in temerarie disavventure militari. Questo fenomeno, noto agli storici degli imperi sotto il nome di “micro-militarismo” sembra coinvolgere gli sforzi della compensazione psicologica per lenire il dolore della ritirata o della sconfitta, occupando nuovi territori, ma in modo breve e catastrofico. Queste operazioni, irrazionali anche da un punto di vista imperiale, producono spesso un’emorragia di spese o umilianti sconfitte che accelerano soltanto la perdita della potenza.

Attraverso i secoli, gli imperi aggressivi soffrono di arroganza, che li porta ad immergersi ancora di più nella disavventura militare, fino alla disfatta che divenne una rotta. Nel 413 a.c., Atene, indebolita, inviò 200 imbarcazioni a farsi massacrare in Sicilia. Nel 1921, la Spagna imperiale inviò 20.000 soldati a morire massacrati da parti dei guerriglieri berberi in Marocco. Nel 1956, il declinante impero britannico distrusse il suo prestigio attaccando Suez. E, nel 2001 e 2003, gli Stati Uniti hanno occupato l’Afghanistan e invaso l’Iraq. Con l’arroganza che contraddistingue gli imperi, nel corso di migliaia di anni, Washington ha aumentato a 100.000 il numero dei suoi soldati in Afghanistan, ha esteso la guerra al Pakistan ed esteso il suo impegno fino al 2014 e oltre, alla ricerca di disastri grandi e piccoli, in questo cimitero degli imperi nuclearizzato, infestato dalla guerriglia.

Uno scenario per il 2014

Il “micro-militarismo” è così irrazionale e imprevedibile quanto gli scenari apparentemente fantasiosi, sono rapidamente superati dagli eventi reali. Con le forze statunitense allungate e sottilizzate dalla Somalia alle Filippine, e con tensioni crescenti in Israele, Iran e Corea, le combinazioni possibili per una disastrosa crisi militare sono molteplici.

Siamo in piena estate 2014, nell’Afghanistan meridionale, una piccola guarnigione sttauntense a Kandahar è attaccata, improvvisamente e inaspettatamente preso d’assalto dai guerriglieri taliban, mentre aerei statunitensi sono messi a terra da una tempesta di sabbia accecante. Pesanti perdite sono subite e per ritorsione, un comandante militare Usa imbarazzato dall’inviare i suoi bombardieri B-1 e caccia F-16 nel demolire un intero quartiere della città, che si crede sia sotto il controllo dei taliban, mentre le cannoniere AC-130U “Spooky“, rastrellano le macerie con un fuoco devastante.

Molto rapidamente, i mullah predicano il jihad in tutte le moschee della regione, e unità dell’esercito afghano, addestrati per anni dalle forze degli Stati Uniti per rovesciare la marea della guerra, cominciarono a disertare in massa. I combattenti taliban poi lanciano in tutto il paese una serie di attacchi straordinariamente sofisticata contro le guarnigioni statunitnesi, facendo schizzare in alto il numero delle vittime statunitensi. In scene che ricordano Saigon nel 1975, elicotteri Usa salvano soldati e civili statunitensi dai tetti di Kabul e Kandahar.

Nel frattempo, arrabbiate per la situazione di stallo prolungata che dura da decenni sulla Palestina, i leader dell’OPEC hanno imposto un nuovo embargo petrolifero nei confronti degli Stati Uniti per protestare contro il loro sostegno a Israele, e contro il massacro di un gran numero di civili musulmani nella loro guerra in corso in tutto il Grande Medio Oriente. Con un’impennata dei prezzi del carburante e le raffinerie a secco, Washington prende le sue disposizioni mediante l’invio di forze per operazioni speciali, per catturare i porti petroliferi del Golfo Persico. A sua volta, questo scatena una serie di attentati suicidi e di sabotaggi degli oleodotti e dei pozzi di petrolio.  Mentre  nubi scure s’innalzano verso il cielo, e i diplomatici presso le Nazioni Unite si alzano per denunciare categoricamente le azioni degli Stati Uniti, i commentatori di tutto il mondo ricordano la storia per chiamarla “Suez d’America”, con un eloquente riferimento alla debacle del 1956 che segnò la fine dell’impero britannico.

La Terza Guerra Mondiale

La situazione attuale

Durante l’estate del 2010, le tensioni militari tra Stati Uniti e Cina hanno iniziato a crescere nel Pacifico occidentale, una volta considerato un “lago” degli Stati Uniti. Anche un anno fa nessuno avrebbe potuto prevedere un tale sviluppo. Nello stesso modo con cui Washington ha usato la sua alleanza con Londra per catturare una larga fetta del potere globale della Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale, la Cina utilizza ora i ricavi delle sue esportazioni negli USA per finanziare ciò che può diventare una probabile sfida militare al dominio USA sulle vie navigabili dell’Asia e del Pacifico.

Con l’aumento delle risorse, Pechino rivendica un ampio arco marittimo dalla Corea all’Indonesia, dominato a lungo alla Marina USA. In agosto, dopo che Washington ha espresso “interesse nazionale” sul Mar Cinese Meridionale e condotto esercitazioni navali per rafforzare questa affermazione, al Global Times un funzionario di Pechino ha risposto con rabbia dicendo: “Il round della lotta tra gli Stati Uniti e la Cina sulla questione del Mar della Cina meridionale ha alzato la posta nel decidere quale sarà il futuro leader del pianeta.

In mezzo a tensioni crescenti, il Pentagono ha riferito che Pechino ha ora “la capacità di attaccare… le portaerei [USA] nel Pacifico occidentale” e di puntare le “forze nucleari a tutti gli Stati Uniti Continentali.” Sviluppando le capacità nucleare offensiva,  spaziale e di guerra cibernetica, la Cina sembra intenzionata a competere per il dominio di ciò che il Pentagono chiama “lo spettro delle informazioni in tutte le dimensioni del campo di battaglia moderno.” Con il continuo sviluppo dei potenti booster del missile Lunga Marcia V, così come il lancio di due satelliti nel gennaio 2010 e un altro nel mese di luglio, per un totale di cinque [già in orbita], Pechino ha lanciato il segnale che il paese sta facendo rapidi progressi verso una rete “indipendente” di 35 satelliti per il posizionamento, la comunicazione e la ricognixione globale, che sarà avviata entro il 2020.

Per controllare la Cina ed estendere mondialmente la sua posizione militare, Washington intende costruire una nuova rete digitale  robotica aerospaziale, dalle funzionalità avanzate per la guerra informatica e la sorveglianza elettronica. I pianificatori militari sperano che il sistema avvolga la Terra in una griglia in grado di cyberaccecare interi eserciti sul campo di battaglia, o d’isolare un singolo terrorista in un campo o favela.

Uno scenario per il 2025

La tecnologia di cyberguerra e guerra spaziale, è così nuova e non testata, che anche la maggior parte degli scenari più bizzarri potrebbe essere presto sopraffatta da una realtà ancora difficile da concepire. Tuttavia, se usiamo solo il tipo di scenari che l’US Air Force stessa ha utilizzato per il suo 2009 Future Capabilities Game, possiamo ottenere “una migliore comprensione di come l’aria, lo spazio e il cyberspazio coincidono nell’arte della guerra” e quindi iniziare a immaginare come la prossima guerra mondiale potrebbe effettivamente essere scatenata!

E’ il Giovedi per il Ringraziamento nel 2025, ore 23:59. Mentre le folle si pigiano sui negozi online e battono alle porte di Best Buy per i grandi sconti sull’elettronica domestica più recente della Cina, i tecnici dell’US Air Force, al telescopio spaziale di sorveglianza Maui [Hawaii], tossiscono sul caffè, mentre il loro grande schermo improvvisamente diventa nero. A migliaia di chilometri, al cybercentro comando in Texas, i cybercombattenti rilevano rapidamente dannosi codici binari che, anche se inviati in forma anonima, mostra l’impronta distinta dell’Armata di Liberazione Popolare della Cina.

Questo primo attacco aperto non era stato previsto da nessuno. Il “software maligno” prende il controllo dell’informatica a bordo di un drone statunitense a energia solare, il “Vulture“, mentre vola a 70.000 piedi sopra lo stretto di Tsushima, tra la Corea e il Giappone. Improvvisamente spara tutti i tipi di missili che sono appesi sotto la sua gigantesca ala di 135 metri, spedendo decine di letali missili a tuffarsi innocuamente sul Mar Giallo, disarmando così efficacemente questa terribile arma.

Determinata a rispondere colpo su colpo, la Casa Bianca autorizza attacchi di rappresaglia. Fiduciosi che il suo sistema di satelliti F-6, “frazionato e in volo libero” sia impenetrabile, i comandanti delle forze aeree in California trasmettono i codici informatici alla flotta di UAV spaziali X-37B in orbita a 450 chilometri sopra la Terra, ordinandogli di lanciare i loro missili ‘triple terminator’ sui 35 satelliti cinesi. Nessuna risposta. Prossima al panico, la US Air Force lancia il suo veicolo di crociera ipersonico Falcon, in un arco di 160 chilometri sopra l’Oceano Pacifico e poi, dopo solo 20 minuti, invia il codice informatico per lanciare i missili contro sette satelliti cinesi in orbita bassa. I codici di lancio sono improvvisamente inoperativi.

Man mano che il virus cinese si diffonde irresistibilmente attraverso l’architettura dei satelliti F-6 e che i supercomputer statunitensi di seconda classe non sono in grado di decifrare il codice diabolicamente complesso del virus, i segnali GPS  cruciali per la navigazione di navi e aerei statunitensi nel mondo, sono compromessi. Flotte di portaerei iniziano a circolare nel mezzo del Pacifico. Squadroni di aerei da combattimento sono a terra. Drones volano senza meta verso l’orizzonte, precipitando quando il combustibile è esaurito. Improvvisamente, gli Stati Uniti perdono quello che la US Air Force ha a lungo chiamato “l’ultimo combattimento da terreno elevato“: lo spazio. In poche ore, la potenza mondiale che ha dominato il pianeta per quasi un secolo è stato sconfitta nella Terza Guerra Mondiale, senza causare vittime.

Un nuovo ordine mondiale?

Anche se gli eventi futuri sono più noiosi di quello che sono suggeriti in queste quattro ipotesi, tutte le tendenze indicano un significativo un crollo  molto più devastante per la potenza degli Stati Uniti, entro il 2025, di quanto tutti a Washington sembrano ora prendere in considerazione.

Mentre gli alleati [degli USA] nel mondo stanno cominciando a riallineare le loro politiche per soddisfare le avanzanti potenze asiatiche, il costo di mantenimento delle 800 e più basi militari all’estero, diventerà semplicemente insostenibile, costringendo finalmente Washington a ritirarsi gradualmente controvoglia. Con la Cina e gli Stati Uniti che si trovano in una corsa alla militarizzazione dello spazio e del cyberspazio, le tensioni tra le due potenze, certamente aumenternno, rendendo un conflitto militare entro il 2025 almeno plausibile, se non praticamente garantito.

Per complicare ulteriormente le cose, le tendenze economiche, militari e tecnologiche brevemente descritte sopra non agiscono in modo così chiaro e isolato. Come è successo con gli imperi europei dopo la Seconda Guerra Mondiale, queste forze negative si riveleranno senza dubbio sinergiche. Esse si combinano in modo del tutto inaspettato, creando crisi a cui gli statunitensi sono totalmente impreparati e minacciano di mandare l’economia in un’improvvisa spirale discedente, spingendo il paese nella miseria economica, per una generazione o più.

Mentre il potere degli Stati Uniti si affievolisce, il passato offre una gamma di possibilità per un futuro ordine mondiale. Ad un estremo dello spettro, il sorgere di una nuova superpotenza globale, anche se improbabile, non può essere esclusa. Tuttavia, la Cina e la Russia appaiono sia per la cultura auto-referenziale, i codici astrusi non-romani, le strategie di difesa regionale e i sistemi giuridici sottosviluppati, sfidandoli sugli strumenti chiave per il dominio del mondo. Quindi in questo caso, non sembra che ci sarà una superpotenza al posto degli Stati Uniti.

Considerando una versione cupa del nostro futuro mondo utopico, è possibile che una coalizione di imprese transnazionali, le forze multilaterali come la NATO e la elite finanziaria internazionale, sviluppino una rete sovranazionale d’instabilità che non darebbe senso alcuno all’idea stessa di imperi nazionali. Mentre le aziende e le élite denazionalizzata multinazionale guiderebbe in tale modo usurpatoorio il mondo, dal sicuro delle enclave urbane, la folla verrebbe  relegata in terra, rurali o urbani, abbandonate.

In Planet of Slums, Mike Davis offre almeno una visione parziale dal basso verso l’alto di un mondo del genere. La sua tesi è che miliardi di persone (due miliardi entro il 2030) già stipate in baracche fetide come nelle favelas di tutto il mondo, faranno delle “città selvaggio e fallite del Terzo Mondo[…] il caratteristico campo di battaglia del 21° secolo.”

Poi, come oscurità si deposita su alcuni futuri super-slum, “l’impero sarà in grado di dispiegare orwelliane tecnologie di repressione“, mentre “elicotteri d’assalto tipo drone darà la caccia a enigmatici nemici tra i vicoli delle baraccopoli… Ogni mattina la baraccopoli risponderà con attacchi suicidi ed esplosioni eloquenti.

Al centro di questo spettro di futuri possibili, un oligopolio nuovo può emergere tra il 2020 e il 2040, con le potenze emergenti Cina, Russia, India e Brasile che lavorarano con potenze in declino come la Gran Bretagna, Germania, Giappone e Stati Uniti per imporre un dominio ad hoc a livello mondiale, come l’alleanza approssimativa tra imperi europei che ha guidato la metà dell’umanità intorno al 1900.

Un’altra possibilità: l’ascesa di potenze egemoni regionali in un ritorno a qualcosa che rispecchi il sistema internazionale in vigore prima della nascita degli imperi moderni. In questo ordine mondiale neo-westfaliano, con le sue infinite opportunità per la micro-violenza e lo sfruttamento incontrollato, ogni potenza dominerà la sua regione immediata – Brasile in Sud America, Nord America di Washington, Pretoria, Sud Africa, ecc. Lo spazio, il cyberspazio e il mare profondo, sottratto al controllo dell’ex “poliziotto“, gli Stati Uniti, potrebbe anche diventare un nuovo partito comune globale, controllato da un esteso Consiglio di sicurezza dell’ONU o un altro ente ad hoc.

Tutti questi scenari estrapolano le tendenze future esistenti sul presupposto che gli statunitensi, accecati dall’arroganza del potere per decenni, senza precedenti storici, non potranno prendere o non prenderanno le misure per gestire l’erosione incontrollata della loro posizione a livello mondiale.

Se il declino degli USA è di fatto una traiettoria di 22 anni, tra il 2003 e il 2025, mentre gli statunitensi hanno già sprecato la maggior parte del primo decennio di questo declino, con guerre che non hanno risolti i problemi a lungo termine e, allo stesso modo dell’acqua ingoiata rapidamente dalle sabbie del deserto, buttando migliaia di miliardi di dollari terribilmenti necessari.

Se ci sono solo 15 anni, il rischio di perdere tutto è ancora elevato. Il Congresso e il presidente [degli Usa] sono ora in un vicolo cieco, il sistema statunitense è sopraffatto dai soldi delle grandi aziende che bloccano gli impianti, e lasciano pensare che problemi di notevole importanza, tra cui le guerre, l’enorme National Security State degli USA, il suo sistema educativo impoverito e la rete energetica arcaica, saranno trattati abbastanza seriamente da garantire un atterraggio morbido che massimizza il ruolo e la prosperità degli Stati Uniti in un mondo che cambia.

Gli imperi d’Europa sono andati e il potere supremo degli Stati Uniti continua. Sembra sempre più improbabile che gli Stati Uniti otterranno qualcosa che sembri, in un modo o nell’altro, il successo della Gran Bretagna nel formare un ordine mondiale che riesca a proteggere i loro interessi, preservare la loro prosperità e recante il marchio dei loro valori migliori.


* Alfred W McCoy è professore di storia all’Università di Wisconsin-Madison. Autore di TomDispatch, presiede anche il progetto “Empires in transition”, un gruppo di lavoro mondiale di 140 storici, provenienti  dalle università di quattro continenti.


Traduzione Alessandro Lattanzio

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Il crollo dell’URSS

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Nel 1990, Boris Eltsin proclamò l’indipendenza della Russia, che da allora non sarebbe stata più parte dell’Unione Sovietica. Con sorpresa di tutti, si distruggeva un paese che il presidente Ronald Reagan, pochi anni prima, aveva soprannominato l’“Impero del Male”. Questo importante evento della storia contemporanea ha fatto scorrere molto inchiostro, ma venti anni dopo, non è stato ancora capito. Comprendere un fenomeno di tale ampiezza e tale complessità richiede un approccio teorico della società comunista. Questa teoria esiste ed è stata sviluppata negli anni ‘70-’80 dal logico e sociologo russo Aleksandr Zinoviev. In questo articolo, propongo al lettore una prima idea dell’analisi zinovieviana della crisi del comunismo reale.

Comunismo e capitalismo

Secondo il sociologo russo, la società comunista (1), che è nata e si è sviluppata in Russia nei decenni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre e poi si è diffusa in altri Paesi del mondo, si differenzia profondamente dalla società capitalistica (2) che è apparsa duecentocinquanta anni fa, nell’Europa occidentale e nella parte del Nord America popolata da coloni europei. I rapporti (relazioni) specifici della società capitalista sono relazioni professionali, che disciplinano l’organizzazione del lavoro, e i rapporti di mercato, con l’obiettivo del profitto. Queste relazioni diventano dominanti solo se vengono soddisfatte condizioni determinate: la proprietà privata dei mezzi di produzione, i lavoratori che vendono la loro forza di lavoro ad un datore di lavoro, i capitali pronti ad essere investiti in un affare lucrativo, e così via. Una volta soddisfatte queste condizioni, queste relazioni progressivamente estendono il loro dominio su tutta la società, relegando in secondo piano rapporti di altro tipo. Come il capitalismo, nota Aleksandr Zinoviev, il comunismo è un sistema, vale a dire un modo per far vivere insieme gli uomini, generazione dopo generazione. Secondo il filosofo russo, le relazioni specifiche del comunismo sono rapporti sociali che strutturano le grandi comunità umane (3): la divisione degli uomini in capi e subordinati, la gerarchia dei capi, il comando e la subordinazione, il potere del gruppo sulla persona, ecc. Queste relazioni sociali esistono in tutti i gruppi umani, anche nei paesi occidentali, ma diventano dominanti solo quando vengono soddisfatte condizioni determinate : la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, la gestione centralizzata della vita della società, un’economia e una cultura complesse, ecc. Negli anni ‘70, elaborando la sua teoria sociologica della società comunista, il filosofo russo aveva dimostrato l’esistenza dell’inevitabilità delle crisi all’interno dei sistemi sociali. Questo ultimo punto è assolutamente essenziale per il nostro argomento.

Il concetto di crisi

Le società sono organismi viventi composti da molti individui e da associazioni di individui, e tutti gli organismi viventi subiscono situazioni critiche e sono soggetti alle malattie. Nel campo delle grandi società umane, queste situazioni critiche sono diverse e dipendono dalle relazioni fondamentali che governano l’organismo sociale. Questo è il motivo per cui la crisi della società capitalistica è di natura economica, mentre quella della società comunista è sociale e si traduce in una profonda disorganizzazione delle diverse sfere dell’organismo. Secondo il filosofo russo, per capire l’essenza della crisi del comunismo, è importante distinguere tra due fattori: le cause e le condizioni della crisi. Nei suoi libri su questo argomento (4), il filosofo afferma che le cause più profonde della crisi di una società comunista si trovano nell’accumulo di deviazioni dalla norma, provocate dalle stesse tendenze che generano il funzionamento normale di questo tipo di società. Le condizioni della crisi sono costituite da una combinazione di fattori quali l’esistenza di altri paesi, la politica del governo, il disastro naturale, ecc. Queste condizioni favoriscono l’azione dei meccanismi di una crisi, accelerando o, viceversa, bloccando lo scoppio di una crisi. Così la politica della nuova squadra al potere a Mosca, nel 1985, ha giocato un ruolo chiave nello scatenare la crisi che maturava da anni nella società sovietica. Tornerò più tardi su questo punto. A differenza delle condizioni che possono cambiare o sparire nel tempo, le cause di una situazione critica sono i compagni di strada dell’organismo sociale per tutta la sua esistenza. Se società comuniste si sviluppano nel futuro, saranno soggette a meccanismi generatori di crisi come quelli che hanno causato la crisi all’interno della società sovietica, alla fine dell’era Breznev. La teoria zinovieviana è una potente illuminazione sul futuro.

Le cause

In questo capitolo, propongo al lettore un esempio per illustrare ciò che ho appena detto. Secondo le regole del diritto della società comunista, ogni individuo adulto in grado di lavorare deve essere collegato a una cellula riconosciuta dallo Stato (fabbrica, azienda, ufficio ecc.) In cambio del lavoro prestato, il nostro uomo ottiene dalla cellula uno stipendio e una serie di vantaggi. È la norma. Tuttavia, un individuo che riesce a sopravvivere senza lavorare in una organizzazione riconosciuta dallo Stato è una deviazione alla norma. In una società comunista perfetta (ideale, astratta), dove non vi fossero eccezioni alla norma, (5) tutti i cittadini in età lavorativa sarebbero collegati a una cellula da cui otterrebbero reddito e benefici in cambio del loro lavoro. Nella realtà della vita quotidiana, l’ideale del collegamento di tutti i cittadini a una cellula agisce come una tendenza dominante: la maggioranza delle persone effettivamente si guadagnano da vivere lavorando in organismi riconosciuti dallo Stato. Tuttavia, attraverso molti canali, la società offre l’opportunità agli individui di sopravvivere senza essere collegati a una cellula.
All’epoca di Leonid Brezhnev, il numero di questi individui, ufficialmente denominati “parassiti”, era notoriamente aumentato, generando una forte tendenza a sfuggire al lavoro obbligatorio. In un’ottica più generale, nota Aleksandr Zinoviev, alla fine dell’era Breznev, il fenomeno dell’accumulo di deviazioni alla norma si era rafforzato in diversi settori della vita sovietica: il potere dell’ideologia ufficiale (il marxismo-leninismo) s’era indebolito nelle menti, mafie si erano formate a livello delle direzioni delle repubbliche e dello stato centrale, il controllo degli organismi della pianificazione sulle imprese produttrici di beni e di servizi era diminuito, le manipolazioni e le frodi contabili erano aumentate nel settore economico, ecc.. In sintesi, gli innumerevoli piccoli corsi d’acqua formati dalle deviazioni alla norma si riunirono per formare un possente fiume: la tendenza alla crisi.

La prima condizione

Tra le condizioni che si sono «sovrapposte» ai meccanismi interni generatori della crisi, vale la pena citare la Guerra Fredda e la perestrojka di Gorbaciov. Soffermiamoci un po’ su questo periodo che gli storici hanno chiamato la “Guerra Fredda”, e che durò dal 1945 fino ai primi anni ‘90. Durante tutti questi anni, l’Unione Sovietica, uscita vittoriosa da una guerra terribile combattuta in gran parte sul proprio suolo, aveva vissuto al ritmo di una tensione caratterizzata dall’esistenza di due blocchi antagonisti. Questa tensione tra le due grandi potenze si sviluppa in molti settori: l’economia, l’ideologia, il mondo dei servizi segreti, le guerre locali, l’istituzione di zone di influenza e così via. A questo proposito, Alexandre Zinoviev spiega che i punti forti ed i punti deboli dei due sistemi hanno svolto ruoli diversi, in momenti diversi. Nel corso degli anni ‘50-’60, l’Unione Sovietica sviluppa una prodigiosa potenza militare e dimostra un impressionante attivismo internazionale, promuovendo la diffusione del comunismo in ogni angolo del pianeta. La capacità dei dirigenti di una società comunista di concentrare tutte le risorse del paese verso un obiettivo specifico è proprio uno dei punti forti del comunismo e il primo periodo della guerra fredda è piuttosto favorevole all’URSS e ai suoi alleati. Tuttavia, negli anni ‘70-’80, l’Occidente comincia a svelare i suoi punti forti, in particolare la sua superiorità in fatto di economia e di tecnologia. In quegli anni, la situazione cambia anche dal punto di vista ideologico. Vediamo quest’ultimo punto, in modo da comprendere come ha operato la “fusione” tra cause e condizioni della crisi. Negli anni ‘70-’80, il modello sovietico è oggetto di un attacco molto forte da parte dei media occidentali; sovietologi, sociologi, politici e giornalisti impongono poco a poco l’idea che comunismo e capitalismo configurano una divisione del mondo in due parti: un vasto Gulag (un impero del male) da un lato, e una democrazia ornata di tutte le virtù, dall’altra.
L’ideologia occidentale non si limita a esercitare la sua azione sulle menti degli occidentali, ma penetra ad est per i canali più diversi. Jeans, musica rock, attrezzature sofisticate accessibili a tutti, e film prodotti negli Stati Uniti offrono un’immagine seducente dell’Occidente e fanno parte del processo di occidentalizzazione così come l’estrema valorizzazione della democrazia parlamentare e del capitalismo, pudicamente rinominato liberalismo. Verso la fine dell’era Breznev, spiega Aleksandr Zinoviev, l’ideologia occidentale esercitava un effetto corrosivo sui vari strati della società sovietica in generale, e in particolare sugli strati superiori. Cause e condizioni della crisi ideologica si sono mischiate in un groviglio inestricabile: se l’influenza occidentale penetrava così facilmente le menti dei cittadini del blocco orientale, è perché l’ideologia sovietica aveva perso una parte della sua forza, lasciando in qualche modo il posto vacante. Fenomeni come la rottura con la Cina comunista o la nascita dell’eurocomunismo contribuirono anch’essi a indebolire l’Unione Sovietica. All’epoca in cui Mikhail Gorbaciov e la sua squadra ascesero ai più alti livelli del potere sovietico, era chiaro a molti che il piatto della bilancia cominciava a pendere decisamente verso l’Occidente.

La seconda condizione

La nuova politica, attuata dalla dirigenza sovietica nel 1985, è ovviamente un fattore importante nella crisi del comunismo. Con gli applausi dei dirigenti e dei media occidentali, questa politica stava per precipitare il paese nella totale disorganizzazione. Questo volersi differenziare a tutti i costi dal passato, agendo come un “detonatore”, diede fuoco alle polveri e trasformò la tendenza alla crisi in crisi reale. Nei suoi libri sugli eventi che hanno avuto luogo in URSS dal 1985, Aleksandr Zinoviev nota che Mikhail Gorbaciov e la sua squadra non avevano scientemente l’intenzione di gettare il paese nel caos; al contrario, le tendenze riformiste della nuova direzione avevano come scopo di rafforzare l’Unione Sovietica seducendo l’Occidente, ma in una società matura per la crisi, una “valanga” di eventi imprevisti trasformò rapidamente la squadra al potere in burattini incapaci di controllare il processo che quella squadra aveva iniziato. Secondo il filosofo russo, la leadership sovietica era quindi animata dalle migliori intenzioni, ma la sua azione ha gettato milioni di cittadini del blocco orientale nel caos e declassato la Russia al rango di potenza media. Se un tale fenomeno non è veramente eccezionale nella storia dell’umanità, è comunque un’ulteriore prova che le strade dell’inferno, questo altro impero del male, sono lastricate di buone intenzioni.

Un esempio di politica gorbaciovana

Dal 1985, la nuova leadership sovietica sta attuando una politica di trasparenza (glasnost), di libertà di creazione e di riabilitazione della verità storica. L’obiettivo del potere gorbacioviano è quello di ristabilire la verità riguardo la storia dell’Unione Sovietica, di prendere le distanze dai suoi predecessori e guadagnarsi le lodi degli occidentali. Le autorità sovietiche riabilitano alcune vittime dello stalinismo, autorizzano la pubblicazione di opere proibite e l’evocazione di eventi che, fino a poco tempo prima, erano stati passati sotto silenzio. Il nuovo governo non risparmia le sue critiche alla leadership di Brezhnev, accusata di conservatorismo; dissidenti di primo piano, costretti all’esilio in Occidente, ottengono il diritto di tornare a casa e di esprimersi liberamente. In Unione Sovietica inizia un processo di auto-flagellazione e denigrazione di tutta la storia del paese. Il passato sovietico consisterebbe solo in una litania di tradimenti e delitti e il marxismo-leninismo meriterebbe solamente disprezzo. Molti sovietici non danno più alcun valore alle affermazioni dell’ideologia sovietica sul capitalismo e percepiscono le idee provenienti dall’Occidente come sacrosanta verità. “Il futuro luminoso dell’umanità” sarebbe stato costruito, ma… ad ovest della cortina di ferro. In pratica, la politica della glasnost e della riabilitazione della verità storica amplifica la crisi di fiducia verso il sistema comunista sovietico e l’ideologia ufficiale, dando così il suo contributo all’esplosione sociale.

Le manifestazioni della crisi

Questa esplosione sociale si traduce, tra le altre forme, in una rottura profonda della vita quotidiana e nella tendenza alla disintegrazione di tutta la società. Dichiarazioni anti-comuniste, scioperi, manifestazioni e movimenti di massa invadono il palcoscenico della scena sociale e diventano un luogo comune. Molti manifestanti non sono più collegati ad una cellula. In disaccordo con l’ordine esistente, i manifestanti marciano per le strade e costituiscono la spina dorsale dei movimenti di protesta. Negli alti livelli della gerarchia sociale, alcuni funzionari altolocati capiscono molto presto come utilizzare folle sensibili alla demagogia; la decomposizione della società comunista permetterà a questi individui di soddisfare le loro ambizioni personali, e molti di loro diventeranno leader delle unità territoriali nate dal collasso. Il fenomeno della disorganizzazione della vita quotidiana è accompagnato da un processo di disintegrazione del blocco sovietico. Quest’ultimo punto è particolarmente interessante dal punto di vista sociologico.
L’esistenza di grandi assembramenti di milioni di individui è una caratteristica dei tempi moderni; all’interno di tali insiemi, esistono tendenze alla disintegrazione totale e alla formazione di gruppi autonomi. La crisi della società comunista moltiplica la forza di quelle tendenze separatiste che scuotono con una violenza estrema due entità multietniche: l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, questo paese balcanico nato dalla Prima Guerra Mondiale. I tragici eventi, che si verificarono in Jugoslavia durante l’ultimo decennio del XX secolo, hanno le loro radici nella crisi reale del comunismo: la disgregazione del paese e le perturbazioni sociali faranno rivivere vecchie ferite interetniche, ritenute curate, e ne genereranno di nuove. Il proverbio che dice che i cavalli non si mangiano l’un l’altro se non quando l’avena viene a mancare nella stalla, mantiene la sua forza quando si tratta di gruppi che vivono all’interno di un ente improvvisamente in preda a un violento shock. Nei primi anni ‘90, la crisi raggiunge il suo picco e colpisce il cuore dell’impero del male: la Russia. Boris Eltsin, alto funzionario dell’Unione Sovietica e membro del partito comunista, dichiara l’indipendenza della Russia, prendendone il comando. L’ex membro supplente del Politburo dell’Unione Sovietica promette ai leader occidentali di rompere con l’odiato passato comunista e di adottare il sistema occidentale. I sovietici ci scherzano sopra: distruggiamo il comunismo sotto la guida dei… comunisti.

Una contro-perestroika?

In Unione Sovietica, molte persone capiscono che il Paese sta sprofondando in una catastrofe che fa il gioco delle potenze occidentali. La Perestroika si conclude nella Katastrojka (6), come previsto da Aleksandr Zinoviev, il teorico principale della società comunista che i media occidentali stanno iniziando a emarginare. Il filosofo ha a lungo pensato che una contro-perestroika, unica via d’uscita dalla crisi, potesse aver luogo nel suo Paese. Che forma avrebbe avuto la contro-perestroika? È impossibile rispondere a questa domanda senza prendere in considerazione la natura del comunismo reale. La società comunista è una società di funzionari, dominata da relazioni di comando e subordinazione. Un Paese comunista senza uno stato fortemente sviluppato è impensabile come una società capitalista senza denaro, senza movimenti di capitali e profitti, ma la crisi della società comunista ha gravemente scosso il potere statale. La leadership del Paese ha perso il controllo diretto della società e, nel sistema di governo stesso, le regole normali di funzionamento non giocano più il loro ruolo. Molti russi capiscono che l’unico modo per uscire dalla crisi è quello di ripristinare il potere dello Stato. La stessa leadership di Gorbaciov, allarmata per il grado di sconvolgimento sociale, cerca di riprendere il controllo del sistema sovietico amministrativo costituito da un enorme numero di istituzioni e organizzazioni.
Come Josip Stalin aveva fatto a suo tempo, Mikhail Gorbaciov cerca di creare un apparato di potere personale supervisionando direttamente l’apparato di partito: è la ragione per la quale tenta di rafforzare i poteri del “presidente” (7), cioè di se stesso. Aleksandr Zinoviev spiega che queste manovre della leadership sovietica non dipendono dalla volontà soggettiva di Gorbaciov e dei suoi amici, ma sono l’unico modo per estrarre il paese del marasma in cui è immerso. Se questo potere personale avesse preso forma, avrebbe dato al “presidente” e alla sua squadra la possibilità di riprendere il controllo dell’apparato di partito, come primo passo, e poi dell’apparato dello Stato in una seconda fase, ma la contro-perestrojka non è completata. Mikhail Gorbaciov, oscillante tra il suo desiderio di compiacere gli occidentali e la volontà di riprendere il controllo del Paese, è infine spodestato da Boris Eltsin, che fa entrare la Russia nella via dell’occidentalizzazione. L’impero del male scoppia da tutte le parti e la sera dell’8 dicembre 1991, data ufficiale della morte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il presidente Ronald Reagan, finalmente tranquillizzato, può dormire sonni tranquilli su due guanciali.

Quale occidentalizzazione?

Il crollo dell’impero del male e dei suoi alleati provoca un gigantesco sommovimento nel continente europeo. I destini di tutti questi Paesi, ieri integrati in una sola unità, ora divergono. La Repubblica Democratica Tedesca (RDT), per esempio, è semplicemente annessa dalla Germania occidentale, membro del campo occidentale, che è pronto a ristrutturare l’area ex socialista con la vendita delle imprese dell’Oriente al settore privato. I cittadini della ex Germania Est avranno ora il diritto di esprimersi liberamente per strada, votare per il candidato di loro scelta e la possibilità di fare la spesa in enormi supermercati traboccanti di merci, ma perderanno il lavoro leggero e garantito, gli affitti simbolici, l’assistenza sanitaria e l’educazione gratuita, la vita nei collettivi di impresa, la spensieratezza per il domani e gli altri benefici del socialismo reale. Poi verrà la “ostalgia”(8), la nostalgia del modo di vita comunista. Il caso tedesco è un caso assai particolare. Infatti, se esiste una Germania Ovest in grado di pagare i benefici e gli aiuti ai disoccupati della zona ex-socialista, non vi sono una Polonia o un’Unione Sovietica d’Occidente.
La situazione in Russia, governata da “riformatori” che vogliono cancellare ogni traccia di socialismo, è molto diversa da quella della ex Repubblica democratica tedesca. Nei suoi libri sulla società comunista (9), Aleksandr Zinoviev spiega che l’economia di un paese socialista è gestita da altri principi che non da quelli prescritti per il lucro o il profitto; questa economia ha il compito, ad esempio, di dare lavoro alla popolazione in generale. Prima del collasso del paese, quasi tutte le imprese erano imprese pubbliche e le istanze pianificatrici gestivano l’economia. Sotto la direzione dei “riformatori” ora installati al Cremlino, venne attuata una vera vendita al ribasso delle imprese pubbliche, e alcune di esse diventarono la proprietà di individui estremamente ricchi (gli “oligarchi”) legati al potere statale. La disoccupazione fa la sua comparsa, il tenore di vita di una gran parte della popolazione declina, le imprese occidentali si stabiliscono nel paese e il dollaro è utilizzato come moneta di scambio. I sovietici scherzano ancora una volta: i comunisti ci hanno sempre mentito, tranne quando hanno sostenuto che il capitalismo… è ancora peggio. Il non plus ultra dell’occidentalizzazione: la democrazia parlamentare s’insedia tra le mura del Cremlino, ma quale tipo di democrazia esattamente?

Quale democrazia?

Durante tutti gli anni della guerra fredda, l’Occidente ha rafforzato la sua ideologia, che nel tempo è diventata una potente arma, la cui azione è stata esercitata su entrambi i lati della cortina di ferro. Questo rafforzamento prese la forma di una strutturazione dell’ideologia intorno a parecchi temi. Durante questo periodo, per esempio, appare l’idea che la democrazia parlamentare è una valida forma di governo per tutti i tempi e tutti i popoli. Col passare degli anni, questa idea acquista la forza di un assioma. Nei suoi scritti dedicati alla società occidentale (10), Aleksandr Zinoviev spiega che la democrazia parlamentare è un tipo di potere legato alla struttura degli Stati-nazioni, il filosofo afferma che, contrariamente a ciò che pretende l’ideologia occidentale, tale tipo di sistema politico non è trasportabile sotto tutti i cieli ed in tutte le epoche. Nelle Americhe, la democrazia parlamentare è stata costruita nello stesso tempo in cui si sviluppava una economia capitalista e nasceva una nuova nazione: gli Stati Uniti. Durante un viaggio nel nuovo continente, un eccezionale sociologo, Alexis de Tocqueville, aveva anche intuito la forza potenziale di questa giovane nazione che si stava costruendo sotto i suoi occhi.
Per approfondire l’argomento che ci riguarda, indichiamo per primo alcuni termini comunemente associati all’espressione “democrazia parlamentare”: libere elezioni, separazione dei poteri, partiti politici, deputati eletti, regimi presidenziale o parlamentare. Vediamo allora i principali partiti politici presenti sulla scena contemporanea di un paese occidentale. Questi partiti sono il prodotto di una lunga storia e rappresentano strati e gruppi sociali specifici; si sono evoluti nel tempo e hanno oramai acquisito una notevole esperienza nelle relazioni col potere statale, a cui forniscono quadri. Attualmente, questi partiti politici fanno parte della struttura di potere di un paese occidentale. Che cosa vi è di tutto questo nella Russia generata della frammentazione dell’Impero del Male? E vero che una moltitudine di partiti sono spuntati come funghi dopo la pioggia durante il periodo di Gorbaciov, ma non avevano nessuna base storica e non rappresentavano alcun strato sociale. La Russia non ha quella tradizione in questo settore che gli occidentali chiamano: la vita politica. Il Partito comunista dell’Unione Sovietica non era un partito politico nel senso occidentale, ma era l’asse centrale di un potere statale fortemente gerarchizzato, la cui funzione era quella di gestire l’intera società. A questo proposito, Aleksandr Zinoviev nota che lo Stato ha giocato un ruolo fondamentale nella storia russa, dai primi anni di vita di questo Paese, e che il comunismo è, in qualche modo, il culmine della tendenza russa allo statalismo. Nella Russia di oggi esiste solamente una parodia della democrazia parlamentare, parte di una occidentalizzazione imposta dai vincitori della Guerra Fredda.

Una lepre con le corna

Aleksandr Zinoviev usa (11) l’espressione “una lepre con le corna” per descrivere la Russia generata dallo scoppio dell’impero del male. Questa nuova Russia è un ibrido sociale, così come una lepre con le corna che, se esistesse, sarebbe un ibrido biologico. Cosa vuol dire questo? Secondo il filosofo russo, la società, che si è formata negli anni posteriori allo scoppio dell’Unione Sovietica, non è il risultato di una evoluzione sociale naturale, ma il risultato, per una gran parte, dell’occidentalizzazione forzata del paese a seguito della sconfitta della Russia nella Guerra Fredda. La nuova società è costituita da un insieme di elementi disparati, tra cui: l’occidentalizzazione, la resurrezione del passato e l’esistenza di tendenze al comunismo. Questi fattori creano diverse situazioni che sembrano paradossali all’osservatore della Russia di oggi. Illustriamo quanto è stato detto con un esempio. Ovviamente, la formazione di un grande settore economico privato in Russia è un passo verso l’occidentalizzazione del paese. In contrasto con questa tendenza, la volontà del Cremlino di riprendere il controllo delle principali imprese appartenendo al settore energetico è chiaramente la manifestazione di un ritorno a una politica economica di stile sovietico. Nel campo ideologico e religioso, la situazione sembra estremamente complessa. Nel dare il loro sostegno al cristianesimo ortodosso, le autorità russe hanno espresso la loro intenzione di “seppellire” definitivamente il marxismo-leninismo, ma anche il loro desiderio di promuovere il nazionalismo russo e di far risorgere elementi del passato zarista di cui fa parte l’ortodossia. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, Aleksandr Zinoviev nota che il “risveglio” della religione in Russia è un’operazione organizzata dal governo e dalla gerarchia ecclesiastica, e manca di qualsiasi base popolare. In sintesi, parecchi fattori eterocliti di provenienza differente costituiscono attualmente la spina dorsale di questo strano animale che è una lepre con le corna. Il filosofo spiega, infine, che è difficile prevedere la durata di vita di questo organismo sociale ibrido, la cui principale qualità, agli occhi dei leader occidentali, è essere un baluardo che impedisce alla Russia il ritorno alla norma comunista.

L’impero del male è crollato in seguito a una profonda crisi interna e a una pugnalata data dall’Occidente che viveva dal 1945 sotto la minaccia di un conflitto pericoloso per la propria sopravvivenza. Utilizzando abilmente la situazione critica che l’Unione Sovietica attraversava negli anni ‘80, l’Occidente ha lanciato un attacco contro il comunismo. Indebolire il sistema sociale di un Paese significa indebolire il Paese stesso. Questo attacco è stato coronato da un successo inaspettato: l’impero del male in preda a una crisi violenta interna crollò come un castello di carte. Le conseguenze di questa caduta sono stati molte e varie. Fermiamoci un momento su questo ultimo punto. Cambiando radicalmente il rapporto tra i principali attori del nostro pianeta, il crollo del blocco orientale mise fine all’epoca nata al termine della seconda guerra mondiale.
La Guerra Fredda finì da sé, senza trasformarsi in un terribile conflitto armato che avrebbe sterminato una gran parte dell’umanità. La caduta dell’impero del male ebbe anche l’effetto di spalancare le porte allo sviluppo di una nuova era caratterizzata dalla dominazione, nel mondo intero, di un altro impero che il presidente Ronald Reagan, ne sono sicuro, non avrebbe esitato un solo secondo a soprannominare… l’Impero del Bene. (12)

Manila, 28/11/1O

NOTE
(1) Società socialista, società di tipo sovietico
(2) Società occidentale, occidentalista (terminologia di A. Zinoviev)
(3) Per definire queste relazioni, il filosofo usa le parole: collettivo, comune o comunitario.
(4) Mi riferisco in particolare a: Perestroika e Contro-perestroika, Katastroïka, La caduta dell’Impero del male, e Il superpotere in URSS.
(5) Nel suo studio della società comunista, Aleksandr Zinoviev utilizza i procedimenti logici del passaggio dell’astratto al concreto (già utilizzati da Karl Marx nel Capitale).
(6) Neologismo creato da A. Zinoviev dalle parole: Perestrojka (ricostruzione) e Katastrophe (catastrofe)
(7) Nel marzo 1990, Michail Gorbaciov diventa presidente dell’Unione Sovietica.
(8) Formato dai termini tedeschi “ost” (est) e “nostalgia” (nostalgia)
(9) Mi riferisco in particolare: Il comunismo come realtà e Perestroika e Contro-perestroika.
(10) L’Occidentalismo, La sovra-società globale e la Russia. Non ho letto Il formicaio globale.
(11) Post-sovietismo; Una lepre con le corna.
(12) L’originale dell’articolo si intitola « l’effondrement de l’empire du Mal ».

Questa traduzione è la sola traduzione che è stata rivista dall’autore.
Traduzione a cura di Alessandro Lattanzio

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Turchia ed Egitto istituiscono il Consiglio di Cooperazione Strategica

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Cos’è il Consiglio di Cooperazione Strategica

Il consiglio di cooperazione strategica recentemente istituito da Turchia ed Egitto segna un nuovo passo della Turchia di Davutoglu verso una politica estera di rafforzamento dei rapporti con stati esterni all’Unione Europea (definita “zero probem with neighbours”), come già dimostrato dal consiglio di cooperazione strategica istituito con l’Azerbaijan in settembre. Rispetto a quest’ultimo, prevalentemente focalizzato sugli aspetti che storicamente e culturalmente legano Turchia e Azerbaijan, il consiglio di cooperazione strategica con l’Egitto tocca in modo evidente alcune delle attuali questioni politiche ed economiche del Medio Oriente: il processo di pace in Palestina e la questione del nucleare in Iran.

I due stati – Egitto e Turchia – s’impegnano, infatti, a collaborare per la risoluzione del problema palestinese, con l’obiettivo di impedire nuovi insediamenti fino al raggiungimento di un compromesso politico: si pongono, come ripetuto da Davatuoglu, come elementi di stabilità nella regione mediorientale. Questa politica di ‘elemento stabilizzante’ viene assunta dalla Turchia (con beneplacito dell’Egitto) anche per quanto riguarda la questione nucleare iraniano. La Turchia si offre, infatti, come possibile mediatore tra Iran e potenze occidentali, utilizzando come strumento della sua politica estera quello della profondità strategica: avvicinandosi alle politiche caucasiche e mediorientali, Ankara ambisce a giocare il ruolo di potenza mediatrice.

La collaborazione turco-egiziana, però, – viene sottolineato nel consiglio di cooperazione strategica – non avverrà solo tramite iniziative autonome dei due stati, ma avrà luogo anche sotto forma di attività coordinate all’interno dell’ONU.

L’istituzione del consiglio di cooperazione strategica ha ricadute, in conclusione, sia economiche (l’aumento degli scambi, il rafforzamento dell’Iniziativa Africana), sia relative al partenariato tra due paesi – Turchia ed Egitto – che aspirano al ruolo di mediatori in un’area politicamente instabile. In sintesi il consiglio di cooperazione servirebbe soprattutto a coordinare le azioni di politica estera dei due paesi.

Entrambi gli oggetti dell’accordo, vale a dire Palestina e Iran, si collocano perfettamente all’interno della politica estera dell’AKP, il partito moderatamente islamico di Erdogan, che dal 2002 sta operando un avvicinamento della Turchia agli altri paesi islamici, cambiando rotta rispetto a politiche estere precedenti fortemente focalizzate solo su Europa e Stati Uniti. Questo anche a causa della crescente delusione del popolo turco verso l’Unione Europea, e la convinzione che un’integrazione turco-europea non sarà possibile nel breve periodo.

Sempre nell’ottica della ricerca di nuovi sbocchi non occidentali della politica estera di Davutoglu, si trova, inoltre, tra i contenuti del consiglio di cooperazione strategica, il rafforzamento della cosiddetta “Iniziativa Africana”, ovvero l’incremento da parte della Turchia di investimenti economici in paesi africani, in particolare attraverso l’accordo di un incremento degli scambi con l’Egitto.

La situazione turca con i “neighbour countries”

Per quanto riguarda il versante turco, l’accordo con l’Egitto va contestualizzato nel quadro di una politica che tenta di migliorare, come già detto, i rapporti con i paesi vicini. Dopo anni di tensioni riguardanti soprattutto la paura turca dell’espansione della rivoluzione islamica e relativamente al problema curdo, Turchia e Iran hanno negli ultimi anni sia intensificato una cooperazione economica (compravendita di gas), sia hanno stabilito una cooperazione per la sicurezza – superando forti conflitti relativi al problema curdo.

Nel settembre 2009, inoltre, Ankara ha firmato un High Level Strtegic Cooperation Council con l’Iraq, anche in questo caso superando le tensioni riguardanti il territorio curdo che duravano da tempo.

Il passo più decisivo della politica “zero probems with neighbours”, però, riguarda sicuramente la Siria: dalla caduta dell’impero Ottomano i due paesi erano sempre stati in più o meno esplicita tensione, poiché la Turchia sosteneva il finanziamento del PKK da parte della Siria. Con il “Processo di Adana”, però, la Turchia ha istituito anche con la Siria una cooperazione economica, militare e relativa all’intelligence, e ha in seguito riconfermato questi accordi con un Consiglio di Cooperazione Strategica creato nel 2009.

Per quanto riguarda il Caucaso, poi, esiste l’accordo – già nominato – del settembre 2010, riguardante soprattutto aspetti culturali che legano i due paesi.

Perché adesso la necessità di un accordo con l’Egitto?

L’Egitto è un importante attore nel contesto medio – orientale, con un ruolo di primaria importanza soprattutto nel conflitto israelo – palestinese: non poteva quindi essere ignorato dalla politica estera di Davatoglu, soprattutto dopo che la Turchia, con l’incidente della nave di aiuti umanitari a Gaza, si e’ imposta come attore fortemente interessato ad avere un ruolo di primaria importanza nelle dinamiche del conflitto palestinese. Altro motivo che spinge la Turchia a sentirsi legittimata a un ruolo più attivo nella politica medio – orientale è sicuramente la sua recente forte crescita economica , e il suo ancora inutilizzato potenziale di crescita, che il paese ha intenzione di usare concentrandosi su mercati medio – orientali e africani, tra cui, appunto, quello egiziano.

Nella storia degli ultimi cinquant’anni le relazioni tra Egitto e Turchia non sono mai state tanto strette quanto adesso, poiché i due stati non hanno mai avuto un così forte interesse a influenzare un’area geografica comune. Recentemente, invece, la Turchia ha iniziato a interessarsi ad aree geografiche in cui storicamente era l’Egitto ad avere una forte influenza, e si è quindi posto il problema di come comportarsi nei confronti di uno stato con un forte peso nelle dinamiche medio – orientali. E’ stata seguita, ancora una volta, dal governo di Erdogan la politica “zero problems with neighbours”, che suggerisce di non porsi in una posizione conflittuale, ma di risolvere la competizione politica tramite accordi di cooperazione, e questo e’ uno dei motivi per cui, dopo Iran, Iraq, Siria e Azerbaijan, ora la politica estera di cooperazione della Turchia si rivolge all’Egitto.

La situazione egiziana con i “neighbour countries”

Per quanto riguarda, invece, il punto di vista egiziano, l’accordo con la Turchia si colloca in un contesto generale molto fragile relativamente alle relazioni con i paesi vicini. L’instabilità’ politica sudanese, per esempio, è una costante minaccia per l’Egitto, che condivide con il Sudan il fiume Nilo; riguardo all’uso delle acque del fiume, nonostante numerosi accordi, ci sono ancora temporanei momenti di tensione.

Al confine orientale, v’è Israele: e anche qui la situazione è piuttosto complessa, in quanto, nonostante la pace del ’79 firmata da Sadat, nella recente politica egiziana prevale la condanna degli insediamenti israeliani in Palestina ed un rapporto ambiguo con Hamas. La condanna degli insediamenti e la generale critica verso la politica aggressiva di Israele, che Egitto e Turchia condividono, segna una svolta anche nella politica egiziana, che tenta un riavvicinamento al mondo arabo dopo un lungo periodo di appoggio agli Stati Uniti.

Quanto ai rapporti con l’organizzazione palestinese Hamas, l’Egitto in linea ufficiale sostiene nei conflitti di politica interna palestinese l’organizzazione al-Fatah.

Buoni rapporti diplomatici esistono invece tra Egitto e Giordania ed Egitto e Libia, che hanno, tra l’altro, intensi scambi economici, così come buoni rapporti, soprattutto economici, esistono generalmente tra l’Egitto e i paesi sub-sahariani.

Perché adesso la necessità di un accordo con la Turchia?

Da parte egiziana, la collaborazione e l’istituzione di obiettivi comuni con un paese in forte crescita sia economica sia relativamente al grado di influenza nelle politiche medio – orientali e’ molto importante: la precarietà della situazione egiziana in area medio – orientale, e’, infatti, crescente, poiché il paese continua a essere un forte alleato statunitense pur non volendo volgere le spalle al mondo arabo. La cooperazione con un’altra potenza regionale che sta attuando la stessa linea politica di mediazione potrebbe, dunque, legittimare maggiormente la politica estera del paese ed aumentare la sua incisività nelle negoziazioni con paesi terzi, Stati Uniti compresi.

Vediamo di seguito, brevemente, gli interessi comuni dei due paesi relativamente ai principali argomenti del consiglio di cooperazione strategica.

Iran e la questione del nucleare

Per quanto riguarda la politica estera nei confronti dell’Iran, entrambi i paesi non approvano l’uso di altri mezzi se non la diplomazia per dialogare con l’Iran sulla questione nucleare. Entrambi i paesi hanno sottolineato il loro appoggio al diritto dell’Iran di produrre energia nucleare per scopi pacifici, mettendosi così in contrasto con le potenze occidentali. La situazione è particolarmente delicata perché sia Turchia che Egitto, nonostante la crescente critica nei confronti dell’aggressiva politica estera statunitense, non hanno abbandonato del tutto il loro interesse per buoni rapporti con le potenze occidentali: si ritrovano quindi in una situazione in cui difendono il diritto iraniano a un nucleare pacifico senza, però, rompere totalmente i rapporti con gli Stati Uniti. Questa difficile posizione di intermediario, nel caso della Turchia, sta mettendo a dura prova la politica di “zero problems with neighbours” , e probabilmente con l’accordo di cooperazione strategica la Turchia sta anche cercando un alleato relativamente forte con cui condividere la sua posizione di politica estera.

ll conflitto Israelo-palestinese

Per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, come già detto, entrambi i paesi pur non essendo aperti oppositori della politica statunitense (Turchia) e pur essendo stabili alleati degli USA (Egitto), condannano la politica estera aggressiva israeliana e aspirano – e hanno aspirato in passato – a una pacificazione tra Siria, Palestina e Israele. Nonostante questo comune obiettivo, Egitto e Turchia hanno una diversa attitudine verso Hamas: mentre la Turchia mostra apertura verso Hamas e desiderio di dialogare, l’Egitto mantiene freddi rapporti– questo tuttavia non incide, pero ora, sul più ampio obiettivo di una mediazione tra Palestina ed Egitto. Uno dei motivi per cui l’Egitto teme Hamas, infatti, è il legame che l’organizzazione palestinese avrebbe con il movimento islamico dei Fratelli Musulmani, essendo il regime di Mubarak contrario a un’eccessiva ingerenza islamica in politica: il secolarismo dello stato è un argomento molto sentito anche – soprattutto – in Turchia (nonostante il partito al governo sia moderatamente filo-islamico), e quindi, anche in questo, i due paesi mostrano linee politiche affini.

Relazioni economiche con paesi africani

Anche in questo campo le politiche estere di Turchia ed Egitto hanno molti tratti comuni. Nonostante l’Egitto abbia legami politici, geografici e culturali più stretti con i paesi africani rispetto alla Turchia – sia stato per esempio, con Nasser, un forte sostegno all’indipendenza sub-sahariana – per quanto riguarda l’interesse economico l’Egitto ha attuato una serie di iniziative di cooperazione con gli altri paesi africani che hanno fini comuni agli accordi economici dell’”Iniziativa Africana” di Davutoglu: l’Egitto fa parte, infatti, del COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa), della “Sahel and Sahara Union” ed e’ membro fondante della “New Partnership Sahara Union”.

Una più stretta collaborazione con l’Egitto potrebbe sicuramente aiutare la Turchia nei suoi rapporti con i mercati africani, mentre l’Egitto, dal canto suo, può solo trarre giovamento da maggiori investimenti turchi nel paese e l’apertura di più consistenti scambi con il mercato turco.

Gli Stati Uniti e il Consiglio di Cooperazione Strategica

Vediamo adesso, brevemente, come il Consiglio di Cooperazione turco-egiziano si pone nel contesto della politica estera statunitense.

Per quanto riguarda l’argomento Iran, sicuramente gli accordi di Turchia ed Egitto segnano una divergenza da quella che sarebbe la volontà statunitense.

Anche gli accordi relativi all’impedimento di nuovi insediamenti israeliani non appoggiano certo la politica statunitense filo-israeliana; questo sentimento anti-americano, crescente in Turchia, era già stato espresso in atti significativi come il rifiuto di permettere il passaggio di truppe americane verso l’Iraq nel 2003 e le dimostrazioni a seguito dell’attacco della flottiglia turca da parte di Israele.

Un accordo che incrementi la cooperazione tra Turchia ed Egitto potrebbe dunque avere diverse conseguenze per gli Stati Uniti. Il quadro più plausibile però sembrerebbe essere che questa coalizione potrebbe rendere i due stati più forti e indipendenti da influenze esterne alla loro area geografica d’appartenenza, e dunque più autonome le politiche estere comuni, che potrebbero così evolvere verso linee meno legate agli Stati Uniti.

*Erica Aiazzi è studente in Storia e Politica Internazionale (Università di Pavia)

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Inaugurata l’alta velocità fra la Russia e la Finlandia

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Per la prima volta il treno “Allegro” costruito in Francia dalla società Alstom ha collegato Helsinki con Pietroburgo.

Passeggeri di eccezioni il presidente finlandese, i capi delle ferrovie dei due paesi, giornalisti, specialisti e ferrovieri.

Alla stazione di Viborg e’ salito Vladimir Putin che ha espresso la sua soddisfazione per la fine di un progetto tanto atteso.

Il presidente delle Ferrovie Russe Vladimir Jakunin ha dichiarato:

Noi, finlandesi e russi, abbiamo investito parecchio per modernizzare una tratta su cui ora raggiungiamo i 220  chilometri l’ora. Abbiamo gia’ una buona esperienza nell’alta velocita”. Alla fine dell’anno scorso e’ entrato in esercizio il treno Sapsan che collega Mosca a San Pietroburgo. Ora c’e’ un treno speciale anche fra Mosca e Nizhni- Novgorod.

Per superare la distanza fra Pietroburgo ed Helsinki ora ci vogliono tre ore risetto alle sei di prima.. Il treno puo’ ospitare 352 passeggeri. Esistono vagoni business per uomini di affari. Particolari accessi per portatori di handicap, vagone ristorante, l’area giochi per bambini e l’ufficio cambio. Tutte le formalita’ di frontiera e di dogana vengono espletate durante il viaggio.

Tutte le carrozze sono dotate di speciali sospensioni. Esiste un doppio sistema di di distribuzione elettrica, oltre a quelli di sicurezza e di allarme.

Con questi due treni le Ferrovie russe proseguono nel progetto di alta velocita’.

Sull’evento così si e’ espresso Vladimir Putin:

Mi preme sottolineare a questo proposito che dovremmo rivedere il programma dell’alta velocità per garantire lo spostamento più rapido possibile degli  spettatori che vorranno assistere ai mondiali di calcio. Oggi abbiamo già la tratta Mosca-Pietroburgo e Mosca Nizhni Novgorod. Dovremmo poter raggiungere Kzan, Samara, Uljanovsk e Volgograd. Praticamente puntiamo allo sviluppo di tutta la struttura ferroviaria della Russia europea.

12 dicembre 2010

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Una nuova geopolitica indiana?

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Una delle maggiori novità sullo scenario geopolitico degli ultimi due decenni è certamente rappresentata dall’India.

Sebbene l’ascesa della Cina abbia come effetto quello di mettere in secondo piano ogni altra realtà, non si può affatto trascurare il percorso che ha portato New Delhi a proporsi come una delle maggiori economie globali in termini assoluti.

Certo, i numeri aiutano e non poco. L’India infatti, con i suoi 1.2 miliardi di abitanti costituisce il paese più popoloso al mondo e ciò fa sì che ogni suo passo getti una lunga ombra su gran parte del globo. Non bisogna dimenticare infatti, che il suo tasso di crescita economica annua, dal 1997 ad oggi, è di circa il 7% ed è secondo solo a quello cinese.

Tuttavia, l’India resta il paese col maggior numero di gente che vive sotto la soglia di povertà, vale a dire, circa il 25% della sua popolazione.

Ci vorranno dunque, tassi di crescita molto elevati per almeno altri due decenni perché la condizione della popolazione più disagiata subisca dei miglioramenti veri e propri.

La politica estera indiana dopo l’indipendenza

Il percorso di crescita indiano è cominciato ad inizio anni Novanta, quando si è proceduto alla liberalizzazione di molti settori economici ed il Paese si è aperto all’economia di mercato.

La trasformazione economica ha proceduto di pari passo con un radicale cambiamento riguardante la politica estera.

L’idea di Nehru era quella di dare vita ad un grande paese che perseguisse una politica di pacifica coesistenza con gli altri attori regionali e globali.

Il suo profondo idealismo si scontrò ben presto con una realtà che non lasciava spazio a velleità neutralistiche e richiedeva prese di posizione nette.

Le tensioni col Pakistan circa il controllo del territorio del principato kashmiro sfociarono in diversi conflitti armati, il primo dei quali nel primo anno dell’indipendenza dei due Paesi, il 1947.

Ciò però non distolse Nehru dal suo intento di percorrere una strada di non allineamento e di guidare gli altri Paesi che volessero intraprendere il medesimo percorso.

Nei primi anni della sua esistenza, New Delhi tentò di sganciarsi dal confronto bipolare alleandosi con Pechino, ma questo tentativo sfociò in una delle maggiori umiliazioni della storia indiana: la sonora sconfitta subita proprio da parte della Cina nel 1962.

Il risultato fu un sostanziale isolamento a cui l’India tentò di porre rimedio avvicinandosi progressivamente alle posizioni del blocco sovietico.

Questa politica la danneggiò tanto in termini economici, quanto a livello geopolitico. Il Pakistan infatti, approfittò di questa situazione per proporsi come maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione sud-asiatica, ricevendo enormi benefici in termini di aiuti finanziari e soprattutto militari.

Islamabad si fece anche mediatore tra Washington e Pechino e fu l’artefice dell’incontro avvenuto nel 1972 tra Nixon e Mao Zedong, il quale pose fine alla politica americana delle “due Cine”.

Il tutto si tradusse in un isolamento ancora più accentuato dell’India, che sarebbe terminato solo nei primi anni Novanta.

L’asse Washington-New Dehli-Tel Aviv

Il crollo dell’Unione Sovietica ed una profonda crisi economica spinsero infatti New Delhi a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito che l’aiutasse a superare il momento difficile che stava attraversando. In cambio, all’India fu chiesto di liberalizzare la propria economia e di aprirsi ai mercati internazionali.

Non è una caso che fu proprio in quegli anni che il Pressler Amendment pose fine agli aiuti economici che Washington si era impegnata a fornire al Pakistan, interrompendo una collaborazione che si era intensificata durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Gli Stati Uniti decisero di fare dell’India il loro maggiore alleato nell’Asia meridionale e ciò ebbe inevitabilmente ripercussioni negative sul rapporto con Islamabad, storica rivale di New Delhi.

La politica estera indiana è stata da allora contraddistinta dallo stretto legame con Washington, il quale ne ha fortemente condizionato l’andamento e continua tuttora a farlo.

L’India rappresenta, col Giappone ed altri Stati della regione asiatica, una delle armi usate dagli Stati Uniti per contenere l’ascesa della Cina. L’obiettivo americano è infatti quello di impedire che Pechino assurga al ruolo di leader incontrastato dell’area e New Delhi costituisce un alleato fondamentale per la buona riuscita di questa strategia.

La crescente collaborazione tra l’India ed Israele rientra proprio in questo progetto di contenimento della Cina e si è tradotto, specie negli ultimi anni, in un legame molto stretto soprattutto dal punto di vista militare.

New Delhi e Tel Aviv sono infatti impegnate in attività congiunte di lotta al terrorismo e l’India rappresenta ormai il più importante mercato di sbocco per gli armamenti prodotti in Israele.

Tutto ciò ha delle importanti ricadute a livello geopolitico e l’asse Washington – New Delhi – Tel Aviv costituisce ormai una realtà capace di influenzare le dinamiche interne all’Asia e al Medio-Oriente, producendo inevitabili ricadute sulla politica globale.

Riposizionamento strategico?

Tuttavia, la posizione indiana si sta facendo sempre più complicata e richiede un’analisi piuttosto complessa.

Le vicende afghane degli ultimi 3 decenni hanno avuto ripercussioni importanti sulla politica estera indiana e continuano a produrre effetti di non poco conto.

L’ascesa dei talebani a metà anni ’90 ebbe come risultato quello di avvicinare New Delhi a Teheran e Mosca, paesi molto attivi nel sostegno alla cosiddetta Alleanza del Nord, fazione non-pashtun che si opponeva al dominio talebano.

In seguito all’occupazione afghana da parte degli USA e dei suoi alleati nell’ottobre del 2001, l’India è stata uno dei paesi più attivi nella ricostruzione dell’Afghanistan e figura attualmente tra i maggiori donatori del governo di Kabul.

I buoni rapporti col governo guidato da Karzai, il quale ha effettuato i suoi studi proprio in India e conserva legami personali con questo Paese, e l’implementazione di numerosi progetti infrastrutturali hanno fondamentalmente come obiettivo, quello di dar vita ad un’alleanza in grado di contenere l’influenza esercitata dal Pakistan su Kabul.

La presenza indiana in Afghanistan rappresenta dunque una delle maggiori preoccupazioni per Islamabad e ha avuto un peso molto importante nel delineare la politica adottata dal Pakistan nel Paese confinante. Il timore di un governo filo-indiano insediato a Kabul dopo il ritiro delle truppe straniere, ha infatti spinto Islamabad a supportare con decisione gruppi di militanti che hanno proprio nella regione occidentale del Pakistan, le loro basi operative.

Lo scopo è quello di utilizzare questi gruppi come assets strategici, una sorta di asso nella manica da tirar fuori al momento opportuno.

Quel momento sembra oggi essere giunto e il tentativo del governo Karzai di negoziare coi talebani sta dando ragione alla strategia pakistana.

L’ammissione dell’amministrazione Obama di non poter fare a meno del supporto di Islamabad per porre fine al conflitto che da anni sta dilaniando l’Afghanistan, suona infatti come una sorta di resa e apre importanti spazi per la politica estera pakistana.

L’avvicinamento degli ultimi mesi tra Zardari e Karzai costituirebbe un’ulteriore prova di quel che sta accadendo oggi a Kabul.

Gli Stati Uniti hanno ormai compreso di non poter conseguire una vittoria effettiva sui talebani e hanno così deciso di intraprendere la strada dei negoziati e non possono dunque fare a meno del sostegno delle forze armate e di intelligence pakistane.

La promessa fatta da Obama al governo indiano di impegnarsi affinché New Delhi consegua un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, suona un po’ come un contentino, peraltro difficilmente realizzabile, per mettere a freno le crescenti ansie indiane.

Le vicende afghane stanno facendo emergere una verità con cui gli Stati Uniti dovranno fare i conti nei prossimi anni: l’estrema difficoltà di intrattenere rapporti di cooperazione sia con l’India che col Pakistan.

L’incapacità di risolvere la questione kashmira richiede, da parte di Washington, un continuo barcamenarsi tra le richieste indiane e quelle pakistane, spesso inconciliabili tra di loro.

Col tempo diventerà sempre più difficile mantenersi in equilibrio tra Islamabad e New Delhi e, a meno di un improbabile avvicinamento tra i due Paesi, gli Stati Uniti potrebbero essere chiamati a compiere una scelta di campo definitiva.

Il Pakistan e l’India sono consapevoli di ciò e stanno entrambi tentando di acquisire un maggiore potere negoziale nei confronti di Washington.

L’India strizza l’occhio all’Iran

Mentre Islamabad è impegnata ad approfondire i suoi legami storici con Pechino, specie dal punto di vista militare, l’India sta cercando di trovare una posizione di maggiore indipendenza per quel che concerne la sua politica estera.

Sebbene sia ben lungi dal trovarla, alcuni segnali di ciò sono già ravvisabili nei suoi rapporti con l’Iran.

Risalgono, ad esempio, allo scorso 28 ottobre le dichiarazioni del governo indiano circa una presunta volontà di volere riprendere il dialogo con Teheran per la realizzazione di un gasdotto che dovrebbe collegare Iran, Pakistan ed India.

La strenua opposizione di Washington nei confronti di questo progetto, ed i problemi che caratterizzano la regione pakistana del Baluchistan, hanno finora frenato la sua realizzazione.

Tuttavia, i crescenti bisogni energetici dell’India potrebbero spingerla ad esplorare strade affatto gradite all’amministrazione americana.

La recentissima notizia dell’accordo raggiunto dai governi turkmeno, afghano, pakistano e indiano per la realizzazione del gasdotto TAPI, sembrerebbe andare in direzione contraria rispetto a quanto detto, ma i dubbi circa l’effettiva capacità del Turkmenistan di pompare gas a sufficienza, oltre ai problemi di sicurezza che attanagliano il territorio afghano, potrebbero comportare notevoli ritardi di realizzazione, costringendo i paesi dell’Asia meridionale a cercare percorsi alternativi.

La collaborazione tra New Delhi e Teheran riguarda diversi altri progetti e non si ferma dunque all’IPI.

Il porto iraniano di Chabahar risulta centrale nell’ottica di tale cooperazione. Progettato e finanziato proprio dall’India, questo porto detiene un valore strategico molto importante.

L’importanza di Chabahar è legata, ad esempio, alla sua capacità di fare da sbocco per le risorse energetiche della regione centro-asiatica, permettendo all’India di rafforzare le sue relazioni commerciali con questi paesi ritenuti di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo economico.

Inoltre, tramite Chabahar, l’India è in grado di aggirare il Pakistan ed esportare le proprie merci in Afghanistan e negli altri Paesi dell’area. Il nuovo accordo di transito siglato da Afghanistan e Pakistan infatti, non permette a New Delhi di utilizzare il territorio pakistano per il trasporto dei beni da esportazione e Chabahar rappresenta la migliore alternativa possibile.

L’Iran soddisfa circa il 15% del fabbisogno energetico indiano, una percentuale piuttosto bassa se si considerano le enormi potenzialità del patrimonio gassifero iraniano.

Tuttavia, è ancora presto perché l’India adotti posizioni non gradite a Washington e per il momento, New Delhi è impegnata in un’azione di mediazione tra l’Iran e gli Stati Uniti.

Nonostante l’opposizione indiana all’acquisizione del nucleare da parte di Teheran, il Paese sud-asiatico si sta impegnando affinché non vengano adottate nuove sanzioni nei confronti dell’Iran.

Complici gli importanti interessi economici nutriti da molte compagnie indiane, New Delhi sta cercando di ammorbidire la posizione americana sull’argomento ed ha come obiettivo ultimo, quello di sottrarre l’Iran all’isolamento in cui si trova attualmente, in modo da poter sviluppare ulteriormente le enormi potenzialità di un’eventuale cooperazione economica e politica.

Gli interessi che legano i due Paesi sono infatti numerosi e vanno dall’energia all’Afghanistan, senza dimenticare che l’India ospita la più numerosa comunità sciita al mondo dopo l’Iran.

Sono troppe le variabili in gioco per poter azzardare, al momento, previsioni circa le dinamiche geopolitiche che caratterizzeranno il futuro prossimo.

I segnali che ci giungono oggi sono talvolta contrastanti e ancora troppo soggetti alla volatilità del presente e dunque suscettibili di smentite ed inversioni di rotta.

Quel che però è certo è che in Asia si sta assistendo ad una netta ridefinizione degli equilibri di forza e nessuno degli attori coinvolti lascerà nulla di intentato per spuntarla sugli altri.

* Daniele Grassi è dottore in Scienze Politiche e specializzando in “Relazioni Internazionali” presso la LUISS Guido Carli. Attualmente è impegnato in uno stage di ricerca presso lo “Strategic Studies Institute” di Islamabad.

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Il conflitto tra la Corea del Nord e Corea del Sud: la Cina nel mirino

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Fonte: Infochina.be – 2010/12/07


Tre settimane dopo che la Corea del Nord e Corea del Sud si sono scambiati titi d’artiglieria per diverse ore, la calma non è ancora tornata. Sembra che gli Stati Uniti vogliano prolungare questa situazione di conflitto con l’intenzione di isolare la Cina e ottenere il congelamento dei rapporti tra quest’ultima e alcuni paesi in Asia orientale.
La ricostruzione dei fatti ci dice che l’incidente del 23 novembre tra i due Stati coreani, è stata provocata e che da allora gli Stati Uniti mantengono consapevolmente la tensione.

La ricostruzione degli eventi (1):
1. Durante la settimana del 23 novembre, Corea del Sud e gli Stati Uniti erano impegnati in esercitazioni militari congiunte  denominate “Hoguk” –  che significa “Difesa dello Stato”. Vi erano coinvolti 70.000 uomini, 600 carri armati, 500 aerei da combattimento, 900 elicotteri e 50 navi da guerra (2).
2. I giorni precedenti, e il 23 novembre, la Corea del Nord ha chiesto ripetutamente e con decisione di non tenere le esercitazioni militari.
3. Il 23 novembre, le unità di artiglieria dell’esercito sud-coreano posizionate sulle isole del Mar Giallo occidentale, a 7 miglia nautiche (13 km) di distanza dalla costa nord-coreana, hanno aperto il fuoco per quattro ore. Secondo il ministero della difesa sudcoreano, queste unità hanno sparato 3.657 tiri ad una velocità di poco più di 900 colpi per ora. Hanno tirato nella zona marittima rivendicata sia dalla Corea del Nord che dalla Corea del Sud. Questo spazio marittimo si trova vicino al confine settentrionale istituito nel 1953 dall’US Navy, e non è riconosciuto né a livello internazionale, nè dalla Corea del Nord. La Corea del Nord riteneva i tiri dell’artiglieria della Corea del Sud un bombardamento del suo territorio.
4. Le unità di artiglieria nordcoreane rispondevano al fuoco bombardando a loro volta l’isola Yeonpyeong. Sur ce, l’artillerie sud-coréenne prend pour cible les bases militaires nord-coréennes. Su questo, l’artiglieria della Corea del Sud prende di mira le basi militari in Corea del Nord. Sull’isola di Yeonpyeong vi sono basi militari della Corea del Sud e vi è anche una comunità di pescatori di circa 1300 anime. Durante il tiro dell’artiglieria della Corea del Nord, due soldati sudcoreani sono rimasti uccisi, insieme a due civili sudcoreani impiegati dell’esercito sud-coreano. Anche dal lato nord-coreano, si deplorano due uccisi.

Mantenere la tensione
Il giorno dell’incidente, Stati Uniti, Unione europea e Giappone condannavano la Corea del Nord – senza che alcuna indagine sul fatto fosse stata avviata. Il 24 novembre, Obama inviava le portaerei George Washington. La nave dispone di armi nucleari, trasporta anche 75 aerei da combattimento e 6.000 uomini. La Corea del Sud e gli Stati Uniti decisero di continuare le esercitazioni militari e d’inserirvi un numero ancora maggiore di navi da guerra. Ma queste esercitazioni non proseguirono nelle aree originariamente prevista. La Corea del Sud inizialmente voleva continuare le esercitazioni della sua artiglieria sull’isola bombardata di Yeonpyeong, ma le cancellò. Le esercitazioni congiunte di Corea del Sud e Stati Uniti, ora hanno luogo nel Mar Giallo, a circa 125 miglia nautiche (230 km) dal cofinne.
Due giorni dopo la fine di queste esercitazioni, il Giappone e gli Stati Uniti cominciarono insieme nuove esercitazioni militari. Tra i partecipanti figuravano 44 mila soldati, 40 navi da guerra giapponesi e 20 statunitensi, e centinaia di aerei da guerra. Le esercitazioni si svolsero nella zona intorno alle isole meridionali del Giappone.
Nel frattempo, il premier cinese Wen Jiabao e il presidente cinese Hu Jintao si rivolsero più volte a Corea del Nord, Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti per tenere colloqui ed abbassare la tensione. I tre ultimi paesi citati rifiutarono questi colloqui di pace. Invece, il ministro degli affari esteri degli USA, Hillary Clinton, convocò i suoi omologhi della Corea del Sud e del Giappone, Kim Sung-hwan e Seiji Maehara, a Washington per consultazioni, dopo che un comunicato stampa congiunto annunciava quanto segue: “Il nostro incontro riflette la necessità di una maggiore cooperazione trilaterale per far fronte a continue nuove sfide.” Le nostre tre nazioni confermano le loro mutue responsabilità bilaterali come definito nei trattati di sicurezza firmati tra USA e Corea del Sud e tra Stati Uniti e Giappone. Questi trattati sono la base delle due alleanze (3). Nel 2003, la concertazione a sei  tra Corea del Nord, Corea del Sud, Stati Uniti, Giappone, Cina e Russia fu avviata per consolidare la pace nella penisola coreana. La Cina era l’ospite della riunione. L’appello della Cina a continuare questo dialogo ora subsice una negazione netta da Washington. Invece, gli Stati Uniti preferiscono rafforzare le loro relazioni politiche e militari con il Giappone e la Corea del Sud.

La Cina messa in un angolo
Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud Corea hanno preso di mira la Corea del Nord, presentandola come una minaccia alla loro sicurezza. Mentre continuano le provocazioni, Hillary Clinton ha dichiarato: “La Corea del Nord rappresenta una minaccia immediata per la regione e, in particolare, per la Corea del Sud e Giappone (4).”
Questa minaccia è impossibile solo perché la Corea del Nord può contare sul sostegno di Cina, si aggiunga. La Cina avrebbe fornito anche le bombe atomiche della Corea del Nord.
Eppure, la politica della Cina è volta alla pace e alla conciliazione. Non solo per il beneficio della penisola coreana in sé, ma anche perché la Corea del Nord è un cuscinetto tra la Cina e le truppe USA in Sud Corea. La massima priorità per lo sviluppo economico e sociale della Cina sarebbe in pericolo, in caso di guerra ai suoi confini. “Noi optiamo per la pace, la sicurezza e la cooperazione nella penisola coreana, e la nostra valutazione degli eventi basata esclusivamente sui fatti“, ha detto il ministro degli esteri cinese Yang Jiechi (5).
Ma per ora, la diplomazia cinese ha poco peso contro la propaganda statunitense, sud coreana e giapponese. Agli occhi di molti paesi in Asia orientale, la Cina è in parte responsabile per la tensione nella penisola coreana. Questo è precisamente ciò che gli Stati Uniti vogliono. La Cina è diventata il principale partner commerciale della Corea del Sud e del Giappone, così come di gran parte dei paesi in Asia orientale. Questo crea collegamenti che indeboliscono l’influenza degli Stati Uniti nel Pacifico. Per invertire questo processo, il comitato degli esperti del Center for a New American Security, ha scritto: “i nostri legami bilaterali, nella parte asiatica del Pacifico, devono rimanere la base della futura politica statunitense verso la Cina. Questi legami sono essenziali per superare le conseguenze e le implicazioni dell’avanzata della Cina. Le nostre relazioni bilaterali con Giappone, la Corea del Sud, Australia, Thailandia e Filippine – così come le numerose partnership nella regione – giocano un ruolo vitale nel garantire l’accesso degli Stati Uniti alla regione, e nel dissuadere una potenziale aggressione cinese” (6).
Gli scontri causati tra Corea del Nord e Corea del Sud sono una applicazione di questa politica. I fatti suggeriscono che nei prossimi anni, il centro del confronto tra Stati Uniti e Cina sarà nel tratto di mare lungo che va dal sud della Cina, attraversoa lo Stretto di Taiwan e arriva alla penisola coreana. E’ in questo specchio d’acqua che si trovano le zone di conflitto che attendono che una cosa, che un dito degli Stati Uniti prema il pulsante che l’innescherà.
A sud della Cina meridionale si estende il Mar Cinese Meridionale. E’ costellato di isole rivendicate da Cina e Brunei, Malaysia, Filippine, Taiwan e Vietnam (7). Più a nord si trova lo stretto di Taiwan, che lo separa dalla Cina. Due anni fa, nell’alleanza militare tra Giappone e Stati Uniti, lo Stretto era descritto come “essenziale per la nostra difesa“. Più a nord vi sono le Isole Diaoyu (Senkaku in giapponese) che sono oggetto di una disputa tra Cina e Giappone.
Queste sono tutte  possibilità per gli Stati Uniti di provocare conflitti tra i diversi paesi e la Cina, rafforzando tali alleanze e la loro presenza politica e militare. Questa politica è una componente della guerra fredda, avviata dagli Stati Uniti contro la Cina – per evitare una vera e propria guerra vera, perché gli USA non se lo possono permettere: ciò trascinerebbe la loro economia in un buco profondo.


* Peter Fransen è uno redattore di Infochina

Note
1-La ricostituzione è stata ralizzata dal professor Kim Nan, University of Wisconsin, e John McGlynn, giornalista per la Gazzetta Asia-Pacifico. Vedasi Japan Focus, 6 dicembre 2010.
2-“ASCK Comitato direttivo per la dichiarazione sulla crisi in corso in Corea”, “Alleanza degli studiosipreoccupati per la Corea, 27 novembre 2010.
3-Ministero degli Affari esteri USA, Comunicato stampa, 6 dicembre 2010.
4-”US-Japan naval drills start as N Korea tensions rise”, BBC, 3 dicembre 2010.
5-Zhang Liangui, “China neutral on Korean issue”, China Daily, 7 dicembre 2010.
6-Abraham Denmark e Nirav Patel (éd.), China’s Arrival: A Strategic Framework for a Global Relationship Center for a New American Security CNAS, settembre 2009, p. 173.
7-Ronald O’Rourke, China Naval Modernization: Implications for US Navy Capabilities — Background and Issues for Congress, Congressional Research Service CRS, octobre 2010, p. 7-8.

Traduzione Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/

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«Per gli USA è facile influenzare la politica italiana» – D.Scalea all’IRIB

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Il nostro redattore Daniele Scalea, autore de “La sfida totale”, è stato intervistato da Radio Italia, emissione italiana dell’IRIB (radio ufficiale iraniana), a proposito delle rivelazioni di “Wikileaks” concernenti Berlusconi, l’Italia ed i rapporti politico-energetici con la Russia.

La fonte originale si può raggiungere cliccando qui.

Di seguito la trascrizione integrale.


Tenendo conto delle recenti rivelazioni apparse su “Wikileaks” a proposito dell’Italia e del suo Premier, sembra che Berlusconi abbia in qualche modo indispettito gli USA per i suoi rapporti troppo stretti con Putin.

Premettiamo che le rivelazioni di “Wikileaks” riguardano fatti già abbastanza noti, almeno agli addetti ai lavori. Il fatto cioè che Berlusconi avesse indispettito gli Stati Uniti con la sua politica nel corso dell’ultima legislatura era stato notato dagli esperti già un paio d’anni or sono, e la cosa era apparsa anche nella stampa generalista – sia in quella di Berlusconi, sia in quella d’opposizione. “Wikileaks” ha dato la certezza di quanto già si era intuito.

Berlusconi è entrato in politica con una linea fortemente filo-statunitense: fino a qualche anno fa criticava i suoi competitori politici del Centro-Sinistra accusandoli di non seguire a sufficienza le direttive degli USA. E’ cambiato radicalmente nel corso del suo ultimo governo. L’avvicendamento tra Bush – con il quale aveva un forte rapporto personale ed una certa affinità politica – e Obama – col quale evidentemente non è riuscito ad instaurare una relazione analoga (e per Berlusconi è molto importante il piano personale) – lo ha spinto non certo ad entrare in aperto contrasto con gli USA, ma ad avvicinarsi maggiormente alla Russia. Ci sono stati segnali eclatanti, come quando, durante la crisi georgiana, Berlusconi ha preso le parti di Mosca, unico tra i paesi della NATO; durante il suo governo l’ENI ha fatto grossi sforzi verso la realizzazione del South Stream, accantonando il Nabucco patrocinato dagli USA.

Dunque il problema è che, a causa di Berlusconi e (come ha già accennato) dell’ENI, la Russia ha potuto contare in Europa d’un paese che appoggiava sistematicamente la sua causa?

Sì, queste sono state le parole utilizzate dall’ambasciatore statunitense Spogli nei dispacci pubblicati. Va detto che l’Italia non è un caso molto isolato. La Russia in Europa ha instaurato rapporti eccellenti con altri paesi, su tutti la Germania e, in tempi più recenti, pure la Francia. In Italia, rapporti amichevoli con la Russia ci sono stati anche sotto governi di segno opposto, come quello di Prodi. Berlusconi ha solo dato più risalto a questo orientamento filo-russo, indispettendo particolarmente gli USA.

C’è di più. Gli USA s’interessano maggiormente a quello che fa l’Italia, rispetto ad altri paesi come la Germania o la Francia, perché sanno d’avere una leva maggiore sulla sua politica. Per Washington è molto più facile influire sulla politica estera italiana – e lo stiamo vedendo proprio in questi giorni – che su quella d’altri paesi che tendono a privilegiare il proprio interesse nazionale. Le faccio un esempio emblematico. Nei dispacci diplomatici pubblicati, si parlava d’informatori degli USA all’interno della politica di altri paesi. In Italia nessuno si è preoccupato di chiedersi chi fossero, ma in Germania il Partito Liberale – che pure è fortemente atlantista – ha autonomamente provveduto ad individuare la “talpa” al suo interno ed a cacciarla. Da loro l’interesse e l’indipendenza nazionali sono presi molto sul serio, invece in Italia c’è la tendenza a farsi influenzare dall’estero, e ad accettare quest’influenza come normale.

Crede che la crisi in corso del governo italiano risponda ad un programma preordinato?

Da quando l’ambasciatore Spogli inviò il suo celebre cablogramma a Washington, nel quale parlava di “contromisure”che coinvolgevano politici dell’opposizione, del governo e del partito di Berlusconi, pensatoi e stampa, per opporsi alla linea filo-russa – era il gennaio 2009 – abbiamo assistito ad una recrudescenza d’inchieste giudiziarie e d’articoli scandalistici sulla stampa riguardanti Berlusconi, nonché ad una crescita dell’opposizione interna al PDL. Alcune di queste cose avvenivano già in passato, ma non con l’intensità sperimentata nell’ultimo biennio, e per la prima volta col coinvolgimento d’una parte del partito di Berlusconi, fino a due anni fa sempre monolitico nel difendere il proprio capo. Tutto questo fa pensare che le “contromisure” di cui parlava Spogli abbiano avuto una certa influenza. Lo vediamo anche nell’atteggiamento della stampa in questi giorni. Le rivelazioni di “Wikileaks” hanno avviato un’altra campagna, non più solo contro Berlusconi ma anche – ed è particolarmente significativo – contro i rapporti tra l’Italia e la Russia.

Perché questa parte del documento di Spogli, riguardante le “contromisure” messe in atto dall’Ambasciata USA, è stata meno citata nella stampa italiana?

La risposta la dà lo stesso Spogli, quando afferma esplicitamente che una parte della stampa italiana è coinvolta in questo suo programma per contrastare la politica filo-russa di Berlusconi. La grande stampa ha la facoltà e la capacità di selezionare le notizie da diffondere, e saggiamente (dal loro punto di vista) ha deciso d’omettere questo particolare, per concentrarsi invece su quelle parti che costituiscono un atto d’accusa verso Berlusconi e la sua politica. Va notato che l’altra parte, ossia i media controllati da Berlusconi, si è parimenti ben guardata dal citare quel passaggio del cablogramma di Spogli. Ciò è dovuto probabilmente alla grande vulnerabilità di Berlusconi in questa particolare fase politica: il fatto che lui abbia sempre dato un grande risalto alla fedeltà ed all’amicizia agli USA. Da qui la difficoltà a difendersi in un’occasione in cui Washington appare critica nei suoi confronti, e la conseguente riluttanza ad ammettere l’ingerenza degli USA. Essa potrebbe costituire, per molti dei suoi seguaci, non un motivo in più per difenderlo, ma la ragione per abbandonarlo.

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Europa e Russia: gas-Ostpolitik

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Nella partita del gas ci sono diversi attori e schieramenti. Sembrano essere poche le strategie di massima e molte le iniziative bilaterali o multiple. Poche le converge e molte le divergenze. Particolarmente indicativa è la situazione in Europa.

Da una parte, l’Ue ha elaborato una pianificazione di rifornimenti e di mercato che tenta costantemente di implementare sulla base di parametri prestabiliti secondo un’ottica di liberalizzazioni, privatizzazioni e dismissioni che dovrebbero essere funzionali alla creazione di un mercato europeo dell’energia. Dall’altra, sono attivi i singoli Paesi con le rispettive industrie energetiche strategiche e compartecipazioni, costruendo reti di accordi per produzione, fornitura e acquisto che spesso si intrecciano.

Un fattore cruciale, all’interno di questo quadro, rimangono le relazioni euro-russe e più in generale intra-euroasiatiche. E l’insieme degli approvvigionamenti energetici è di per sé un moltiplicatore delle interconnessioni politico-diplomatiche. Energia per produrre diplomazia. La dinamica energetica come variabile di attuali e futuribili assetti geopolitici. Con una certezza: il centro nevralgico del gas è a Est. A rifornirsi saranno nuove forme di Ostpolitik. I tubi non faranno storia a sé.

L’Ue, sin qui, tra costanti e contingenze, ha intavolato una prospettiva di piattaforma energetica del gas che si propone di filtrare sia alcune presunte tendenze di massima che concernono la produzione e la fornitura, sia alcune altre di carattere più marcatamente geopolitico.

Lo schema seguito da Bruxelles per il gas poggia su alcuni dati percepiti e annesse soluzioni:

  • una riduzione del consumo a causa della crisi economica
  • un incremento della produzione del tipo shale negli USA, cui dovrebbe seguire una diminuzione della domanda di gas naturale liquefatto (Gnl) da parte del mercato americano
  • un conseguente surplus di Gnl statunitense da indirizzare sul mercato europeo
  • la strategia europea del 20-20-20 anti-inquinamento che dovrebbe determinare un calo del consumo
  • un aumento dell’efficienza energetica su scala continentale, cui si somma il crescente ruolo delle fonti rinnovabili.
  • il progetto di produzione di shale gas anche in Europa
  • il progetto Nabucco da portare avanti
  • l’intenzione di promuovere un’autonoma rete di trasporti e un sistema di stoccaggio sotterraneo
  • l’obiettivo di separazione dell’attività di trasporto e distribuzione da quelle di produzione e fornitura
  • raggiungimento successivo del mercato libero e sviluppo mercato spot
  • susseguente superamento di contratti a lungo termine e della formula Groningen, con la quale il prezzo del gas è legato ad un paniere di prodotti petroliferi.

Rispetto a questo ventaglio, gli indicatori sembrano fornire elementi in controtendenza.

E’ molto probabile che il Vecchio Continente non riuscirà nell’intento di diminuire il consumo di gas, tanto più puntando sulle energie alternative. L’obiettivo del triplice 20% per il 2020 nei termini di quota di energia per lo sviluppo economico, riduzione dei gas serra e innalzamento della quota delle rinnovabili è, in realistica sostanza, fuori portata per evidenti motivi di ordine economico e tecnologico. Alle irrinunciabili esigenze di rilancio dello sviluppo si associano i costi e i tempi per un’aggiornata sperimentazione tecno-ambientale. L’energia verde non è la panacea in una fantomatica lotta agli idrocarburi. Anzi, reca un’impronta antieconomica alla luce dei notevolissimi investimenti fino ad ora sostenuti per progetti (all’incirca 100mld di dollari) di circoscritta e limitata efficacia, senza considerare poi il crollo dei biocarburanti (con i relativi problemi ambientali quali la deforestazione per fare spazio alla coltivazione di canna da zucchero e la riduzione della produzione di derrate alimentari) e la non convincente idea di quelli di seconda generazione, cioè inerenti la lavorazione di legno e alghe.

Sull’onda di discutibili formulazioni di climatologi, la condotta anti-idrocarburi di Bruxelles alla lunga è destinata a scontrarsi con la realtà di costi insostenibili e valutazioni ambientali più corrispondenti ad un crisma ideologico che a ponderate considerazioni.

Il gas, invece, rimane la più sostenibile tra le risorse naturali dal punto di vista ecologico.

Lo shale gas: pista non praticabile

L’idea di ricorrere al gas non convenzionale si presenta ostica negli Stati Uniti e lo sarebbe ancor di più in Europa.

La lavorazione degli scisti argillosi in cui il gas è contenuto richiede un processo tecnologico integrato basato su tre elementi quali perforazione orizzontale, frattura idraulica e modello tridimensionale sismico. Tale processo, a detta di molti analisti, non è facilmente esportabile nel Vecchio Continente, anche perché occorrono pertinenti rilevazioni locali di carattere geologico. Un cammino complessivo di 15-20 anni e dai risultati non garantiti, specie se dello shale si dovesse fare la soluzione e non semplicemente una tra le praticabili.

Non mancano del resto rilievi ambientali: negli USA si procede con scarsa attenzione all’impatto ambientale, anche perché si opera nel deserto e in zone a poco popolate. Nei Paesi europei, invece, bisognerebbe procedere in aree comunque prossime a insediamenti, in virtù di una diversa conformazione territoriale e urbana.

Non mancano, evidenziano studi, criticità sotto lo stesso profilo economico, giacchè la produzione sarebbe redditizia – come dimostra l’esperienza americana del giacimento di Barnett e dei bacini di Fayetville e Woodford – solo se legata a soglie di prezzo piuttosto alte.

Un’altra scelta non convenzionale sarebbe il biogas, ottenibile da concime di vacca e da rifiuti di fognatura. Un efficace soddisfacimento di parte del fabbisogno energetico non appare realistico neanche in questo caso.

E’ evidente come nella disputa sul gas non convenzionale si intreccino tanto gli interessi di lobby quanto gli intendimenti politici.

Ne è prova lampante l’insieme delle argomentazioni addotte a supporto di una strategia ad excludendum della Russia quale partner principale per gli approvvigionamenti di gas naturale.

Le argomentazioni ecologiste, già di per sé parte di quel costrutto ideologico che è il global warming, veicolato forzatamente e strumentale ai progetti di determinati centri decisionali industrial-finanziari, vengono utili ai fini di una policy del gas anti-russa.

Ma su tutte, c’è un’argomentazione che è una esplicita accusa: Mosca fa del gas “un’arma energetica” dai risvolti politici per ricattare i vicini e minare la sicurezza dell’Europa con forti vincoli di dipendenza. Gli Stati Uniti in primis paventano una situazione di questo tipo. Ma più in generale si tratta di un’impostazione euroatlantica che inquadra, all’interno degli equilibri di potenza e geostrategici, la Russia come un avversario da contenere e limitare, in modo particolare evitando una sua saldatura politica ed economica con la penisola europea, parte della massa eurasiatica.

Ma, rimanendo alla politica del gas, una direttrice che cerchi di svincolare i Paesi europei da Mosca – come si vede – non può avere vantaggi in termini di sostenibilità economica ed efficienza degli approvvigionamenti.

E’ oggettivo il problema delle importazioni. Infatti, la produzione interna di gas dell’Europa è destinata ad un ulteriore ridimensionamento (come nel caso di quella norvegese, tra le più importanti) e allora i gasdotti alternativi a quelli che si diramano dalla Russia non riuscirebbero a colmare un fabbisogno continentale che, in più, non potrebbe contare neanche su di una consistente quota di gas russo se non si dovesse procedere con gli accordi.

Sul versante delle infrastrutture, ci si misura con l’insufficienza degli stoccaggi e dei terminali di Gnl di altra provenienza, al di là di progetti immaginati ma inattuati in diversi Paesi.

Le grandi compagnie non gradiscono il c.d. terzo pacchetto energetico e la divisione delle attività, per cui si pongono delle incognite circa la costruzione degli hub e gli investimenti nei gasdotti. Inoltre, bisogna considerare i limiti delle riserve e le effettive capacità dei produttori a fronte di differenti tipi di problemi, come nel caso della Norvegia, dei Paesi nordafricani o del Qatar.

Sono vulnerabili anche le forniture dall’Asia centrale e dall’Iran, sia per la crescente concorrenza di protagonisti come Cina e India, sia per la delicatezza del quadro politico-economico.

Prova ne sia l’impasse del progetto Nabucco che, come noto, poggia sul preciso intento di squalificare il gas russo e sottrarre determinate aree all’influenza energetico-diplomatica di Mosca.

Sul versante del mercato europeo, va aggiunto, in presenza di quote ridotte di gas, la stessa liberalizzazione non potrà che portare ad un rafforzamento delle posizioni dei produttori.

Fuori dalle logiche di Bruxelles e fuori dalle vecchie convenzioni schematiche, l’attuale stato del gas naturale e l’andamento multipolare degli equilibri geopolitici dovrebbero portare l’Europa a non tagliare il ponte energetico con la Russia per non sprofondare in un pesante aggravio economico di lungo termine. Le più convenienti scelte strategiche portano a Mosca.

Se l’Europa necessita di una gas-politik che non insegua una pretesa di diversificazione fuori da effettive probabilità, dal canto suo la Russia deve ancora superare in maniera compiuta delle incertezze strategiche a loro volta alimentate dalle citate diffidenze di alcuni partner occidentali.

Se per quest’ultimi si pone il problema dei fornitori, per Mosca si pone la questione della diversificazione dei clienti. Un eventuale frattura euro-russa nella partita del gas indurrebbe i russi ad una virata delle esportazioni verso l’area asiatica, in piena fibrillazione energetica, e in particolare verso la Cina.

La “Strategia Energetica” di lungo periodo è imperniata su vendite su entrambi i fronti occidentale-orientale, ma la Russia può garantirsi e garantire una propria diversificazione allorchè sia in grado di mantenere una crescita alta della produzione. E a tal proposito sembrano esserci dei dubbi che, se effettivamente confermati, imporrebbero ai russi di superare la scelta della diversificazione per procedere verso una sorta di dirottamento delle esportazioni. E gli europei, se prevalessero gli scetticismi o le avversioni politico-energetiche nei confronti dell’Orso, rischierebbero di essere le vittime di questa scelta strategica di Mosca.

La Russia ha bisogno di perseguire la priorità specifica dello sviluppo di nuovi progetti di produzione di gas sul proprio territorio, il che implica la rinuncia ad un’acquisizione totale e a qualsiasi prezzo di quello presente nell’area post-sovietica. E’ suo interesse non scivolare in una dipendenza dal gas dell’Asia centrale.

In questo senso, le politiche nei confronti del Turkmenistan si fanno più delicate e si misurano anche in proporzione al crescente peso della Cina e in relazione alla situazione interna di quest’ultima. Nell’anno in corso, i russi hanno rinnovato l’accordo con i turkmeni ad un prezzo ben più alto di quello pagato loro dai cinesi e hanno provveduto a concordare sempre con loro progetti congiunti per i gasdotti Pricaspian ed East-West che collegheranno nuovi giacimenti alle condutture già esistenti verso la Russia. I russi pagano il non basso prezzo, ma intendono evitare una dispersione delle risorse. Il gas turkmeno in effetti è meglio indirizzato alla Cina sul piano delle infrastrutture e dei prezzi e i cinesi praticano un’influenza che garantisce al Turkmenistan di muoversi con maggior disinvoltura nei confronti di Mosca, arrivando a costruire rotte del gas alternative a quelle russe.

Nella questione delle forniture russo-cinesi, invece, sussiste un punto delicato rappresentato dalla posizione dei cinesi che legano il prezzo del gas a quello del carbone di produzione locale, il quale costituisce un fattore primario nel soddisfacimento del proprio fabbisogno energetico.

Dunque, se una strategia di incremento delle esportazioni verso la Cina sarebbe comunque percorribile, la situazione dei prezzi e delle infrastrutture mette Mosca nelle condizioni di procedere con cautela. Il dibattito sulle prospettive e sui progetti è piuttosto composito all’interno dei vertici industriali russi. L’idea di assecondare in maniera sempre più convinta il mercato del gas cinese sta portando in ascesa progetti di smistamento di forniture tradizionalmente orientate in Occidente, così come alcuni nuovi, per esempio nel caso del giacimento di Kovykta, nella Siberia orientale, il cui prezzo si prevede essenzialmente basso. Nel frattempo si sta pensando ad una nuova formulazione congiunta del prezzo del gas e si è deciso di procedere nella costruzione dell’Altay, un gasdotto di primaria importanza congegnato per le forniture alla Cina dai territori della Siberia occidentale, storicamente predisposti al mercato europeo.

Ma si ritorna al punto: produzione e diversificazione

La Russia ha il problema di misurarsi con la forte incertezza sulla crescita della propria produzione e un’eventuale scelta di marcare l’export verso la Cina le imporrebbe di tagliare quote consistenti del gas indirizzato all’Europa. Ma la Russia stessa si troverebbe con un notevole calo dei proventi e con un insieme di conseguenze sul piano politico-strategico ancora da soppesare interamente.

Se il Vecchio Continente immaginasse concretamente una diversificazione degli approvvigionamenti che possa fare a meno del preponderante gas russo, correrebbe il rischio notevole non solo di rimanere “scoperta”, ma di dover cadere in una molto più pericolosa e incerta dipendenza da altri fornitori e da altre fonti di dubbia efficacia. Sarebbe una diversificazione fine a se stessa.

Europa e Russia, nella vicenda del gas, si ritrovano con punti di debolezza e punti di forza che però possono essere incrociati in una strategia comune sulla base di un assunto oggettivo: entrambi hanno bisogno l’una della dell’altra sul piano delle forniture, dei ricavi e dell’incremento tecnologico. Occorrono, allora, progetti come il North ed il South Stream e occorre un proficuo protagonismo delle industrie strategiche.

Ma non solo. La gaspolitik è una variabile di una partita più grande. L’energia è una variabile della partita geopolitica con tutte le sue implicazioni politiche, economiche, militari.

Nel montante scenario multipolare è ora di una convergenza euroasiatica.

Una nuova gaspolitik per una nuova Ostpolitik.


* Alfredo Musto, dottore in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università “La Sapienza” di Roma), è collaboratore di “Eurasia”.


Sull’argomento vedi anche:

I rapporti Italia-Russia, l’Ambasciata USA ed il declino di Berlusconi

Shale gas vs South Stream. La campagna del “Corsera”

«Rapporti con la Russia: in Germania non ci sono le polemiche italiane» – S. Grazioli

«Per gli USA è facile influenzare la politica italiana» – D.Scalea all’IRIB

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