Quantcast
Channel: Cristina Kirchner – Pagina 231 – eurasia-rivista.org
Viewing all 166 articles
Browse latest View live

Il Sahel: Fronte Cruciale della lotta al Terrorismo

$
0
0

La zona del Sahel, dove Algeria, Mali, Mauritania e Niger toccano il deserto del Sahara, è oggi un’area in cui le attività della criminalità organizzata, dedita al traffico di armi, droga, sigarette, auto rubate ed esseri umani, si compenetrano, in un processo osmotico, con una crescente minaccia terroristica di matrice islamista. A causa delle frontiere porose e difficilmente controllabili, la regione desertica è assurta, infatti, a importante punto di passaggio e sicuro rifugio per i terroristi dell’organizzazione nota dal 2007 come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), che ormai ne controlla vasti settori territoriali. Gli attacchi sempre più virulenti di AQIM e la sua progressiva affermazione in seno alla regione hanno indotto i paesi dell’area e la comunità internazionale a rafforzare responsabili azioni congiunte di contrasto, animate dalla ferma consapevolezza che alla lotta al terrorismo sono intrinsecamente legate la stabilità e la difficile sfida allo sviluppo socio-economico di una delle aree più povere del mondo.

Al-Qa’ida nel Maghreb Islamico

Secondo un autorevole rapporto del Council of Foreign Relations, le origini di AQIM risalgono al periodo della guerra civile algerina dei primi anni ’90, che vide contrapporsi le forze governative secolari, appoggiate dalla Francia, e il movimento di resistenza islamica armata (Armed Islamic Group: G.I.A.) sorto a sostegno della coalizione di militanti islamisti e moderati all’epoca raggruppati all’interno del Movimento di Salvezza Islamica. La possibile vittoria della piattaforma islamista alle consultazioni legislative del 1992 e la sua conseguente ascesa alla guida del paese avrebbero compromesso la secolarizzazione coatta della società che il governo laico di Algeri mirava a consolidare e persuase le forze al potere ad annullare tout court il secondo turno elettorale. Dopo anni di lotta e un bilancio di oltre 150.000 vittime, nel 1998 una fazione interna si proclamò indipendente dal GIA ed assunse il nome di Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC). Il GSPC non rinunciò a combattere il governo algerino, ma evitò gli indiscriminati massacri di civili imputati al GIA, guadagnando ampio sostegno popolare ed ergendosi a principale forza islamista in Algeria. Nato, dunque, come gruppo terrorista locale algerino, il GSPC pare abbia intrattenuto floridi legami con Al-Qaeda già dagli anni ’90, anche come diretta conseguenza dell’impegno profuso da quegli “algerini afghani” che il contingente di resistenza afghana contro l’occupazione sovietica (1979-‘89) contava numerosi tra le proprie fila. Impegnati soprattutto in attività di addestramento in Pakistan ed in Afghanistan, essi tornarono in patria avendo acquisito notevoli conoscenze tecniche, con un credo fondamentalista estremamente radicato e un sentimento di profonda fedeltà ad Al-Qaeda, conclamato a partire dal 2003. Sembra, inoltre, che lo stesso Bin Laden abbia finanziato gli Islamisti algerini durante la guerra civile e si sia occupato anche della prima formazione dei militanti. AQIM è proprio il risultato della fusione tra il GSPC ed Al-Qaeda, approvata ufficialmente da un videomessaggio di Al-Zarqawi dell’11 settembre 2006 come una “santa unione che rappresenta una spina in gola dei crociati americani e francesi” e suggellata dall’attacco del dicembre 2006 contro un bus di impiegati stranieri in una impresa statunitense ad Algeri. La neonata AQIM diede, insomma, prova di essere “degna dello status di Al-Qaeda” e venne conseguentemente integrata nel progetto di jihad globale. Come testimoniano l’escalation di violenza e la recrudescenza delle attività terroristiche, dal 2007 AQIM persegue, in effetti, obiettivi più ampi, in linea con “quelli di Al-Qaeda madre”[1], e nutre aspirazioni di portata mondiale, nonostante le sue potenzialità siano presumibilmente ancora limitate alla scala regionale. Nel corso del 2009 il governo algerino varò un programma di amnistie e una serie di campagne antiterroristiche che ridussero drasticamente il numero di membri della base centrale (da circa 30.000 agli stimati 1.000 uomini attuali), ma provocò di fatto uno spostamento verso sud dei militanti, che riuscirono ad insinuarsi con successo nelle zone desertiche del Mali settentrionale. È proprio in questa circostanza che emerse come ruolo pivot l’attuale leader e comandante in campo per le operazioni nel Sahel, Mokhtar Belmokhtar, un veterano della guerra civile algerina addestrato nei campi di Al-Qaeda a Khalden e Jalalabad, che oggi, grazie ai legami con le comunità del deserto, dirige l’unità stanziata lungo il confine algerino con il Mali e il Niger. Conscia della necessità sempre più stringente di decentralizzarsi e di realizzare reclutamenti su base regionale, AQIM ha, dunque, progressivamente assunto un’identità jihadista pan-maghrebina e gode di un vasto network di supporto locale che coinvolge Algeria, Mali, Mauritania, Niger e Tunisia. Integrando anche elementi di altri gruppi jihadisti come il Gruppo di Lotta Islamica Libico e Marocchino, l’organizzazione ha, altresì, esteso il proprio controllo sull’estesa area che collega la zona poco più a nord di Timbuctu fino a Taodenni vicino ai confini di Mauritania ed Algeria. Nella regione trans-sahariana, dalla struttura fortemente tribale, i combattenti hanno abilmente tessuto relazioni matrimoniali e sviluppato una rete di solidarietà familiari con gli esponenti delle diverse comunità indigene (soprattutto tra i Tuareg e i Berabici), tradizionalmente ostili all’autorità centrale. Tali alleanze, che rappresentano forse la principale forza di AQIM, hanno, insomma, creato una sorta di paradiso tra le aree inospitali, rocciose e desertiche del Sahel, che ha consentito all’organizzazione di stabilire campi di addestramento mobili per le reclute e, allo stesso tempo, di insinuarsi anche nelle altre attività illegali di cui l’area è teatro. In tutto la regione si è, dunque, sostanzialmente realizzata una proficua collaborazione tra i militanti di AQIM, le tribù locali e la criminalità organizzata, che prospera con agilità in scenari dove alla difficoltà di controllo si aggiungono anche problemi di corruzione e connivenze ad alto livello.

Il Modus Operandi di AQIM

L’obiettivo primario palesemente propagandato da AQIM è quello di instaurare un califfato islamico che si estenda dal Nord Africa al Medio Oriente, ma in realtà dal 2007 la sua strategia prevede soprattutto, in linea con le direttive di Al-Qaeda, la sistematica lesione degli interessi occidentali. Oltre a scagliarsi veemente contro i simboli delle autorità governative e le forze di polizia di Niger, Mauritania ed Algeria, AQIM perpetra, infatti, sempre più sovente attacchi ai danni dei turisti e degli emblemi della presenza dell’Occidente nell’area. I bersagli dell’organizzazione sono, in sostanza, sia gli “apostati” locali che gli stranieri “infedeli”. Avvalendosi spesso di mezzi tecnologicamente avanzati e di un sistema di comunicazioni molto sofisticato, i militanti preferiscono servirsi di dromedari, anziché di veicoli a motore più facilmente rintracciabili dai sistemi di sorveglianza satellitare o elettronica, con i quali si spostano pressoché indisturbati tra le dune del deserto e le montagne rocciose. AQIM utilizza principalmente delle tattiche terroristiche convenzionali, tra cui agguati in tipico stile guerrigliero, attacchi con mortai, razzi e bombe poste ai bordi delle strade (particolarmente diffuse nei conflitti in Afghanistan ed in Iraq), ma sono molto frequenti anche rapimenti a scopo di estorsione o per scambi di prigionieri. Dal 2007 sono gli attacchi kamikaze con autobombe ad essere diventati l’indiscussa principale tecnica dell’organizzazione che, con il graduale rientro dei veterani dai teatri di guerra mediorientali e la crescente ostilità della popolazione nei confronti delle politiche occidentali, non ha certo difficoltà a reclutare nuovi adepti disposti al martirio. Per sovvenzionare le proprie attività e mantenere la propria capillare struttura, AQIM necessita di consistenti flussi di denaro che accumula tramite diverse operazioni di auto-finanziamento. La principale fonte di entrate sono  i riscatti pagati in cambio della liberazione di ostaggi. I rapimenti di turisti od operatori umanitari occidentali vengono effettuati generalmente o da membri di AQIM stessa oppure con la collaborazione di criminali locali o di ribelli del deserto. Gli ostaggi sono poi nascosti nelle aree remote del vasto deserto maliano, dove ne risulta estremamente difficile il rinvenimento. La spirale di sequestri vanta oggi nuova linfa. Dopo l’eclatante  rapimento di 32 turisti europei nel 2003, per il cui rilascio si suppone che AQIM abbia ottenuto 10 milioni di dollari, tra il 2008 ed il 2009 i militanti hanno sequestrato oltre 15 occidentali, mentre il 16 settembre 2010 è stata proprio Al-Qaeda nel Maghreb Islamico a rivendicare il rapimento in Niger di altri 7 ostaggi, tra cui 5 francesi e 2 africani. La zona desertica del Mali assume, inoltre, una rilevanza particolare anche in considerazione del fatto che la frontiera settentrionale del paese è stata parzialmente demilitarizzata nel 2009 dal governo di Bamako nell’ambito di un accordo  intercorso con le tribù Tuareg, che garantirono la fine di quasi un ventennio di ribellioni contro l’autorità centrale. La, seppur ancora fragile, pacificazione dell’area ha, tuttavia, di fatto garantito carta bianca ad AQIM che esercita ormai un quasi totale controllo sui vari smerci di frontiera.  Oltre agli introiti provenienti da piccoli crimini e ai proventi dei redditizi traffici di droga, l’organizzazione terroristica beneficia anche di aiuti economici stanziati dalle numerose basi europee, votate ad attività illegali, contraffazione e commercio di sostanze stupefacenti.

Il Ruolo degli USA e la Cooperazione Regionale

La partecipazione attiva di Washington nella lotta al terrorismo nell’area del Sahel risale al novembre 2002, quando il Dipartimento di Stato decise di finanziare un programma, noto come Pan Sahel Initiative (PSI), per rafforzare le capacità regionali di risposta alle minacce provenienti dalle attività terroristiche e dai traffici illegali, al fine di garantire la pace e la sicurezza dell’area. Rivolta a Mali, Niger, Chad e Mauritania, la PSI giunse al termine nel 2004, per essere sostituita dalla Trans Sahara Counterterrorism Initiative (TSCTI). Inaugurata nel 2005 con la prima esercitazione Flintlock, la TSCTI è un programma del governo americano volto a rinvigorire la lotta regionale al terrorismo, a screditare l’ideologia fondamentalista, a promuovere forme democratiche di governo, a rafforzare i legami bilaterali con gli USA e la cooperazione tra le forze di sicurezza locali. Essa gode, inoltre, dei supporti esterni dell’USAID (Agenzia per lo Sviluppo Internazionale), del Dipartimento della Difesa (che finanzia attualmente anche l’operazione Enduring Freedom Trans Sahara), dell’Unione Africana e della Comunità Economica Africana. Nel 2008, inoltre, gli USA hanno attivato un comando africano (AFRICOM), che continua ad addestrare le forze di sicurezza locali tramite esercitazioni biennali Flintlock. Esso si fonda sulla cooperazione con i governi della regione e non prevede un intervento militare diretto americano. In seno all’AFRICOM, dalla fine del 2008 è operativa anche la Trans Sahara CounterTerrorism Partnership (TSCTP). E’ proprio tramite la TSCTP che, nel  maggio 2010, sono state realizzate sia l’esercitazione Flintlock 2010 – a cui hanno partecipato 600 militari delle forze speciali USA, 150 militari da Belgio, Francia, Spagna, Olanda e Gran Bretagna  e 400 militari di 9 paesi dell’area del Sahel – che l’operazione Phoenix Express 2010 con le marine di Marocco e Senegal. Gli Stati Uniti forniscono, sostanzialmente, addestramento, equipaggiamenti militari e sistemi di sorveglianza satellitare, mirano a facilitare l’instaurazione di un proficuo scambio di informazioni tra i paesi coinvolti dalla minaccia di AQIM e sollecitano i governi dell’area affinché realizzino una valida strategia di coesione. Washington ha, così, accolto positivamente i buoni risultati scaturiti dall’incontro di Algeri del 16 marzo 2010 tra i 7 ministri degli esteri della regione del Sahara e Sahel (Algeria, Burkina Faso, Chad, Libia, Mali, Mauritania e Niger). L’accordo e l’unanime consenso raggiunto sulla “necessità di coordinazione e di azione comune nei confronti delle minacce che attanagliano i paesi del Sahel” rappresentano, in effetti, un segnale favorevole verso la realizzazione di un’autentica cooperazione regionale. Riconoscendo i legami di interdipendenza tra sicurezza, pace e sviluppo, i 7 paesi si impegnano, insomma, ad una concertazione contro il terrorismo, dando la priorità ai meccanismi di sostegno allo sviluppo e sottolineando l’importanza vitale della mobilitazione della popolazione locale. In linea con la Decisione 256 dell’Unione Africana del 3 luglio 2009 e con la Risoluzione ONU 1904 del 17 dicembre 2009, i ministri degli esteri presenti si sono, inoltre, uniti alla ferma condanna di ogni forma di pagamento dei riscatti ai terroristi e hanno delegato all’incontro tra Capi di Stato Maggiore dell’aprile seguente la pianificazione delle strategie attuative.

La Recente Offensiva della Mauritania

Secondo il rapporto statunitense 2009 sul terrorismo nel Nord Africa e in Medio Oriente, pubblicato nell’agosto 2010, oggi il paese più esposto alle minacce di AQIM è la Mauritania. Retto dal Presidente Mohamed Ould Abdel Aziz (leader del colpo di stato del 2008 e riconfermato alle elezioni del luglio 2009), il governo di Nouakchott è, infatti, accusato di essere un’empia formazione golpista e l’emblema del collaborazionismo con l’Occidente. L’appello lanciato da Abdel Aziz agli altri Stati dell’Africa occidentale per sostenere quella che viene definita una “guerra santa contro i terroristi”, colpevoli di “offuscare l’immagine dei musulmani e dell’Islam”, denota l’avvio di un nuovo piano nella lotta ad AQIM. Durante il discorso rivolto alla nazione il 4 agosto 2010, il Presidente della Mauritania, sostenuto dal partito di governo guidato da Ould Mohammed Lamin, invoca, in effetti, l’unità del paese nella battaglia contro il terrorismo ed una più stretta collaborazione con la Francia e avverte che le operazioni militari all’interno e all’esterno delle frontiere nazionali “continueranno fino a quando la sicurezza del (nostro) paese sarà minacciata”. Nell’ambito di un’offensiva preventiva contro imminenti nuovi attacchi di AQIM, l’esercito mauritano è, così, intervenuto a due riprese negli ultimi due mesi (luglio e settembre), agendo soprattutto in Mali e nelle regioni orientali di Adrar e Nema, dove l’attività jihadista è più intensa. Sotto la diretta supervisione di Ould Abdul Aziz e previo via libera della autorità di Bamako, il 18 settembre 2010 le forze mauritane hanno inaugurato un duro attacco, avvalendosi anche di mezzi aerei, contro i presunti rifugi di AQIM. Benché i dati in merito siano contrastanti, pare tuttavia che gli scontri abbiano provocato alcune vittime civili tra la popolazione maliana. Alla repentina condanna espressa dal vice presidente dell’Assemblea Nazionale di Bamako è seguita la dura reazione di AQIM. Tacciando l’esercito di Nouakchott di “agire su mandato dei miscredenti e dei crociati che uccidono innocenti in Iraq ed Afghanistan” e accusando il governo mauritano di essere un “agente della Francia”, Al-Qaeda ha formulato espresse ed ufficiali minacce ammonendo che “il sangue dei martiri non resterà impunito”. A ben guardare, comunque, la presenza di vittime civili serve la strategia di guerra psicologica perseguita da AQIM per attirare a sé un numero ancora maggiore di consensi e per descrivere il nemico come “servo dello straniero”. L’esercito di Nouakchott, ritenuto da AQIM “apostate, fantoccio e satanico”, risulta, però, ancora piuttosto debole: esso non è né ben equipaggiato, né adeguatamente pronto alla lotta serrata contro il terrorismo poiché si trova a dover combattere lontano dalla proprie basi operative e senza aver consolidato dei legami con la popolazione locale. Se la posizione della Mauritania appare, dunque, inequivocabilmente dura nei confronti dei terroristi, a Bamako si è, invece, riscontrata solo recentemente una rinnovata volontà di combattere AQIM. Più volte accusato di “lassismo” dall’Algeria e dalla Mauritania, il Mali ha adottato nel passato un atteggiamento di certa tolleranza verso l’organizzazione: nel 2003 concesse, ad esempio, l’asilo a Mokhtar Belmokhtar purché egli “non commettesse attività terroristiche su suolo maliano” e nel dicembre 2009 rilasciò 4 suoi militanti, provocando della tensione con il governo di Nouakchott. La politica del Presidente Amadou Toumani Touré, mossa dall’esigenza di non impegnarsi in modo troppo diretto contro i terroristi, ha, così, garantito un modus vivendi con AQIM. Bamako deve, obiettivamente, fare i conti con la scarsità di mezzi militari (l’ultima offensiva risale al giugno 2009) e con un esercito poco presente sul territorio, con la necessità di garantire un reale sviluppo alla popolazione e, soprattutto, con la perenne paura del risorgere della ribellione dei Tuareg (si tratta di una popolazione di circa 1,5 milioni di persone stanziate tra Niger, Mali, Algeria, Libia e Burkina Faso). Questo tacito accordo con AQIM sta, tuttavia, venendo progressivamente meno in virtù delle continue attività terroristiche perpetrate nel nord del paese e di una più forte cooperazione regionale anche nella sfera militare, che potrebbe portare ad una nuova militarizzazione della frontiera settentrionale.

Conclusioni

Le minacce, mai sopite, poste da AQIM nell’intera area trans-sahariana impongono un approccio globale ed interdipendente, capace di realizzare altresì una seria analisi  delle reali potenzialità dell’organizzazione, ed un rinnovato impegno dei governi della regione affinché una prospettiva di sviluppo possa essere davvero credibile agli occhi della popolazione, vincendone l’atavica diffidenza verso l’autorità centrale. La sfida raccolta all’incontro di Algeri, il costruttivo impegno americano e l’interesse degli organismi internazionali rappresentano certamente un valido incentivo alla prosecuzione del contrasto ad AQIM, che potrà, però, vantare dei successi tangibili solo quando verrà minata la rete di supporto locale di cui l’organizzazione gode. Urge, insomma, una strategia olistica che scongiuri il rischio di un ulteriore avanzamento di Al-Qaeda nel Maghreb e della possibile costituzione di una pericolosa linea di continuità con gli Al-Shabaab somali, suscettibile di rendere l’intera regione un impotente ostaggio del terrorismo islamista.

* Valentina Francescon è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)


[1] Abdelmalek Droukdal, ex leader di AQIM, durante un’intervista rilasciata al New York Times nel luglio 2008.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”


Uranio: il minerale della discordia

$
0
0

Segnali silenziosi di un cambiamento epocale

Il cambiamento c’è, ma non si vede. I segnali sono pochi, e in genere si tratta di notizie di rilevanza marginale. L’Iran cerca l’uranio in Bolivia; Russia e Kuwait firmano accordi di cooperazione nella progettazione di centrali atomiche; USA e Russia decidono congiuntamente di ridurre gli stock militari di plutonio; L’Egitto ottiene l’approvazione della IAEA per la costruzione di nuove centrali. Sembra essersi diffusa, fra le maggiori potenze mondiali, la preoccupazione di produrre energia elettrica attraverso la tecnologia nucleare. Non ultima l’Italia, visti i recenti rapporti fra Enel e Edf.

Il quadro si fa un po’ più chiaro guardando cosa è successo, negli ultimi anni, al prezzo dell’uranio.

Nella maggior parte dei Paesi, le centrali nucleari si assicurano la parte più importante del loro fabbisogno di uranio mediante contratti a medio e lungo termine con produttori esteri (mercato a termine). Tali contratti prevedono che le consegne avvengano circa 3 anni dopo la stipula e sono validi per una media di 6 anni. A partire dal 2005, sembra che il periodo di fornitura previsto dal contratto si sia esteso, in alcuni casi fino a 10 anni. In altre parole, gli acquirenti stanno cercando di bloccare le forniture per un periodo più lungo.

Sul mercato a termine, il prezzo di una libbra di uranio ha raggiunto il suo massimo nel 2007: 95 USD, quando solo tre anni prima ne costava 25. Il prezzo ha poi iniziato la discesa, stabilizzandosi sui 60 USD/lb. Qualcosa di simile è accaduto al mercato a pronti (in cui i contratti prevedono che la consegna avvenga a poche settimane dalla stipula), le cui transazioni hanno iniziato a farsi consistenti intorno al 2004(1).

Gli studi del settore(2) confermano l’impressione immediata che queste tendenze siano dovute, insieme a vari altri elementi, al rinnovato interesse per l’energia elettronucleare di cui si è detto: molti Paesi stanno rivedendo i propri piani energetici in questo senso.

Una risorsa attraente

Le motivazioni alla base di questa scelta sono molte. Inutile ribadire quanto gli studi portati avanti dalle agenzie che operano nel settore reputino questa forma di energia conveniente, sia in termini economici che di emissioni di biossido di carbonio. Studi per altro non esenti da critiche, soprattutto di tipo metodologico.

Gli elementi in questo senso meno attaccabili, che rendono l’uranio una risorsa strategica, sono essenzialmente due.

In primo luogo, occorre considerare la stabilità del prezzo dell’energia elettrica rispetto alle variazioni del prezzo della materia prima. Il processo di lavorazione dell’uranio è piuttosto lungo, e per ottenere il combustibile adatto al funzionamento del reattore c’è bisogno di una consistente manodopera: il costo finale è dato, più che dal prezzo del minerale in sé, da questa componente. Se ne può dedurre che, a fronte di una variazione anche forte del prezzo dell’uranio, il costo del prodotto finale non dovrebbe variare di molto. Questo rende la tecnologia nucleare più “sicura” rispetto alle altre, in primo luogo rispetto alla combustione di carbone e gas(3).

Uno studio portato avanti in sede OECD(4) ha fornito una misura quantitativa di questa convenienza, stimando l’aumento percentuale che si otterrebbe sul prezzo finale dell’energia a fronte di un raddoppio del costo della materia prima. Questo inciderebbe per il 40% nel caso di una centrale a carbone, per il 75% nel caso di una centrale a gas, e solo per il 4% nel caso di una centrale nucleare. Se, anziché al minerale, guardassimo al combustibile finito, si avrebbe un aumento del 15%. Un vantaggio innegabile.

In secondo luogo, occorre rilevare che l’uranio è un minerale presente sulla quasi totalità della superficie terrestre. Si tratta di una caratteristica importante: esattamente come un investitore che diversifica il portafoglio degli investimenti per ridurne il rischio, uno Stato deve diversificare la provenienza delle proprie forniture, per evitare che un evento qualsiasi (guerre, calamità naturali, incidenti diplomatici) interrompa gli approvvigionamenti, gettando il Paese nel caos.

Le conseguenze di questo fenomeno, oltre che rilevanti e controverse sul fronte interno, sono, per i Paesi fornitori, di portata ben più ampia di quanto si possa immaginare.

Cerchiamo di capire perché.

Tanti fruitori, pochi fornitori

La prima considerazione, abbastanza ovvia, è la seguente: affinché, in un dato territorio, l’estrazione di un dato minerale si riveli redditizia, occorre che questo sia sufficientemente concentrato. È per questo che le analisi, normalmente, si focalizzano sulle risorse estraibili ad un costo inferiore ai 130 USD per chilogrammo di uranio. È inoltre per  questo motivo che la produzione di uranio è concentrata in pochi Paesi, appena 19, contro i 31 che hanno bisogno di questo minerale per produrre elettricità. Fra i maggiori produttori figurano, subito dopo i tre “giganti” del’uranio (Canada, Australia, Kazakistan), Paesi Africani come Niger, Sud Africa e Namibia(5).

Nel corso degli ultimi venti anni, le spese per l’esplorazione (sia su territorio nazionale che non) in tutti i Paesi interessati sono diminuite progressivamente. Dal 2004 si è registrata un’inversione di tendenza, riguardante però solo i Paesi produttori e sul solo versante interno. Attualmente, la produzione da estrazione mineraria(6) soddisfa solo il 50-60% della domanda mondiale, e il 40% della domanda nell’OECD. Nel 2004 solo Canada e Sud Africa producevano abbastanza per soddisfare la domanda interna, mentre gli altri Paesi si affidavano alle importazioni o alla produzione secondaria.

Questi dati possono essere riassunti in questo modo: abbiamo a che fare con una materia prima “interessante” per vari motivi; per ironia della sorte, molti dei potenziali fruitori si sono, per così dire, “disinteressati” del suo reperimento per circa un ventennio, da quando l’incidente di Chernobyl ha terrorizzato l’opinione pubblica, scoraggiando tutti quelli che, a vario titolo, volessero proseguire sulla strada del nucleare. Le necessità degli ultimi anni hanno dato il via ad una “corsa” in cui tutti i giocatori sono interessati ad aggiudicarsi prima degli altri le forniture, “bloccando” i contratti o assicurandosi lo sfruttamento dei giacimenti più promettenti. Questa dinamica, come si è già anticipato,  ha delle ripercussioni molto importanti sui produttori africani. Per rendersene conto, basta andare sul sito della World Nuclear Association e sbirciare la lista dei maggiori operatori nel settore estrattivo dell’uranio(7).

Nel 2008, l’87% della produzione mineraria mondiale era assicurato da dieci imprese; tra queste, le più importanti erano l’anglo-australiana Rio Tinto, la canadese Cameco (Canadian Mining and Energy Corporation), la francese Areva, la kazaka KazAtomProm. L’insieme delle quattro aziende provvedeva al 59% della produzione mineraria mondiale.

La tabella 1 riporta appunto la ripartizione delle quote di mercato fra le varie imprese mondiali, sulla base della percentuale di output.

Non è un caso che, nel 2004, la Francia fosse una delle sole quattro nazioni che avessero registrato in bilancio una spesa per l’esplorazione mineraria al di fuori del proprio territorio nazionale(8): quasi l’80% dell’elettricità francese è prodotta in centrali nucleari, ed una delle maggiori imprese estrattive è francese.

Tabella 1 – Produzione mineraria di uranio per impresa

Impresa Tonnellate U %
Rio Tinto 7975 18
Cameco 6659 15
Areva 6318 14
KazAtomProm 5328 12
ARMZ 3688 8
BHP Billiton 3344 8
Navoi 2338 5
Uranium One 1107 3
Paladin 917 2
GA/ Heathgate 636 1
Altri 5620 13
Totale 43,93 100

Fonte: World Nucelar Association

Nell’ottica di quanto esposto sopra, il governo francese (che è anche il maggiore azionista di Areva) ha due motivi per assicurarsi l’accesso all’estrazione di uranio: primo, perché ne ha bisogno per alimentare la sua imponente industria nucleare; secondo, per sfruttare i vantaggi della “corsa” alle forniture di uranio. Non disponendo di risorse proprie, deve necessariamente rivolgersi a Paesi esteri.

L’interlocutore privilegiato

La tabella 2 fornisce un’idea di come è ripartita la proprietà degli impianti di produzione fra operatori pubblici e privati per i più importanti Paesi produttori. Russia, Uzbekistan e Kazakistan possono essere scartati da subito: è difficile inserirsi in quello che è, di fatto, un monopolio statale (primi due casi), così come risulterebbe difficile farsi strada all’interno di un sistema di relazioni diplomatiche privilegiate come quelle che intercorrono fra Russia e Kazakistan.

Canada, Australia, Niger e Namibia, possono essere messi sullo stesso piano? Certamente no. Sia il Canada che l’Australia possono contare su un’esperienza più che ventennale e su un’impresa nazionale che opera nel settore. Un eventuale operatore esterno che volesse ottenere dei permessi per l’esplorazione o acquistare dei siti per l’estrazione, dovrebbe fare i conti con due “giganti” già attivi sul territorio. Quando si ha a che fare con un Paese in via di sviluppo, magari estremamente povero, si ha solo da guadagnare, soprattutto se sono già state instaurate delle relazioni diplomatiche privilegiate. L’’instabilità politica, tuttavia, è una nota fortemente negativa, poiché fa aumentare il rischio che una guerra o un rovesciamento politico intervengano a rallentare le operazioni.

Tabella 2 Proprietà delle produzioni di uranio basata sull’ output (%) al 2004

Imprese nazionali Imprese estere
Attori pubblici Attori privati Attori pubblici Attori privati
Australia 0 44 3,6 52
Canada 0 66 32,5 1,5
Kazakistan 73 17,4 0 9,6
Russia 100 0 0 0
Niger 33,2 0 0 66,8
Namibia 3,5 96,5 0 0
Uzbekistan 100 0 0 0

Fonte: NEA-IAEA (2005)

Uno strano destino. Il caso Niger.

Il caso nigerino è abbastanza esemplificativo. Il Niger è uno dei Paesi più poveri al mondo, che ha sperimentato una crescita lenta e faticosa, e la cui stabilità politica sembra tutt’altro che consolidata. Questi due elementi in particolare sembrano essere inesorabilmente collegati con la presenza di uranio nel Paese, l’unica risorsa veramente abbondante, insieme all’oro.

Per molti anni, l’economia di questo Paese non ha sperimentato altre forme di produzione che l‘allevamento, la pesca e l’agricoltura. L’unica eccezione significativa è rintracciabile negli anni dal 1979 al 1982: gli anni del boom nucleare(9), durante i quali il tasso di crescita annuo del PIL reale pro capite triplicò(10), e il settore minerario raggiunse il 13% della produzione nazionale. Non è necessario ribadire cosa accadde dopo: l’industria nucleare mondiale subì una battuta d’arresto, e così l’economia del Niger. Il PIL reale pro capite conobbe una diminuzione del 3,4% annuo, mentre la siccità danneggiava il settore primario, gli investimenti dall’estero diminuivano, e il debito pubblico (che negli anni del boom aveva finanziato l’investimento in infrastrutture) aumentava. Ad oggi, dopo una lenta ripresa (il Paese ha beneficiato di aiuti internazionali e agevolazioni sul pagamento degli interessi sui prestiti), dopo immani sforzi di modernizzazione e sviluppo umano, l’uranio costituisce la risorsa naturale più significativa del territorio nigerino e la principale merce di esportazione. I siti più promettenti e più sfruttati sono situati nella regione a Nord del Paese.

La Francia compare sia come interlocutore diplomatico privilegiato che come donatore. Sul fronte dell’estrazione, Areva detiene il controllo delle due compagnie minerarie nazionali e delle due miniere esistenti (Cominak e Somair).

Il governo democraticamente eletto di Mamadou Tandja, l’unico che è riuscito a governare ininterrottamente per dieci anni, ha adottato la strategia della ricerca di investimenti esteri privati. Sul versante dell’uranio, è riuscito a imporre dei cambiamenti consistenti. Anzitutto, nel 2007, ha ottenuto da Areva che il prezzo dell’uranio venisse raddoppiato (11). Sempre nel 2007, la Exelon Corporation (una holding statunitense) ha stipulato con il governo un contratto per l’acquisto di 300 tonnellate di uranio all’anno per dieci anni. Nello stesso anno il governo ha accordato 122 licenze per esplorazione a compagnie estere (Francesi, Cinesi, Canadesi, Australiane, Indiane, Sud Africane e Statunitensi). In quello stesso anno, un articolo pubblicato sull’Economist (12) affermava che Areva aveva perso il monopolio durato 36 anni.

All’inizio del 2009, Areva e il governo nigerino hanno firmato la licenza per uno scavo minerario ad Imouraren (località isolata, a circa 160 chilometri a nord di Agadez e 80 km a sud di Arlit). Areva ha accettato di costituire una joint venture per il progetto, in cui detiene il 66,65%, lasciando il restante 33,35% allo stato del Niger. Questa miniera dovrebbe rendere 5.000 tonnellate di uranio all’anno, per più di 35 anni, più che raddoppiando le esportazioni di uranio in corso. Si tratta del più grande progetto mai realizzato in Niger.

Cosa si cela dietro questi dati?

Anzitutto un problema redistributivo. Non è un caso che, proprio nel 2007, si siano risvegliati i malcontenti della comunità Tuareg. Non si tratta di un conflitto puramente etnico: anzitutto il gruppo dei ribelli ha un nome, Mouvement des Nigériens pour la Justice (MNJ). In secondo luogo ha un sito internet, facilmente accessibile da google, attraverso il quale comunica al mondo le proprie rivendicazioni. Richieste semplici: distribuire equamente le ricchezze derivanti dallo sfruttamento minerario, assumere nigerini, salvaguardare l’ambiente e rispettare i costumi locali. Ad Arlit (un altro sito di estrazione), si legge, la popolazione è ancora costretta ad attingere l’acqua dai pozzi, acqua per di più inquinata, nonostante i quasi quarant’anni di investimenti confluiti nella zona. Ogni attività commerciale, continua l’articolo, è resa impossibile e il livello di radioattività è 10 volte superiore al normale. L’Africa Research Bulletin, in un articolo del 4 giugno 2009(13), cita uno studio di Survie, una ONG specializzata nelle relazioni franco-africane, in cui si evidenzia che lo sfruttamento minerario nel nord del Niger non migliora le condizioni di vita della popolazione locale, ma che al contrario ha effetti disastrosi sul piano sociale, ambientale e della salute. Anche la CRIIRAD denuncia la presenza ad Arlit di rifiuti radioattivi abbandonati in giro, che la popolazione locale raccoglie e utilizza nei modi più disparati. Una situazione che, per chi si occupa di problemi ambientali ed ha familiarità con le teorie sul commercio internazionale, è nota come “pollution heaven”: se la produzione di alcuni beni richiede, ad esempio, più manodopera, sarà il Paese in cui la manodopera costa meno a specializzarsi nel produrre quel bene. Allo stesso modo, se la produzione di uranio provoca alti livelli di inquinamento, costerà di meno produrre uranio là dove le istituzioni sono più deboli, e i controlli meno rigidi. Ed è là che i produttori di uranio andranno a investire i propri capitali. A scapito delle popolazioni locali.

Naturalmente non finisce qui. La pagina web del MNJ afferma di ricevere le armi da commercianti Tuareg, di contare solo sulle proprie forze e di non accettare finanziamenti o aiuti da governi esteri. Al contrario, a Niamey non sono state risparmiate accuse di simpatia per i ribelli. Fondamentalmente rivolte a due stati: Francia e Libia.

La Libia è coinvolta per via di un’annosa contesa di confine: la regione in questione è ricca, oltre che di uranio, di oro e petrolio. È stato Gaddafi, del resto, a mediare i negoziati tra il governo e l’MNJ nel 2009.

Che il governo francese sia alleato di un movimento che boicotta le operazioni di Areva, potrebbe sembrare poco probabile. Bisognerebbe capire cosa si adatti di più alle esigenze commerciali di Areva: che il governo prosegua sulla strada delle infrastrutture e delle riforme, guadagnando stabilità e pacificando la zona, o che si indebolisca ulteriormente per non erodere il monopolio che il gigante francese ha esercitato fino a tre anni fa sull’uranio nigerino.

Così facendo si getterebbe luce anche sulla recente deposizione del presidente Tandja, rovesciato da una giunta militare per aver tentato di imporre una riforma costituzionale che gli avrebbe permesso di governare per altri due anni.

Qualunque sia la chiave di lettura, questi conflitti si inseriscono in un contesto in cui le istituzioni locali devono, evidentemente, ancora trovare una logica di funzionamento stabile. Come finirà la vicenda del MNJ, di questo estremo tentativo di tutelarsi, fra costituzioni che vanno e vengono e interessi che restano sempre uguali?

*Federica Nalli è dottoressa in Scienze Politiche (Università degli studi di Firenze)

(1) E. O. Michel-Kerjan, D. K. Decker (2007)

(2) E. O. Michel-Kerjan, D. K. Decker (2007)

(3) Le fonti rinnovabili di solito vengono escluse dall’analisi in quanto fortemente vincolate alle condizioni meteorologiche e inadatte a soddisfare la domanda in modo continuo

(4) Risks and benefits of Nuclear Energy, OECD (2007), Parigi

(5) I dati qui riportati si riferiscono ai giacimenti noti come Risorse Identificate (IDR, Identified Resources), a loro volta suddivisi in Risorse Ragionevolmente assicurate (Reasonably Assured Resources, RAR) e Non Scoperte (Undiscovered Resaurces, UR), cioè dedotte da stime geologiche.

(6) La produzione da estrazione mineraria va sotto il nome di produzione primaria, mentre per produzione secondaria si intende una serie di produzioni alternative quali: il riprocessamento del combustibile esaurito; la riconversione del plutonio di grado militare; l’arricchimento dell’uranio impoverito; il ricorso agli stock di uranio arricchito, sia civili che militari.

(7) Occorre distinguere quattro principali segmenti del mercato, uno per ogni fase del ciclo di produzione del combustibile: estrazione, conversione, arricchimento, fabbricazione del combustibile.

(8) Le altre tre erano Australia, Canada, Svizzera

(9) Pur essendo iniziata nel 1971, l’estrazione di uranio divenne consistente solo nel 1979. fonte: FMI,

([1]0) FMI,

([1]1) Background Notes on Countries of the World: Republic of Niger Feb2010, p1-1

([1]2) Economist 9/15/2007, Vol. 384 Issue 8546, p62-62

([1]3) Volume 46, Issue 4, pages 18253C–18254C, June 2009

Dietro il colpo di Stato in Ecuador

$
0
0

Fonte: TeleSurTv

Organizzazioni finanziate dalla USAID* e dalla NED** chiedono le dimissioni del Presidente Correa in sostegno al colpo di Stato promosso dai settori della polizia ecuadoriana, infiltrata profondamente dagli Stati Uniti.Un nuovo tentativo di golpe contro un paese appartenente all’Alleanza Bolivariana per i popoli di nostra America (ALBA) attenta l’integrazione latinoamericana e l’avanzata dei processi di rivoluzione democratica. La destra è all’attacco. Il risultato ottenuto in Honduras nel 2009, contro il governo di Manuel Zelaya, le ha reso il pieno di energia, forza e speranza, necessaria per potersi scagliare contro i popoli e i governi della rivoluzione in America Latina.

Le elezioni in Venezuela di domenica 26 settembre, anche se principalmente sono risultate vincenti per il Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV), allo stesso tempo hanno ceduto spazio alle più reazionarie e pericolose forze destabilizzatrici al servizio degli interessi imperiali. Gli Stati Uniti sono riusciti a collocare le loro pedine chiave all’interno dell’Assemblea Nazionale venezuelana, realizzando una piattaforma utile per l’avanzata dei loro piani cospirativi atti a scalzare la democrazia in Venezuela.Il giorno dopo le elezioni venezuelane, la leader colombiana per la pace, Piedad Córdoba, è stata destituita dal ruolo di Senatrice della Repubblica di Colombia da parte del Procuratorato nazionale, basandosi su accuse ed evidenze false. Un attacco che simboleggia un’operazione contro le forze progressiste in Colombia che cercano soluzioni reali e pacifiche al conflitto in corso da più di 60 anni.

Ed ora, giovedì, 30 settembre, l’Ecuador minacciato da un colpo di Stato. Le forze di polizia insubordinate hanno occupato diverse installazioni nella capitale Quito, creando caos e panico nel Paese. Ipoteticamente le proteste erano rivolte contro una nuova legge approvata mercoledì scorso (29/09/2010, NdR) dall’Assemblea Nazionale che secondo i rivoltosi taglia i benefici lavorativi.Il Presidente Rafael Correa, con l’intento di risollevare la questione, si è diretto verso il gruppo di polizia insubordinata, divenendo però bersaglio di oggetti contundenti e bombe lacrimogene, che gli hanno procurato una ferita nella gamba ed un’asfissia a causa del gas. E’ stato allora trasferito presso l’ospedale militare della città di Quito, dove successivamente è stato sequestrato e trattenuto con la forza senza possibilità di uscita.

Nel frattempo, movimenti popolari hanno invaso le strade di Quito reclamando la liberazione del suo Presidente, rieletto democraticamente l’anno passato con una maggioranza immensa. Migliaia di ecuadoriani hanno alzato la voce in sostegno al Presidente Correa, provando a riscattare la sua democrazia dalle mani delle forze golpiste che in quel momento cercavano di provocare l’uscita forzata del governo nazionale.

Mentre però gli eventi continuano a svilupparsi e il Presidente Correa continua ad essere sequestrato dalla polizia golpista, alcuni fattori esterni, coinvolti in questo tentativo di golpe, cominciano a muovere nuovamente le loro pedine.

Polizia Infiltrata

Secondo il giornalista Jean-Guy Allard, un rapporto ufficiale del Ministro della Difesa dell’Ecuador, Javier Ponce, diffuso nell’ottobre 2008, rivelò “che diplomatici statunitensi si dedicavano a corrompere polizia e forze armate”.Il rapporto affermava, inoltre, che unità della polizia “mantengono una dipendenza economica informale con gli Stati Uniti, per il pagamento di informatori, abilitazioni, attrezzatura ed operazioni”.Come risposta a tali informazioni, l’ambasciatrice statunitense in Ecuador, Heather Hodges, dichiarò “Noi lavoriamo con il governo ecuadoriano, con i militari e con la polizia, per fini molto importanti per la sicurezza”, giustificando così la collaborazione. Secondo Hodges, il lavoro con le forze di sicurezza ecuadoriane è relazionato con la “lotta al narcotraffico”.

L’Ambasciatrice

L’ambasciatrice Heather Hodges è stata inviata in Ecuador nel 2008, dall’allora Presidente George W. Bush. A priori aveva svolto con successo la gestione del ruolo di ambasciatrice in Moldavia, paese socialista che in passato era parte dell’Unione Sovietica. In Moldavia lasciò ben seminata la pista per una “rivoluzione colorata” che di fatto si sviluppò, con esito negativo, nell’Aprile 2009, contro la maggioranza eletta del partito comunista in parlamento.Hodges è stata, inoltre, inserita presso l’Ufficio degli Affari Cubani, come vicedirettrice nel 1991, ovvero una divisione del Dipartimento di Stato dedito a promuovere la destabilizzazione cubana. Due anni dopo è stata spostata in Nicaragua, in modo da supportare l’incarico di Violeta Chamorro, presidente scelto dagli Stati Uniti dopo la sporca guerra contro il governo sandinista uscito dal potere nel 1989.Quando Bush decise di inviarla in Ecuador, l’intenzione era quella di preparare la destabilizzazione ai danni di Correa, nel momento in cui il presidente ecuadoriano si sarebbe negato a subordinarsi all’agenda di Washington. Hodges riuscì allora ad incrementare il budget della USAID e della NED a favore di organizzazioni sociali e gruppi politici, incluso il settore indigeno, in grado di promuovere gli interessi degli Stati Uniti.Di fronte alla rielezione del Presidente Correa nel 2009, basata sulla nuova costituzione approvata nel 2009 da una maggioranza schiacciante di ecuadoriani e ecuadoriane, l’ambasciata cominciò a fomentare destabilizzazione.

USAID

Alcuni gruppi sociali progressisti hanno espresso il loro malcontento con le politiche del governo di Correa. Non ci sono dubbi che esistano lamentele e reclami legittimi al suo governo. Non tutti i gruppi o le organizzazioni che sono contro le politiche di Correa, sono agenti imperiali. Tuttavia, esiste al loro interno un settore che riceve finanziamenti e direttive per provocare situazioni di destabilizzazione nel paese, che va oltre la naturale espressione di critica o opposizione ad un governo.Nel 2010, il Dipartimento di Stato statunitense ha aumentato il budget della USAID, in Ecuador, a più di 38 milioni di dollari. Negli ultimi anni, un totale di 5.640.000 dollari in fondi è stato investito nel lavoro di “decentralizzazione” del Paese. Uno dei principali esecutori dei programmi della USAID in Ecuador è la stessa azienda che opera con la destra in Bolivia: Chemonics, Inc. Allo stesso tempo, la NED ha concesso un accordo di 125.806 dollari al Centro para la Empresa Privada (CIPE) in modo da promuovere i trattati di libero commercio, la globalizzazione e l’autonomia regionale, attraverso radio, televisioni e stampa ecuadoriana, unito con l’Istituto Ecuadoriano di Economia Politica.

Organizzazioni ecuadoriane come Participación Ciudadana e Pro-justicia hanno disposto di finanziamenti da parte della USAID e della NED, allo stesso modo di membri e settori della CODEMPE, del movimento Pachakutik, della CONAIE, della Corporación Empresarial Indigena del Ecuador y la Fundación Qellkaj.Durante i fatti di giovedì 30 settembre in Ecuador, uno di questi settori finanziati dalla USAID e dalla NED, ovvero il Blocco Pachakutik, ha emesso un comunicato in sostegno alla polizia golpista, richiedendo le dimissioni del Presidente Rafael Correa, accusandolo di essere il responsabile dei fatti accaduti. Additandolo, per di più, di mantenere una “attitudine dittatoriale”:

“PACHAKUTIK CHIEDE LE DIMISSIONI DEL PRESIDENTE CORREA E CHIAMA A COSTITUIRE UN UNICO FRONTE NAZIONALE Bollettino di Stampa 141

Il capo del Bloque del Movimiento Pachakutik, Cléver Jiménez, dopo la grave scossa politica e crisi interna, sorta a causa dell’attitudine dittatoriale del Presidente Rafael Correa con la quale ha violato i diritti dei servitori pubblici e della società nel suo insieme, ha invitato il movimento indigeno, i movimenti sociali e le organizzazioni politiche democratiche a costruire un unico fronte nazionale per esigere l’uscita del Presidente Correa, sotto la tutela di quanto stabilito dall’Articolo 130, numero 2 della Costituzione, che afferma: “L’Assemblea Nazionale potrà destituire il Presidente della Repubblica nei seguenti casi: 2) Causa grave crisi politica e turbamenti interni”.

Jiménez ha appoggiato la lotta dei servitori pubblici del paese, includendo fra loro anche la polizia di truppa mobilitata contro le politiche autoritarie di un regime che pretende conculcare i diritti dei lavoratori acquisiti. La situazione della polizia e dei membri delle Forze Armate deve essere intesa come una giusta azione dei servitori pubblici, i cui diritti sono stati danneggiati.Pachakutik sta convocando, per questa sera, tutte le organizzazioni del movimento indigeno, i lavoratori, uomini e donne democratiche per costruire l’unità e prepararsi a nuove azioni in rifiuto all’autoritarismo di Correa, in difesa dei diritti e garanzia di tutti gli ecuadoriani.Responsabile di Stampa

BLOQUE PACHAKUTIK”

Il copione utilizzato in Venezuela e Honduras si ripete nuovamente. Tentano di accusare il Presidente e il governo come responsabili del “golpe”, forzando in seguito la sua uscita dal potere. Il colpo di Stato contro l’Ecuador è la prossima fase dell’aggressione permanente contro l’ALBA e i movimenti rivoluzionari nella regione.Il popolo ecuadoriano si mantiene mobilitato in rifiuto al tentativo di golpe, mentre le forze progressiste della regione si raggruppano per esprimere la loro solidarietà e sostegno al Presidente Correa e al suo governo.

* La USAID, sigla che sta per United States Agency for International Development, si definisce la principale agenzia USA di aiuto nei confronti di quei paesi vittime della povertà o di gravi catastrofi ambientali, è inoltre impegnata per la promozione di riforme democratiche sia negli Stati Uniti stessi che nel resto del Mondo.
Questa è una vera e propria agenzia governativa federale indipendente, diretta e guidata per ciò che concerne le azioni di politica estera dal Segretario di Stato in persona.Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito: www.usaid.gov

** La NED, acronimo di National Endowment for Democracy, è un’organizzazione privata no profit, dedita alla crescita e allo sviluppo della democrazia e delle istituzioni democratiche nel Mondo.Maggiori informazione presso: www.ned.org

Entrambe le organizzazioni sono spesso al centro di polemiche e coinvolte in finanziamenti di governi e gruppi collegati agli interessi degli Stati Uniti d’America, che tramite queste cercano di guidare la politica in varie parti del mondo.


NdT

(Traduzione a cura di Stefano Pistore)

Arlacchi: Attentati nello Yemen mostrano scarsa credibilità allarme antiterrorismo in Europa

$
0
0

Bruxelles, 7 ottobre 2010

«Ho denunciato nei giorni scorsi la scarsa credibilità dell’allarme lanciato dagli apparati della sicurezza USA su imminenti attentati in Europa. Adesso constatiamo che questi attentati ci sono stati, ma nello Yemen. A 5mila chilometri di distanza da Berlino. E in forme alquanto deboli: un razzo contro un auto diplomatica e l’uccisione di un tecnico europeo che può forse essere legata al terrorismo» dichiara in una nota Pino Arlacchi, europarlamentare, ex vicesegretario generale ONU con incarichi di lotta al terrorismo e alla delinquenza internazionale.

«Come Apocalisse mi sembra un po’ troppo soft per giustificare il panico indiscriminato lanciato qualche giorno fa. Ma negli USA ci sono ormai oltre un milione di persone che campano su una industria della paura che fattura oltre 100 miliardi di dollari all’anno e che resterebbero senza lavoro se il terrorismo venisse trattato per quello che realmente è. Per non parlare poi dell’industria mondiale della comunicazione, che tiene su tirature e ascolti spaventando la gente», conclude Arlacchi.

USA-Arabia Saudita: nuovo corso, o ricorso storico?

$
0
0

La notizia, diffusa a metà settembre scorso, della conclusione di un affare da sessanta miliardi di dollari per l’acquisto, da parte del Regno dell’Arabia Saudita, di armamenti e mezzi militari statunitensi ha rianimato il dibattito sulle relazioni particolari tra i due Paesi, spingendo diversi analisti ad affermare la teoria secondo cui Stati Uniti ed Arabia Saudita, dopo un periodo di rottura a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001, avrebbero posto le prime basi per la ricostruzione di una politica comune di sicurezza in Medio Oriente.

Sulle intenzioni da parte dell’amministrazione Obama di riedificare la struttura di sicurezza poggiante per gran parte sul Regno dei Saud, non ci sono dubbi. I dubbi sorgono, piuttosto, a proposito della gravità della crisi nelle relazioni tra i due Paesi dall’11 settembre ad oggi e, soprattutto, riguardo alla scelta di costruire sicurezza armando un regime come quello al potere nella Penisola Araba, anche alla luce di esempi analoghi nella storia recente.

La connection statunitense-saudita

Fin dal 1931, anno in cui gli Stati Uniti riconobbero ufficialmente il Regno dell’Arabia Saudita, i rapporti tra i due Paesi hanno assunto caratteristiche di particolarità. A partire dal 1933, infatti, compagnie statunitensi iniziarono a trivellare il territorio saudita alla ricerca di petrolio, in cambio del pagamento di somme di denaro e royalties al Regno Saudita.

Negli anni ’40, la Seconda Guerra Mondiale e il sentore dei primi segnali di guerra fredda avevano reso chiaro all’amministrazione Roosvelt come le riserve di petrolio saudite fossero una risorsa strategica fondamentale per la sicurezza e la difesa della posizione di un paese, gli Stati Uniti, che si apprestava ad imporsi sempre più come superpotenza mondiale.

I rapporti tra Stati Uniti ed Arabia Saudita non si limitarono alla collaborazione in campo petrolifero. Sul versante militare, nel 1951, gli Stati Uniti stabilirono una missione permanente di addestramento in territorio saudita, fornendo alle forze armate del paese supporto logistico e informativo sull’uso delle armi e sui servizi di sicurezza, e assistendo con i propri ingegneri la costruzione di installazioni militari nel Regno. Nei decenni successivi, gli Stati Uniti si sarebbero impegnati nella vendita, a più riprese, di potenti armamenti e mezzi militari al Regno Saudita, garantendo la sopravvivenza di quel rapporto particolare che tanto interessa entrambi i paesi.

Fin dagli anni ’30, dunque, gli Stati Uniti hanno trovato nell’Arabia Saudita un alleato strategico fondamentale, la cui difesa risultava, secondo le parole di Roosvelt, “vitale” per la difesa statunitense.

In effetti, il posizionamento dell’Arabia Saudita può essere definito di capitale importanza strategica per diversi motivi: innanzitutto, il suo territorio si estende sopra la riserva di petrolio più ingente al mondo; inoltre, essa occupa una posizione geografica esclusiva, a cavallo tra Asia ed Africa, è bagnata dalle acque, fondamentali per il commercio internazionale, del Mar Rosso e del Golfo Persico, confina a Nord con il Medio Oriente caldo di Siria, Israele, Palestina, Libano, si affaccia con le sue coste orientali sulle coste occidentali dell’Iran, si trova a mezza via (a livello geografico e in un’ottica tipica del periodo della guerra fredda) tra il mondo occidentale e il mondo orientale, ed è in grado, infine, di influire sui paesi arabi della regione con un soft power di matrice religiosa e l’uso combinato di ingenti somme di petrodollari. Tutte queste ragioni rendono l’Arabia Saudita unica in più dimensioni: la orizzontale, a causa della sua posizione geografica; la verticale, a causa del tesoro nero che si trova sotto le sue sabbie; e, infine, la terza dimensione, magari meno evidente nelle sue forme, ma di certo forte nelle sue conseguenze, del potere economico e culturale di influenza su tutta la regione.

Ai tempi della guerra fredda, diventava quindi fondamentale per una superpotenza mondiale, ingaggiata in uno scontro con una superpotenza analoga, l’appoggio da parte di chi controllava questo territorio e le sue risorse. D’altra parte, anche l’Arabia Saudita trovava negli Stati Uniti un alleato insostituibile: da un lato, infatti, il moderno paese occidentale garantiva al Regno un trasferimento di denaro, di mezzi e di know how tecnico-militare che nessun altro poteva offrire. In secondo luogo, la stretta alleanza con una superpotenza mondiale permetteva all’Arabia Saudita di contare sulla difesa del proprio territorio dalle mire dei paesi limitrofi, arabi e non arabi, la cui vicinanza da un lato rendeva il territorio del Regno strategicamente fondamentale, dall’altro lo rendeva fortemente vulnerabile e allettante per diversi attori regionali. Le paure del Regno saudita, quindi, trovavano nell’apparato difensivo statunitense una sicurezza in cui rifugiarsi quando il mondo circostante si faceva troppo pericoloso. Il caso più evidente, in questo senso, fu la richiesta di difesa militare statunitense, da parte del Regno, in occasione dell’invasione irachena del Kuwait.

I lati oscuri della connection

Tuttavia, malgrado la dipendenza reciproca, i rapporti tra Stati Uniti ed Arabia Saudita non sono apparsi, nei decenni, sempre idilliaci. Troppe differenze di struttura tra i due paesi li rendono per molti versi incompatibili. Innanzitutto, un’Arabia Saudita retta da una dinastia reale che è emanazione di una corrente religiosa rigorosa e intransigente, lo Wahabismo, e che sola ha accesso al potere, che perpetua il proprio insediamento alla guida del paese distribuendo le massime cariche del paese, politiche ed economiche, ai propri discendenti, che intasca i proventi delle risorse petrolifere nazionali, che impone ai propri cittadini leggi ferree di derivazione religiosa, diventa in molti casi un alleato alquanto imbarazzante per un paese, gli Stati Uniti, che da decenni si propone come principale modello, difensore e, da qualche anno, esportatore di democrazia nel mondo. Inoltre, un terzo incomodo difficilmente superabile che ostacola l’idillio tra Stati Uniti e Arabia Saudita è costituito dalla questione palestinese, da sempre spina nel fianco nei rapporti tra i due paesi e causa di diversi fratture, seppur temporanee.

Così, fin della seconda metà degli anni ’30, quando iniziarono gli scontri tra arabi ed ebrei in Palestina, il supporto statunitense alla causa ebraica prima, e allo Stato israeliano poi, ha creato un certo disappunto in Arabia Saudita. Inoltre, non bisogna dimenticare come il rapporto esistente tra i due paesi, e la presenza statunitense nel paese dove sorgono le città sante di La Mecca e Medina, abbia fatto infuriare Osama Bin Laden, soprattutto da quando, in occasione dell’invasione irachena del Kuwait, i sovrani sauditi preferirono essere difesi dall’esercito statunitense piuttosto che affidarsi ai suoi mujaheddin. Questa scelta attirò l’ostilità di al-Qaeda verso i Saud, il cui paese ha subito, prima e dopo l’11 settembre, diversi attentati.

D’altra parte, il partenariato con i sauditi da un lato e con Israele dall’altro ha in altrettante occasioni creato ingenti difficoltà agli Stati Uniti, che da decenni si trovano, pur essendo una superpotenza mondiale, ad essere in un certo senso “ostaggio” dei propri alleati, che, a loro volta, dipendono comunque dal supporto statunitense. Questo intricato meccanismo ha rischiato più volte, nei decenni, di implodere e di collassare: tuttavia, i reciproci interessi in gioco tra i tre paesi hanno fatto sì che le alleanze incrociate resistessero agli scossoni portati dalla storia.

L’esempio più evidente fu la crisi del 1973, quando, in seguito al supporto statunitense ad Israele durante la cosiddetta guerra del Kippur tra le forze di difesa israeliane e l’esercito egiziano, l’Arabia Saudita decise di partecipare all’embargo petrolifero contro gli Stati Uniti ed altri paesi indetto dai principali stati esportatori di petrolio, causando così una crisi petrolifera a livello globale.

11 settembre 2001: la fine della connection?

La crisi più dura che la connection statunitense saudita si è trovata ad affrontare è senza dubbio quella dell’11 settembre 2001. La scoperta che ben 15 dei 19 esecutori degli attacchi di quel giorno fossero di nazionalità saudita non ha lasciato indifferente l’amministrazione e l’opinione pubblica statunitense. Un conseguente raffreddamento nei rapporti sembra essere seguito, con gli Stati Uniti che, oltre ad aver diminuito il flusso di armi verso l’Arabia Saudita, iniziarono a rivolgere maggiore attenzione verso altri paesi della regione, come l’Iraq post-Saddam, la Turchia, il Pakistan e, al contempo, potenziarono ulteriormente il legame con Israele.

Il governo saudita, da parte sua, cercò fin dall’inizio di dissociare l’immagine del proprio paese da quella dei dirottatori dell’11 settembre, collaborando con gli Stati Uniti nella cosiddetta “Guerra al Terrore” e attuando una serie di nuove politiche anti-terrorismo in Arabia Saudita e internazionalmente. Inoltre, poco dopo l’11 settembre, l’Arabia Saudita firmò un contratto da 14 milioni di dollari con Qorvis, un’agenzia di Public Relations di Washington, affinché lanciasse una campagna volta a riabilitare l’immagine del paese negli Stati Uniti, attraverso spot televisivi preparati ad hoc, che evidenziavano i legami dei governanti sauditi con quelli statunitensi, così come i “valori condivisi” di Stati Uniti e Arabia Saudita.

In realtà, se molti analisti dimostrano come i rapporti tra i due paesi, dopo l’11 settembre, siano crollati drasticamente, essi non sono mai stati interrotti. Un’interessante inchiesta sviluppata dal giornalista Gerald Posner1 racconta come i servizi segreti statunitensi avrebbero interrogato, dopo averlo catturato, Abu Zubaydah, un membro di al-Qaeda vicino a Bin Laden, ottenendo da questi i numeri di telefono privati del principe Ahmed Bin Salman Bin Abdul Aziz, il nipote del re saudita Fahd, di altri due principi sauditi, nonché del capo dell’aeronautica pakistana, Mushaf Ali Mir. Dopo circa tre mesi dalla divulgazione di tali rivelazioni, Posner racconta come tutti i personaggi denunciati da Zubaidah siano morti in misteriosi incidenti. Tali fattori, tuttavia, sembrano essere stati, secondo Posner, trascurati dalle indagini sull’11 settembre, tanto che la più completa indagine ufficiale, effettuata dalla statunitense National Commission on Terrorist Attacks upon the United States, non soltanto non si perita di azzardare un giudizio sulla veridicità delle rivelazioni di Zubaidah, ma non racconta nemmeno delle morti sospette ad essa seguita. Secondo Posner, l’amministrazione Bush avrebbe all’epoca bloccato un’inchiesta della CIA su questi fatti, con l’intento di coprire il possibile coinvolgimento di alcuni membri della famiglia reale saudita negli attacchi dell’11 settembre.

L’esempio portato da Posner dimostra come da un lato l’amministrazione Bush si sia trovata, dopo l’11 settembre, nella situazione di dover dimostrare pubblicamente un certo distacco nei confronti del partner saudita, mentre dall’altro essa non abbia mai inteso recidere i legami con l’Arabia Saudita, né abbandonare la struttura economica e difensiva che con i Saud ha costruito in decenni di attività. Ne sono ulteriore prova le tre visite diplomatiche che dal 2002 al 2008 il re saudita Abdullah ha effettuato negli Stati Uniti, e le due visite di George W. Bush nel regno saudita del 2008, che rappresentano il primo caso di una duplice visita, da parte di un presidente statunitense, allo stesso paese in meno di quattro mesi.

L’amministrazione Obama e le sfide dei prossimi decenni

L’amministrazione Obama non sembra aver abbandonato la politica precedente nei riguardi dell’Arabia Saudita.

Inoltre, il fatto che quasi dieci anni siano passati dagli attacchi dell’11 settembre e che nel frattempo l’opinione pubblica si sia concentrata su altre questioni, come l’Afghanistan o l’Iraq, permette all’amministrazione Obama una maggiore libertà di avvicinamento, anche pubblico, al tradizionale partner saudita.

D’altra parte, gli Stati Uniti che Obama si trova a dover governare sono profondamente diversi da quelli del 2001: da un lato, le ingenti operazioni militari in Afghanistan e Iraq hanno messo a dura prova le casse del governo statunitense; dall’altro, la crisi globale iniziata nel 2008 proprio negli Stati Uniti ha fiaccato ulteriormente l’economia del paese. Inoltre, la crescente esuberanza iraniana nella regione, unita allo sviluppo di potenze asiatiche regionali sempre più alla ricerca di petrolio per carburare la crescita delle rispettive economie, sembrano non aver lasciato agli Stati Uniti altra scelta che un accelerazione nel riavvicinamento al Regno saudita in chiave strategico- difensiva, come nella migliore tradizione della storia dei due paesi.

Così, alle metà di settembre del 2010 gli Stati Uniti hanno concluso un affare da circa sessanta miliardi di dollari per la vendita all’Arabia Saudita di armamenti e mezzi militari. L’accordo prevede, nell’arco dei prossimi dieci anni, la fornitura di 84 nuovi caccia da combattimento F-15, che assicureranno la superiorità dell’aeronautica saudita su quella iraniana per circa un decennio, oltre ad un maggior livello di interoperabilità con le forze aeree statunitensi; la fornitura di circa 150 elicotteri da combattimento Apaches, Black Hawks e Little Birds; il riassetto e l’aggiornamento di alcuni mezzi aerei già in dotazione all’aeronautica saudita; la fornitura di razzi aerei ad alta precisione; la fornitura di diverse navi da guerra che dovrebbero monitorare le coste saudite e gli impianti di estrazione petrolifera offshore.

Una tale mossa si rivela al momento vantaggiosa per gli Stati Uniti in più direzioni: da un lato, le entrate assicurate da una tale vendita serviranno a ridare vigore all’economia statunitense, ravvivandone le esportazioni e l’afflusso di denaro nel mercato interno; dall’altro, l’armamento dell’esercito saudita consentirà di delegare all’Arabia Saudita le attività di difesa, fornendole una maggiore indipendenza e risparmiando così al Governo americano ulteriori futuri dispendi a tale fine, anche nell’ipotesi di un attacco iraniano al di fuori dei propri confini.

Inoltre, la conclusione dell’affare sembra voler sancire la volontà, anche da parte dell’amministrazione Obama, di fondare il sistema di sicurezza in Medio Oriente ancora sull’Arabia Saudita, oltre che sullo storico alleato Israele, alla luce dell’instabile situazione irachena e della perdita di affidabilità da parte dell’altro alleato tradizionale, il Pakistan. Infine, un riavvicinamento alla maggiore riserva petrolifera del mondo servirà da ammonimento alle nuove potenze emergenti, sempre più assetate di petrolio e sempre più intenzionate a circuire i paesi esportatori.

Di converso, la notizia dell’accordo commerciale tra Stati Uniti ed Arabia Saudita sembra essere stata accolta in Israele con apprensione. Secondo il quotidiano Haaretz, fonti dell’apparato di difesa nazionale avrebbero rivelato la preoccupazione che le armi in dotazione all’Arabia Saudita possano essere usate, in futuro, contro il territorio israeliano. Malgrado le rassicurazioni da parte del Governo statunitense, secondo cui gli armamenti avranno la sola funzione di contenimento nei confronti di eventuali azioni ostili dell’Iran, il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha chiesto agli Stati Uniti di garantire che i mezzi venduti all’Arabia Saudita non saranno più avanzati di quelli in dotazione alle forze israeliane, in modo tale da non perdere la superiorità militare. Anche in questo caso, come in passato, gli Stati Uniti si sono trovati a dover mediare tra due alleati importanti, Israele ed Arabia Saudita, in contrasto tra loro.

Malgrado queste complicazioni, la scelta di scommettere sull’Arabia Saudita appare probabilmente obbligata in un tale scenario. In realtà, pur essendosi verificato un certo raffreddamento temporaneo, i rapporti tra i due paesi non sono mai stati interrotti. D’altra parte, la storia della connection statunitense saudita non era, nemmeno prima dell’11 settembre, connotata da una perenne sintonia, quanto piuttosto da una serie di accordi intervallati da scossoni di disappunto.

Quello che più stupisce, a mio avviso, nella notizia del nuovo accordo commerciale con l’Arabia Saudita, non è tanto il riavvicinamento degli Stati Uniti con il Regno dei Saud, quanto piuttosto le modalità con cui questo è avvenuto.

Infatti, appare quantomeno controverso il fatto che un Presidente come Barak Obama, che ha formato la propria immagine sulla promessa di un cambiamento nelle direzioni politiche statunitensi, che ha dimostrato in diversi interventi ufficiali una volontà di approccio nuovo alle crisi mediorientali, intenda costruire un sistema di sicurezza basato sul potenziamento dell’arsenale militare di un paese che difficilmente si può considerare equilibrato e totalmente distaccato dall’islamismo organizzato. La politica statunitense di armamento in chiave difensiva di paesi alleati contro potenze ostili risale ai tempi della guerra fredda, e ha creato, nei decenni, alcuni mostri come l’Afghanistan dei Talebani o il Pakistan nucleare.

La scelta di ricorrere ad una tale soluzione strategica risulta oggettivamente assai vantaggiosa nelle contingenze attuali, ma appare poco lungimirante e mina, a mio avviso, quella promessa di innovazione e di nuovo corso della politica statunitense su cui Barak Obama ha costruito la propria immagine e la propria fortuna. Se ad una politica difensiva cautelativa, come quella appena descritta, l’amministrazione Obama sarà in grado di associare la costruzione di un dialogo con l’Iran basato su trattative e su negoziati, piuttosto che su deterrenze muscolari, allora potrà dirsi veramente compiuto il nuovo corso della politica estera statunitense.

* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)

1 Gerald Posner, Secrets of the Kingdom. The inside story of the Saudi-U.S. connection, Random House Trade Paperbacks, New York 2005.

Turchia e Iran: alleati o semplici amici?

$
0
0

Turchia e Iran stanno vivendo un epocale riavvicinamento, che li ha portati ad un’attiva collaborazione economica e diplomatica. Questo processo è stato vissuto con allarme da Europa e Stati Uniti, preoccupati per l’apparente svolta orientale intrapresa dal governo di Ankara.

Molti politici e analisti occidentali sono apparsi preoccupati dall’ambiziosa politica estera condotta dalla Turchia, che dal 2002 è governata da un partito di matrice islamica, sebbene moderato. Mentre alcuni temevano che questo portasse la secolare Turchia ad intraprendere una politica estera islamista, altri paventavano la resurrezione dello spirito dell’impero Ottomano. Omer Taspinar, in particolare, ha messo in guardia da un crescente “Gaullismo turco”, che coniugherebbe nazionalismo, grandeur e frustrazione nei confronti degli storici alleati occidentali.
Tali sospetti si sono diffusi in particolare dopo che Ankara ha rifiutato il proprio appoggio alle sanzioni emanate a giugno 2010 dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Nello stesso periodo l’incidente della flottiglia salpata dalla Turchia per infrangere il blocco di Gaza, aveva fatto precipitare ai minimi storici le relazioni tra Ankara e Tel Aviv. Riflettendo una percezione piuttosto diffusa, Tom Friedman del New York Times è arrivato a vedere la Turchia come parte di un asse anti-israeliano che comprende Iran, Hamas e Hezbollah. Ma è proprio vero che Ankara ha fatto una scelta tra Oriente e Occidente?

Zero problemi

L’AKP (partito per la giustizia e lo sviluppo) del primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha fatto il suo ingresso sulla scena politica turca nel 2002, quando ha vinto di misura le sue prime elezioni. Pur essendo un partito filo-islamico, il programma dell’AKP si basava su liberalizzazione economica e riformismo democratico; infatti gli otto anni di governo non hanno portato ad un’islamizzazione della politica turca.

La tenuta del partito, che era stato confermato alla guida del paese nel 2007, è stata ulteriormente rafforzata dalla vittoria del sì al referendum sulle modifiche costituzionali del 12 settembre scorso. Con un alto tasso di partecipazione, il 58% della popolazione ha dato il suo consenso al pacchetto proposto dall’AKP, che prevede una revisione della magistratura e delle prerogative dei militari.

Da quando è al potere l’AKP, la Turchia ha vissuto un periodo piuttosto roseo dal punto di vista economico, riuscendo ad apportare le necessarie riforme per superare la crisi del 2000. Grazie agli alti livelli di crescita è diventata la diciassettesima economia mondiale oltre che membro del G-20. Nel 2009 l’inflazione era scesa al 9,5%, gli investimenti diretti stranieri erano aumentati di quindici volte rispetto agli anni novanta e le esportazioni erano quadruplicate fino a raggiungere 132 milioni di dollari. È proprio l’economia il cardine del successo dell’AKP e, dunque, anche in politica estera è stata la determinante delle sue scelte. Inoltre, il desiderio di diventare un membro a tutti gli effetti dell’Unione Europea ha spinto l’AKP ad allinearsi agli standard Ue, rafforzando le strutture democratiche e tentando di risolvere le dispute di lungo periodo con Cipro e con l’Armenia.

Pur restando fermamente interessata all’accesso all’Ue, la Turchia ha dovuto fare i conti con le riserve espresse al riguardo da alcuni paesi europei, specialmente Francia e Germania. Rinunciando all’idea di un rapido ingresso nel club europeo, ha compreso l’esigenza di diversificare i propri legami economici. Inoltre, nuove possibilità imprenditoriali nella regione hanno spinto la Turchia ad accrescere sempre più il proprio coinvolgimento nei mercati del Medio Oriente, dalla Libia al Golfo Persico.

Tali passi avanti si sono concretizzati sotto la leadership di Ahmet Davutoglu, principale consigliere di Erdogan sulla politica estera e, dal 2009, ministro degli esteri. Questo stimato professore – definito un “Kissinger turco” dalla rivista Foreign Policy – ha sostenuto un nuovo attivismo in politica estera, rivendicando per Ankara un ruolo sempre più indipendente nel Medio Oriente e oltre, pur mantenendo ai primi posti lo storico legame con la NATO e l’ambizione alla membership dell’Ue.

Nell’area mediorientale Davutoglu riconosce l’importanza di utilizzare il proprio retaggio storico per intrattenere buone relazioni con i vicini, in modo da sviluppare al meglio un “soft power” che la configuri naturalmente come ponte tra Oriente e Occidente. Questa cosiddetta politica di “zero problems with neighbors” si è indirizzata non solo all’espansione dei suoi legami con le economie mediorientali, ma anche verso la risoluzione dei vari conflitti aperti nella zona che la riguardassero in maniera più o meno diretta. Quindi si sono fatti passi avanti per appianare i contrastati rapporti con Cipro e con l’Armenia, ma anche per svolgere un ruolo di intermediazione regionale grazie ai propri vincoli strategici e culturali. Così la Turchia si è proposta come mediatrice di varie dispute regionali, aiutando Israele e Siria ad intraprendere negoziati per normalizzare i loro rapporti, mediando fra sunniti e sciiti in Iraq e ospitando incontri d’alto livello tra i leader di Pakistan e Afghanistan.

Se questo coinvolgimento può far pensare ad una pericolosa fratellanza islamica, bisogna ricordare che la stabilità è la chiave della crescita economica. Alleviare le tensioni regionali, infatti, è stato un utile strumento per promuovere una maggiore interdipendenza economica che è andata a beneficio della Turchia. Un quarto delle sue esportazioni sono assorbite dai mercati del Medio Oriente (un aumento di sette volte nell’ultimo decennio) e i suoi investimenti sono particolarmente estesi nella zona, soprattutto in Iraq e Siria. Inoltre, Ankara ha firmato nel 2010 un’importante dichiarazione politica con Siria, Libano e Giordania che prevede la formazione di una zona di libero scambio, l’eliminazione dei visti turistici e un consiglio di cooperazione fra i quattro paesi.

La strana coppia

Se questi sviluppi sono passati relativamente inosservati, altrettanto non si può dire della nuova amicizia che lega l’Iran alla Turchia e del raffreddamento dei rapporti tra quest’ultima e Israele.

Iran e Turchia, che avevano condiviso ottimi rapporti nell’ambito dell’alleanza anti-sovietica CENTO, si erano allontanati dopo la rivoluzione islamica del 1979, poiché la Turchia voleva difendere il suo sistema secolare dalla minaccia dell’ideologia islamista. Una volta abbandonata l’idea di esportare la rivoluzione iraniana, le relazioni tra Ankara e Tehran erano riprese, ma solo nell’ultimo decennio si è assistito ad un riavvicinamento. La contesa tra l’Iran e la comunità internazionale sul programma nucleare, tuttavia, ha fatto leggere in una chiave diversa questo processo.
Il premier Recep Tayyip Erdogan ha definito il presidente Ahmadinejad un “grande amico” e ha bollato come pettegolezzi le accuse di progetti nucleari militari. I leader dei due paesi hanno scambiato visite reciproche e, all’indomani delle contestate elezioni del 2009, il primo ministro turco ha chiamato Ahmadinejad per congratularsi della sua rielezione. Il 17 maggio scorso, tuttavia, Erdogan ha stupito tutti, volando a Tehran con il presidente brasiliano Lula per firmare un accordo in ambito nucleare.

Il compromesso prevedeva che l’Iran trasferisse su territorio turco 1200 chili di uranio a basso arricchimento, perché fossero trattati ulteriormente, in modo da produrre materiale utilizzabile per scopi medici. Entro un anno sarebbero stati restituiti all’Iran 120 chili di uranio arricchito al 20%. Un simile compromesso era stato proposto alcuni mesi prima anche dal cosiddetto Gruppo di Vienna (che comprende Russia, Francia, Stati Uniti e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica AIEA) con lo scopo di attenuare le preoccupazioni occidentali sui veri fini del programma nucleare iraniano, dal momento che l’arricchimento dell’uranio avrebbe avuto luogo fuori dal suo territorio.
Le potenze occidentali temono che l’Iran, sotto la copertura di impianti civili, stia sviluppando tutte le capacità per costruire armi nucleari. Per questo motivo, dal 2006, Tehran è soggetta a sanzioni economiche emanate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha più volte richiesto la sospensione dell’arricchimento dell’uranio quale misura di “confidence building”. Se il rifiuto ad aderire a queste richieste è preoccupante per l’intera comunità internazionale, bisogna anche ricordare che l’Iran ha diritto ad utilizzare l’atomo a scopi pacifici, fintanto che rispetta gli accordi di salvaguardia dell’AIEA.

L’accordo negoziato da Brasile e Turchia, tuttavia, andava a interferire con gli sforzi che gli Stati Uniti avevano fatto nei mesi precedenti per convincere Russia e Cina ad appoggiare un nuovo round di sanzioni. Frustrati dai continui rifiuti iraniani, gli americani hanno criticato il compromesso promosso da Ankara, sostenendo che non avrebbe fornito garanzie sufficienti. Alla seduta del Consiglio di Sicurezza del 9 giugno 2010, quindi, gli Stati Uniti hanno promosso la quarta risoluzione sanzionatoria e Turchia e Brasile, quali membri temporanei del Consiglio, hanno votato “no”. Il Libano, inoltre, si è astenuto ma la risoluzione è stata approvata, sebbene con un grado di approvazione ai minimi storici.

Questa mancanza di consenso da parte di paesi alleati dell’Occidente è stato un duro colpo per Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che avrebbero voluto un voto positivo. Tuttavia, appoggiando la risoluzione, Brasile e Turchia avrebbero perso la faccia, sostanzialmente negando quanto avevano firmato poche settimane prima. L’incrinatura della posizione occidentale rispetto al programma nucleare iraniano riguarda il metodo più che l’obiettivo. La Turchia, infatti, condivide i timori degli alleati e si sentirebbe direttamente minacciata nel caso l’Iran diventasse un paese militarmente nucleare. Tuttavia, Ankara sostiene che isolare Tehran può solo essere controproducente, spingendo la leadership iraniana ad adottare posizioni sempre più radicali.

È necessario, piuttosto, trovare una soluzione negoziale e la Turchia si propone come mediatore naturale in questa disputa, data la sua capacità di interagire ad alto livello tanto con Washington che con Tehran. Lo stesso premier inglese David Cameron ha sostenuto che è proprio la Turchia il paese europeo con la maggiore probabilità di convincere l’Iran a cambiare la sua politica nucleare. Una simile capacità, se effettivamente portata avanti, sarebbe un importantissimo risultato per un paese emergente come la Turchia, consacrandolo come ponte diplomatico di primissimo rilievo tra Est e Ovest.

Oltre alla motivazione diplomatica, bisogna sottolineare che in Iran la Turchia ha profondi interessi economici che vengono messi a repentaglio dalle sanzioni economiche. Memore dei costi che ha dovuto pagare per le sanzioni contro l’Iraq di Saddam Hussein, Ankara mira a salvaguardare i suoi crescenti legami commerciali con Tehran. Tra il 2002 e il 2009 le sue esportazioni verso l’Iran sono cresciute di sette volte, passando da 300 milioni di dollari a 2 miliardi. Inoltre, Ankara importa 1/5 del suo gas naturale da Tehran e, preparandosi a diventare il corridoio energetico tra Asia ed Europa, vorrebbe che anche il petrolio e il gas iraniano passassero sul suo territorio.

Significato e prospettive

Piuttosto che a scelte di natura ideologica, la politica estera turca nei confronti di Tehran sembra quindi improntata a considerazioni pragmatiche. I legami commerciali e diplomatici sono stati utili per entrambi, ma è difficile immaginare che il riavvicinamento si trasformi in un’alleanza.

Innanzitutto la loro relazione non è stata esente da contese, tra cui la diversità di vedute sul futuro dell’Iraq. Se l’Iran si dotasse realmente di armi nucleari, inoltre, Ankara dovrebbe fare i conti con un’importante minaccia alla propria sicurezza nazionale e al suo status regionale. Insieme all’Egitto, infatti, è uno dei paesi che più probabilmente controbilancerebbe l’atomica iraniana seguendone le orme, rischiando di innescare un’ondata di proliferazione nel Medio Oriente. Un’alleanza islamica, poi, non appare giustificata, dato che, per entrambi, l’islam appare strumentale per appellarsi alle masse domestiche e del mondo musulmano in generale, più che per dare fondamento a scelte di politica estera. Date le rispettive dimensioni strategiche, Turchia e Iran possono entrambe ambire ad un ruolo di primo piano nella regione, cosa che le porterà ad essere in competizione se non addirittura rivali.
Come ha evidenziato il presidente Obama, l’impossibilità di accedere in tempi brevi all’Unione europea ha giocato un ruolo importante nel riorientare i suoi interessi verso Est. Chiusa fuori dal circuito europeo, la Turchia ha cercato altro sbocco per la sua economia in crescita, tentando al contempo di proporsi come attore rilevante sulla scena internazionale. È importante sottolineare, però, che la Turchia rimane legata a doppio filo all’Occidente, tanto dal punto di vista economico che politico. I legami transatlantici e la partecipazione alla NATO rimangono la chiave di volta della sicurezza turca. Inoltre, non è diminuita la priorità assegnata all’accesso all’Unione europea, che è responsabile dei ¾ degli investimenti esteri nel paese e che compra circa metà delle esportazioni turche.

In sostanza Ankara rimane dedicata agli obiettivi occidentali di stabilità e risoluzione dei conflitti in Medio Oriente, ma, come molti altri paesi emergenti, vorrebbe un ordine internazionale più in sintonia con l’attuale distribuzione di potere a livello globale. Come sostenuto recentemente dall’ex ministro degli esteri Joshka Fischer, il mondo non è più governato dall’Occidente.

* Roberta Mulas è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

Elezioni in Brasile e intelligence statunitense

$
0
0

Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2010/10/07/elections-in-brazil-and-the-us-intelligence-community.html 07.10.2010

Sembrava sospetto recentemente che Washington, che tende a denigrare senza ritegno come “immature” le democrazie dell’America Latina e dei Caraibi, abbia fatto seri sforzi per dimostrare rispetto verso il Brasile. L’Amministrazione di G. Bush bollò come “immaturi” gli Stati latino-americani con regimi populisti e, in generale, tutti i paesi che mostrano un atto di sfida, difendendo i loro interessi nazionali dalla pressione degli Stati Uniti. Il Brasile non ha mai permesso di mettere il suo diritto alla sovranità e a una posizione indipendente nella politica internazionale in discussione, negli otto anni della presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva, ed era ampiamente previsto che l’amministrazione di G. Bush, alla fine, avrebbe perso la pazienza e cercato di domare il leader brasiliano. Nulla del genere è successo, però, evidentemente perché gli USA si sentivano troppo gravati dai problemi con il Venezuela per rimanere bloccati in un conflitto supplementare in America Latina.
Parlando ai diplomatici e agli agenti dei servizi segreti presso l’Ambasciata degli Stati Uniti in Brasile, nel marzo 2010, la Segretaria di Stato Usa H. Clinton ha sottolineato: “Nell’Amministrazione Obama stiamo cercando di approfondire e ampliare i nostri legami con un certo numero di Paesi strategici, e Brasile è in cima alla lista. Questo è un paese che ha molta importanza. Ed è un paese che sta cercando disperatamente di mantenere la promessa fatta al suo popolo di un futuro migliore. E così, insieme, gli Stati Uniti e Brasile devono aprire la strada per i popoli di questo emisfero“.
È interessante notare che H. Clinton ha accreditato il Brasile con niente di meno che il diritto di indicare la strada alle altre nazioni, anche se alla  pari con Washington. Per quest’ultima, la strada è quella di sopprimere qualsiasi iniziativa socialista in tutto il continente, di astenersi dall’unirsi ai progetti di integrazione regionale, a meno che siano patrocinate dagli Stati Uniti, di opporsi agli sforzi dei populisti volti a formare un blocco della difesa latino-americano, e di ostacolare la crescente espansione economica cinese.
Gli USA hanno nominato l’ex capo del Dipartimento di Stato dell’Ufficio Affari dell’Emisfero Occidentale e diplomatico di peso con una reputazione di falco, Thomas A. Shannon, a nuovo ambasciatore in Brasile, alla vigilia delle elezioni nel paese. Ha cercato di convincere il presidente del Brasile ad allineare il paese agli Stati Uniti e ad adottare una politica internazionale meno indipendente. Washington ha offerto dei vantaggi al Brasile, come una cooperazione più ampia per la produzione di combustibile rinnovabile, acconsentire a stabilire una divisione della Boeing nel paese, e ha firmato una serie di accordi con le industrie della difesa brasiliane, compresa la Commissione di 200 aerei Tucano per l’aviazione degli Stati Uniti.
Il Presidente da Silva non ha dato seguito. Ha testardamente mantenuto la partnership con H. Chavez e E. Morales, è andato a L’Avana e a Teheran, ha condannato il colpo di Stato pro-USA in Honduras, e si è anche impegnato a sviluppare un settore energetico nucleare nazionale. Ha proposto Dilma Rousseff – una candidata che ci si aspetta segua  allo stesso modo un corso indipendente- come suo successore. Allarmante per Washington, la Rousseff è usa essere vicina al partito comunista ed è stata membro della Vanguardia Armada Revolucionaria – in particolare, con lo pseudonimo di Giovanna d’Arco – negli anni ’70. Fu tradita da un agente del governo, arrestata, torturata con i metodi che la CIA ha insegnato presso la Scuola delle Americhe, e ha dovuto passare tre anni in carcere. Di conseguenza, anche decenni dopo, la Rousseff non è una persona che realisticamente dovrebbe essere una grande fan degli Stati Uniti.
La campagna della Rousseff ha gradualmente acquistato slancio e i sondaggi cominciano a darle il vantaggio nella gara col candidato di destra José Serra.  I giornalisti amici degli USA e gli agenti della CIA, hanno sondato la sua disponibilità a stringere un accordo segreto con Washington e, prevedibilmente, hanno scoperto che non vi è alcuna possibilità per il piano, avendo la Rousseff fermamente giurato fedeltà al corso del presidente da Silva. La CIA ha reagito tentando di screditare la Rousseff, e immediatamente è riemerso il mito sul suo estremismo. Hanno riportato alla luce degli informatori della polizia, che hanno proposto come “testimoni” del suo coinvolgimento nelle rapine in banca, con l’intendo di prendere i soldi per sostenere il terrorismo in Brasile. I media conservatori hanno iniziato una guerra dei sondaggi e propagandato con un coro pro-USA José Serra, come un candidato incontestato e la Rousseff – come una rivale puramente nominale. La situazione tuttavia si è stabilizzata e la Rousseff, infine, è emersa come leader grazie alla personale campagna di sostegno del presidente da Silva.
Il punteggio della Rousseff è sceso del 3-4%, impedendole di essere la vincitrice al primo turno delle elezioni. L’esito del ballottaggio dipenderà in gran parte dai sostenitori di Marina Silva Vaz de Lima, del Partito Verde, che è uscita terza alle elezioni con il 19% dei voti. La battaglia sui sostenitori del partito dei Verdi è in corso, e l’oscura squadra di Shannon, senza dubbio, farà del suo meglio per sostenere un’alleanza tra Serra e Silva.
Il gruppo della Rousseff ha visibilmente temperato il suo trionfalismo iniziale – il ballottaggio è un gioco difficile, e gli avversari del loro candidato sono implicitamente sostenuti dal potente impero, pieno di risorse, che è noto per avere regolarmente spinto dei candidati senza speranza verso la vittoria. I media del Brasile – l’azienda O’Globo media,  l’editore Abril, giornali autorevoli come Folha de Sao Paulo, e la rivista Veja – sono impegnati nel lavaggio del cervello degli elettori del paese.
Il team di Shannon si trova ad affrontare la missione di aiutare le “forze fresche“, meno incline alla sfida nel trattare con Washington, ad ottenere il controllo sul potere in Brasile. Da questo punto di vista, proprio il giocatore giusto è il Partito dei Verdi, in cui gli agenti della CIA hanno da tempo acquisito posizioni importanti, con gli Stati Uniti tradizionalmente interessati ai problemi ecologici del bacino amazzonico. Al momento la CIA sta corteggiando i leader e gli attivisti Verdi, parallelamente esigendo promesse di posizioni per loro, presso il futuro governo provenienti, per i manager dalla campagna della Serra. Washington deve compiere un lavoro urgente, visto che Silva e il suo entourage pianificano di decidere, il 10 ottobre, su quale piatto della bilancia gettare il loro peso, per il ballottaggio. La Rousseff, d’altro canto, ha anche il potenziale per attrarre i sostenitori del partito dei Verdi, visto che la Serra era un membro del governo del presidente da Silva, fino al 2008.
La Cia impiega ex poliziotti brasiliani licenziati dai loro incarichi per vari motivi, per fare il lavoro sul campo, come sorveglianza, penetrare negli appartamenti, furti di dati informatici, e  ricatti. Nella maggior parte dei casi, questi sono individui con tendenze di ultra-destra che considerano la Serra come loro candidata. I ministeri, servizi segreti, e il complesso militare-industriale del Brasile sono pesantemente infiltrati dagli agenti statunitensi. Il personale dell’Ambasciata e dei consolati degli Stati Uniti in Brasile, comprende circa 40 agenti di CIA, DEA, FBI e dell’intelligence dell’esercito, e Washington prevede di aprire 10 nuovi consolati nelle principali città del Brasile, come Manaus, in Amazzonia.
Mentre il Dipartimento di Stato USA riduce la rappresentanza diplomatica a livello mondiale, nello sforzo di tagliare la spesa del bilancio, il Brasile rimane un’eccezione alla regola. Il paese ha il potenziale per affermarsi come  contrappeso geopolitico degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale, nei prossimi 15-20 anni, e le Amministrazioni degli Stati Uniti – sia repubblicane che democratiche – sono preoccupate dal compito di impedirle di prendere il ruolo.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/

Groundwater resources: Indo-Italian workshop

$
0
0

Fonte: NEERI

Groundwater resources:  Indo-Italian workshop

The workshop will be held on October 20, 2010 in Nagpur, India, at Neeri (National environmental engineering research institute) and it is expected to draw about 100 experts from Cnr-Italy as well as from different agencies in India working on the groundwater field.

Human development and population growth exert many and diverse pressures on the quality and quantity of water resources and access to them. During the past few decades the stress on the availability of water is growing and its quality is deteriorating. The water resources sector is presently encountering a series of interlinked issues which if not dealt in totality may prove to have serious ramifications in the long run. Population explosion, unpredictable rainfall pattern, natural calamities and climate change further affect water resources. It is common knowledge that there is no life without water. The reference is not just water but safe water.

The strategic objectives of the summit are to deliberate on the sustainability of the use of the ground water resources both from the quality as well as quantity aspect.  Scientists will present the techniques as well as case studies pertaining to the themes.

The side table on waste disposal and environmental pollution will deliberate on the impact of domestic and hazardous waste disposal on the soil and groundwater pollution.


Lo strano tabù della stampa occidentale: mai parlar male di Israele

$
0
0

Fonte: http://lindro.it/blog/node/38

Non toccate Israele e tutto quel che gli ruota attorno: questo è il meccanismo cosciente o inconscio che presiede il mondo dell’informazione occidentale.

Si possono fare molti esempi, non solo di deformazione o invenzione di fatti inesistenti – classica è la menzogna delle armi di distruzione di massa di Saddam, preludio-alibi alla guerra del marzo 2003 –, ma anche di censura o autocensura di tutte le notizie scomode che in qualche modo potrebbero – se solo citate – dare una immagine negativa del sionismo e dello Stato ebraico. Ne faccio uno solo, prima di passare al tema di questo mio breve intervento.

Muore Cossiga, si dividono i commenti fra “un presidente controcorrente che ha svelato tanti segreti” e dall’altra parte “i segreti se li è portati nella tomba”, ma nessuno, a mo’ di prova o di eccezione, cita l’intervista al Corriere della sera del dicembre 2009, in cui l’ex Presidente sosteneva che l’11 settembre fu organizzato dalla Cia e dal Mossad. Ed ecco dunque il “caso” Ahmadinejad.

Morto Saddam, è lui il nuovo nemico dei mass media occidentali a cui attribuire tutte le nefandezze del mondo, magari correggendo successivamente il tiro, ma con un trafiletto e non con titoli cubitali e soprattutto a “uso” compiuto della mala informazione.

Il caso Neda col “sangue” al ketchup dei suoi “soccorritori”, il caso Sakineh con la certezza di una lapidazione che poi non c’è stata e con l’occultamento dell’accusa di omicidio, la questione nucleare con la richiesta assurda a Teheran di fornire le prove del non uso militare del progetto – ma è l’accusa a dover trovare la prova e non il contrario – , e poi i suoi discorsi in sede ONU.

Quello di Ginevra a Durban II, una condanna forte del razzismo, e quello recentissimo alle Nazioni Unite, il 22 settembre scorso. Guardate i titoli del giornali del giorno dopo. Correggono al rialzo dello “scandalo”, il contenuto degli stessi articoli. Si parla ad esempio di Washington “furibonda” (Repubblica) contro il dato di fatto che Obama, lui, non ha proprio nessuna intenzione di andare alla guerra contro Teheran, perché sa che pagherebbe un prezzo politico-diplomatico enorme. Si parla anche di “provocazione” di Ahmadinejad.

Provocazione? Che cosa ha mai detto il presidente iraniano alle Nazioni Unite due settimane fa? Ha affrontato in pratica sei temi: il capitalismo e il colonialismo sua espressione storica, di cui ha denunciato l’etica “egoista” e i mali che hanno procurato e stanno procurando all’umanità.

Il problema palestinese, senza alcuna esternazione “strategica”, ma solo con la denuncia puntuale delle “case … riparo di donne e bambini” “quotidianamente distrutte” dagli occupanti “, della gente “privata di acqua, cibo e medicine in casa propria”, dei “crimini orribili … nelle guerre contro il Libano e a Gaza” e nell’attacco alla “flottiglia umanitaria, in palese disprezzo di tutte le norme internazionali”.

Ancora: la questione della riforma dell’ONU – dal diritto di veto per pochi paesi, allo squilibrio del rapporto fra Assemblea generale e Consiglio di Sicurezza a vantaggio di quest’ultimo. E il nucleare, su cui Ahmadinejad ha ribadito il suo slogan “energia atomica per tutti, armi atomiche per nessuno”.

Tutti temi e affermazioni su cui si discute e si deve discutere, ma non così ignote a assurde anche in Occidente, dalla tradizione comunista al nucleare europeo, dalla solidarietà di milioni di persone verso la Palestina, al nodo ONU, al centro dell’attenzione di tutte le cancellerie occidentali. Infine, l’11 settembre.

Ahmadinejad non avanza certezze come Cossiga, ma ipotesi, fra le quali appunto quella di un coinvolgimento nell’attentato, in modo più o meno diretto, neppure di Israele, ma solo degli Stati Uniti. Uno scandalo? Uno scandalo, di fronte ai sondaggi USA che dicono che il 60-70% dei cittadini americani non crede alla versione ufficiale, e di fronte al segnale dello stesso Obama, la costruzione di una moschea sul Ground Zero? No, lo scandalo è il modo di informare sull’Iran, variante del modo di informare sul suo acerrimo nemico, Israele.

C’è un link fra il Presidente Cossiga e il Presidente Ahmadinejad. Il primo è silenziato dalla censura-autocensura, il secondo è stracitato e stratitolato per le simili affermazioni sull’attentato alle Torri gemelle, colpa dell’Occidente più che dell’Islam.

Un link apparentemente assurdo, fra il Presidente della Gladio e il Presidente dei Pasdaran, ma con un’identica conclusione: che si taccia o si parli, l’obbiettivo della “grande” informazione occidentale è quello di occultare la verità, oggi giornalistica, un domani – chissà – anche storica.

Claudio Moffa, professore ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali, Università di Teramo Coordinatore del Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente

Crisi in Ecuador: un test di prova o un annuncio dei tempi che verranno?

$
0
0

Nelle prime ore di stamane, l’America del Sud è stata sorpresa da una sollevazione delle forze di polizia dello stato ecuadoriano. (Con il pretesto di protestare per essere stati privati di una serie di privilegi). Non era chiaro inizialmente come si sarebbero comportate le forze armate di fronte a questa azione sovversiva con un chiaro atteggiamento di sfida contro il Presidente della Repubblica e che a metà mattinata si aggravava con atti di violenza verso il Presidente e le sue guardie, quando si è diretto con decisione al Quartiere dove si trovavano i principali responsabili della rivolta, a intimare loro di cambiare atteggiamento, e che dopo in maniera sospetta questo atteggiamento dei faziosi, è stato accompagnato da una serie di “saccheggi” nelle principali città dell’Ecuador, evidentemente pianificati, per produrre la sensazione di vuoto di potere e crisi del governo.

L’atteggiamento del Presidente ha messo in difficoltà i settori militari che non sapevano in quel momento se stavano partecipando o no ad un colpo di stato. L’Ecuador nelle sue ultime vicende politiche ha vissuto momenti di grande tensione e di permanenti atteggiamenti destabilizzatori con presidenti deposti o obbligati da Manu a prendere decisione a favore dei gruppi corporativi o a “incidenti” che hanno eliminato loro stessi. (Dall’anno 2000: l’Ecuador ha avuto 11 presidenti compreso Correa che governa dal 2007). Perciò l’atteggiamento deciso del presidente Correa di affrontare la base della rivolta, ha deviato il destino dei ribelli, dal momento che in queste ore del giovedì notte le forze armate hanno ratificato la loro lealtà all’alto comandante delle stesse. (Visti gli antecedenti sopra menzionati, non è stato un atteggiamento teatrale quello della pazienza nei confronti dei ribelli, come riportato da alcuni organi della stampa).

Diminuisce la possibilità di un colpo di stato in Ecuador, ma ciò non ci deve far perdere di vista le conseguenze per la regione che provocherebbe il trionfo della rivolta e ci obbliga ad analizzare le varie difficoltà che aleggiano dietro le quinte di questa prove, dal momento che è la prima azione diretta di un colpo di stato tradizionale in America del Sud nel primo decennio di questo XXI secolo, (visto che l’altro è stato nel Caribe nella Repubblica di Honduras), ci deve portare a comprendere il perché di questo colpo abortito, e che si nascondono dietro ad una pseudo rivendicazione salariale.

Il presidente Correa ha commesso vari atti che hanno causato una profonda preoccupazione tra i rami del potere e che sono stati allo stesso tempo da esempio per altri presidenti, tra cui dobbiamo far notare: la nazionalizzazione della Banca Centrale, la “revisione” del debito estero e con esso l’obbligo per la Banca finanziaria mondiale di rinegoziare e di realizzare forti remissioni nel momento in cui è stata determinata la frode della stessa e, questo tema non è da meno, quando vengono analizzati poteri e corporazioni globali; neanche l’attuale amministrazione Correa ha rinnovato l’”affitto” della base aeronavale di Manta che manteneva gli Stati Uniti in Ecuador, il che ha obbligato il Comando Sud statunitense a trasferire la stessa alle nuove basi militari che gli ha concesso l’ex presidente colombiano Álvaro Uribe. Si deve tenere in conto in un’analisi geopolitica che l’Ecuador è l’unico paese della conca del Pacifico che non è o alleato militare degli USA (Colombia-Plan Colombia) o alleato economico con gli USA attraverso un TLC (Tratado de Libre Comercio como Perú y Chile). Dal punto di vista geopolitico e geostrategico degli Stati Uniti, l’Ecuador è uno scoglio per i loro piani di controllo e sicurezza nazionale (per assicurarsi i mercati e le risorse naturali soprattutto quelle energetiche), tenendo in conto che l’Ecuador si è trasformato in un importante esportatore di petrolio e che ultimamente è un paese con forti investimenti cinesi, i quali spostano rapidamente l’influenza economica degli Stati Uniti nello stesso. Tutti questi punti sopra citati saranno la causa della rivolta? E il perché del lungo silenzio del Dipartimento di Stato per ripudiare energicamente l’azione sovversiva della polizia?

Quello che si deve tenere ben presente è che questo test di prova è un messaggio per i paesi della UNASUD (i quali hanno reagito positivamente con una riunione straordinaria dei loro presidenti nella città di Buenos Aires, ratificando il loro appoggio a Correa e rifiutando i sovversivi), quindi si mette nuovamente alla prova la sua capacità di consolidare un blocco continentale senza ingerenze da parte di potenze fuori dal Sudamerica, (come successe in passato quando ha impedito: la secessione della Mezzaluna boliviana e dell’aggravamento del conflitto come conseguenza dell’attacco militare della Colombia sul suolo ecuadoriano per eliminare i guerriglieri delle FARC), questa è una nuova sfida al consolidamento della UNASUR e con esso permettere il consolidamento dell’America del Sud, come uno spazio geopolitico e geoeconomico che si appelli al mondo multipolare che si sta formando e non essere più il cortile posteriore di nessuno. La insubordinazione ai modelli che ci ha pianificato la globalizzazione stanno scricchiolando e in questa cornice dobbiamo vedere il fallimento di questa sollevazione. Attenzione, non è in gioco la implementazione della cosiddetta “rivoluzione cittadina” di Correa, ma qualcosa di superiore alle nostre unità politiche amministrative, conseguenza della balcanizzazione a cui siamo stati sottoposti dopo la separazione dal Regno di Spagna proprio 200 anni fa, è in gioco la possibilità per l’America del Sud di essere un nuovo potere tra pari.

30 settembre 2010

Traduzione a cura di Daniela Mannino

La posizione internazionale di Pyongyang

$
0
0

Nel “regno eremita” della Corea del Nord è ormai iniziato il processo che porterà alla successione di Kim Jong-il: lo scorso 28 settembre, in occasione del congresso del Partito dei Lavoratori (il primo dopo 44 anni), si è registrata la nomina come generale a quattro stelle del terzogenito del “caro leader”, il ventisettenne Kim Jong-un. Tale nomina sembra essere una manovra di avvicinamento a quel potere militare che è il vero pilastro del regime nordcoreano, sempre più isolato nel contesto internazionale.

I cardini del regime nordcoreano e i motivi del suo persistente isolamento internazionale (si veda anche dal sito di Eurasia: Corea del Nord, uno Stato Parassita?)

Quando ci si riferisce al regime nordcoreano si sente spesso parlare di “Songun” (militari al primo posto) e “Juche” (autosufficienza). Il termine “Songun” fu di fatto inventato negli anni Novanta da Kim Jong-il; dietro a tale concetto c’era l’idea del programma nucleare che, a differenza del padre, il “caro leader” è effettivamente riuscito a sviluppare. Kim Il-sung aveva tentato di dotarsi di armi nucleari con l’intento di avere una difesa contro la potenza Usa, ma i russi si opposero sempre a tale disegno. Va detto che egli è stato probabilmente il leader più amato dalla popolazione nordcoreana, anche perché nella fase post-coloniale riuscì a creare uno Stato tra i più industrializzati dell’Asia. Poi ci fu il declino per vari motivi, primo fra tutti la drastica riduzione degli aiuti, soprattutto delle esportazioni di greggio, forniti dall’Unione Sovietica di Gorbacev.

La Corea del Nord è un Paese molto più legato alla tradizione confuciana rispetto alla Corea del Sud ed è inoltre enormemente militarizzato: basti pensare che vi sono un milione e duecentomila soldati, più sette milioni di riservisti, su una popolazione di ventidue milioni di abitanti. E’ infine un Paese in cui sembra esplicarsi un controllo pressochè totale della popolazione e dell’informazione, incentrata costantemente sulla diffusione dell’idea che il popolo nordcoreano stia combattendo contro il Paese più potente del mondo, al punto che anche la guerra di Corea viene tuttora interpretata come aggressione americana.

Dal punto di vista strettamente geopolitico la Corea del Nord assume una posizione rilevante: infatti uno dei principali punti di frizione tra Washington e Pechino riguarda proprio il problema nordcoreano, perché investe la geopolitica dell’intera regione. Malgrado gli apparenti inviti al dialogo, gli Stati Uniti stanno ancora perseguendo la politica di Bush incentrata sulla realizzazione di basi militari in Giappone, mostrando un atteggiamento tra l’ostilità e l’oblio, al quale, soprattutto nell’ultimo anno, ha fatto da contraltare la scelta della Cina di mandare sempre più aiuti: si parla di un aumento del duecento per cento negli ultimi dieci mesi. La Cina è il grande tutor nordcoreano, l’unico Stato che in questo momento aiuta sia politicamente che economicamente la Corea del Nord. Pechino si comporta in questo modo pur disapprovando il regime dei Kim, cui rimprovera da anni di non realizzare le necessarie riforme, che probabilmente la leadership nordcoreana non vuole attuare per timore di perdere il controllo sulla popolazione. L’interesse della Cina è molto chiaro: non vuole la destabilizzazione della Corea del Nord perché ciò significherebbe un enorme flusso di profughi nordcoreani nelle sue regioni nord-orientali, nonché la presenza degli americani alle porte di casa. Chiaramente gli Usa hanno interessi opposti. Anche la Russia, con Putin, ha cercato di riallacciare buone relazioni con la Corea del Nord, ma avendo meno soldi da spendere rispetto alla Cina, di fatto consente a quest’ultima di giocare in casa.

La questione della riunificazione coreana: la posizione cinese

In tale contesto occorre spendere qualche parola per descrivere brevemente la posizione cinese rispetto all’annosa questione della riunificazione coreana; attualmente l’interesse dominante di Pechino sembra essere quello di una penisola coreana stabile e libera dalla presenza militare straniera, in primo luogo statunitense. La Cina, da questo punto di vista, percepisce la riunificazione coreana con una chiara ambivalenza: da un lato la riunificazione consentirebbe la pace e la stabilità nella penisola e in tutto il nord-est asiatico (ciò risulta fondamentale se si pensa che in passato situazioni di instabilità nella penisola coreana hanno sempre avuto ripercussioni negative sulla Cina: basti citare la guerra sino-giapponese  del 1894-95 o la Guerra di Corea del 1950-1953). Inoltre potrebbe portare al ritiro delle forze militari statunitensi dalla Corea del Sud, permettendo tra l’altro il costituirsi di una Corea unita magari in grado di contrastare il Giappone in Asia Orientale. Dall’altro lato, però, la Cina è fortemente incerta riguardo al futuro delle relazioni militari tra Stati Uniti e Corea del Sud ed alle conseguenze politiche ed economiche di una rapida riunificazione. Quest’ultima, infatti, unitamente alla probabile scomparsa del regime di Kim Jong-il, potrebbe forse far diminuire l’influenza di Pechino nella vicina penisola, eventualità assolutamente non gradita ai cinesi. Non bisogna poi nemmeno accantonare l’ipotesi che una Corea unita possa stringere un’alleanza, soprattutto militare, con gli Stati Uniti, il che sancirebbe l’inutilità della partecipazione cinese alla Guerra di Corea nonchè degli sforzi successivi per sostenere il governo di Pyongyang.

Proprio per questi motivi, almeno per il momento, il governo di Pechino sembra anteporre la stabilità della penisola coreana all’esigenza di una Corea riunificata.

La Corea del Nord e la comunità internazionale: la questione del programma nucleare di Pyongyang

Il processo di distensione dei rapporti tra la Corea del Nord e la comunità internazionale resta ancora oggi legato soprattutto al rispetto, da parte della Corea del Nord, degli impegni assunti in merito all’abbandono del programma nucleare, sul quale permangono forti incertezze, determinate proprio dal comportamento ambiguo ed ondivago assunto sin qui dal paese asiatico. Già a seguito della firma dell’Accordo Internazionale di Pechino del febbraio 2007, alcune tensioni segnarono nuovamente i rapporti tra Pyongyang e Seul a causa dell’espulsione dalla Corea del Nord di alcuni funzionari sudcoreani e soprattutto del lancio di missili nel Mar Giallo per così dire “a scopo dimostrativo”. Ciononostante, le speranze per una Corea del Nord finalmente denuclearizzata riaffiorarono nei mesi successivi, allorchè il governo nordcoreano fornì agli Stati Uniti e poi alla Cina gran parte delle informazioni richieste sul programma nucleare condotto negli ultimi anni (soprattutto concernenti il plutonio riprocessato o arricchito per le armi nucleari), distruggendo inoltre una torre di raffreddamento nel suo reattore principale di Yongbyon. Gli Stati Uniti a loro volta promisero di “depennare” la Corea del Nord dalla lista degli “stati canaglia” e revocarono alcune sanzioni contro il paese. Successivamente Stati Uniti, Cina, Russia, Corea del Nord, Corea del Sud e Giappone annunciarono un altro accordo che consentiva agli ispettori internazionali di visitare le installazioni nucleari nordcoreane; in cambio il paese asiatico avrebbe ricevuto assistenza finanziaria ed energetica.

I progressi fatti sulla via del disarmo nucleare sembrarono subire una brusca frenata allorchè le autorità nordcoreane minacciarono di riaprire l’impianto per l’arricchimento del plutonio di Yongbyon ed allontanarono gli ispettori delle Nazioni Unite. Tale iniziativa seguiva le proteste dei nordcoreani per il mancato rispetto della promessa degli Stati Uniti di escludere il Paese dalla lista delle nazioni che favoriscono il terrorismo internazionale. La partita a scacchi diplomatica proseguì con il suo imprevedibile andamento nell’ottobre 2008, quando il Dipartimento di Stato americano tolse effettivamente la Corea del Nord dalla sua lista degli stati che sponsorizzano il terrorismo, ma solo dopo che il Paese consentì agli ispettori internazionali l’accesso all’impianto nucleare di Yongbyon impegnandosi a continuare il processo di smantellamento della sua infrastruttura per il trattamento del plutonio. La lenta chiusura del programma nucleare della Corea del Nord giunse ad una nuova fase di stallo nell’aprile del 2009, quando la Corea del Nord lanciò quello che ha detto essere un satellite, ma che altri governi hanno sostenuto fosse un test per un missile a lunga gittata. Sebbene il lancio si rivelò un sostanziale fallimento, la comunità internazionale condannò duramente il gesto della Corea del Nord, che, come risposta, abbandonò i colloqui per il disarmo e, dopo aver espulso gli ispettori dell’ONU, annunciò la ripresa del programma nucleare, aprendo una fase di stallo protrattasi sino ad oggi e di difficile risoluzione rispetto alla quale si spera che l’ormai chiaro ma lento “cambio di guardia” al vertice dello Stato nordcoreano possa portare ad un atteggiamento meno intransigente e più dialogante con la comunità internazionale e nei confronti di un’eventuale ipotesi di riunificazione “alla pari” della penisola coreana.

Riferimenti

Demick, Barbara. Nothing to Envy: Real Lives in North Korea. Granta: 2010.

Haggard, S. – Noland, M. Famine in North Korea: Markets, Aid, and Reform. Columbia University Press: 2007.

Cumings, Bruce. Inventing the Axis of Evil: The Truth About North Korea, Iran, and Syria. New Press: 2006.

Chang, Gordon. Nuclear Showdown: North Korea Takes on the World. Random House: 2006.

Whan Kihl, Young. North Korea: The Politics of Regime Survival. M. E. Sharpe: 2006.

Breen, Michael. All’ombra del dittatore grasso. La Corea del Nord e il peso di Kim Jong-il. Isbn Edizioni: 2005.

Beal, Tim. North Korea: The Struggle Against American Power. Pluto Press: 2005.

Cumings, Bruce. North Korea: Another Country. New Press: 2004.

Kim, Samuel S. North Korea Foreign Relations in the Post-Cold War Era. New York, Oxford University Press: 1998.

* Alessandro Daniele è dottore in Relazioni e Politiche Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)

Immigrazione: Si riapre la polemica tra Viminale e Caritas

$
0
0

Il 4 ottobre circa 50 clandestini sono sbarcati sulla costa laziale, evento che genera e non manca di ravvivare le polemiche tra l’organizzazione umanitaria e il ministero dell’interno. L’oggetto di discussione riguarda soprattutto la possibilità dello sviluppo di altre “rotte” per l’immigrazione , preoccupazione paventata dalla Caritas, che a più riprese denuncia le misure sugli extracomunitari poste in atto dal governo attuale. A ciò si aggiunge l’affermazione di Oliviero Forti, responsabile immigrazione Caritas, sull’aumento di onde migratorie, a seguito del Trattato di amicizia Paternariato e Cooperazione Libia-Italia, sottoscritto definitivamente nel Febbraio 2009. Il Viminale, per contro, sostiene che non solo gli sbarchi in Italia sono diminuiti dell’88% ma, che è assolutamente da escludere la possibilità di nuove “porte di servizio” per l’Italia. Secondo dati Istat dal 18\2009 al 317\2010 gli approdi clandestini constano di 3,499 stranieri, provenienti dal nord Africa, i quali pagano dai 2,500 euro fino a 10-12,000 euro, viaggiando in condizioni disumane; fattore che ha contribuito ad un aumento delle morti durante la traversata verso l’Italia.

Clandestinità: numeri e date

L’accaduto del 4 ottobre, costituisce solo uno dei tanti eventi di clandestinità che si aggiunge ai passati ( durante l’estate circa un migliaio di extracomunitari sono approdati sulle coste della Sicilia, Calabria, Sardegna). Al fine di arginare il problema, l’amministrazione italiana ha adottato una serie di provvedimenti:  nel 2008 viene fissato il limite massimo di cittadini extracomunitari ammessi in Italia, a 150.000;  nel Novembre 2008, viene approvato dalla camera il Trattato di amicizia, paternariato e cooperazione Italia-Libia, firmato a Benghasi nel 2008; al senato passa il reato di immigrazione clandestina; viene acuita la condanna per chi non rispetta la nuova politica di espulsione (multe e detenzioni). A ciò vanno associate le molteplici iniziative, poste in atto dall’ala leghista, che prevede il pugno di ferro contro gli stranieri ( vagoni separati per i mezzi pubblici, espulsione immediata, niente aiuti e finanziamenti e soprattutto controlli a tappeto).

Talvolta la situazione è degenerata, causando duri scontri, come l’episodio di Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, dove una parte della comunità immigrata locale è scesa in strada per protestare contro le inumane condizioni di vita.

Nel 2009, fa notare la Caritas, si è assistito ad un calo dell’accoglienza, ad una sorta di abdicazione al dovere di soccorso, che ha mutato lo “spirito italiano” nei confronti degli stranieri che, secondo l’organizzazione, sono sempre più demonizzati.  La Banca d’Italia, dal canto suo, ha sostenuto ed asserisce che gli espatriati sono indispensabili al mercato del lavoro, giungendo a costituire il 10% della forza lavoro nazionale. Basti pensare al mercato agricolo nel sud dell’Italia, che si costituisce e si fonda sulle braccia straniere; la maggior parte, vive in tende e ricoveri di fortuna all’interno di strutture abbandonate. Le imprese condotte da extracomunitari sono circa 7.000, in pratica l’1% del totale. Oltre il 40% degli stranieri, sono impiegati nella raccolta di frutta, ortaggi, pomodori, bestiame e infine vendita di  prodotti agro-alimentari. La presenza di braccianti stranieri, si concentra, secondo il rapporto Inea, (ente pubblico di ricerca nel campo strutturale e socio economico del settore agro-industriale, forestale e della pesca) soprattutto al nord e all’Italia centrale, con punte dell’80%.

La cooperazione Italia-Libia

Il Trattato di amicizia, paternariato e cooperazione sottoscritto con la Libia, si prefiggeva, secondo quanto affermato dai responsabili del governo, di diminuire sensibilmente il flusso di ondate migratorie, attraverso misure congiunte di controllo. Per Piergiorgio Saviola, responsabile della fondazione Migrantes, tale aspettativa è stata disattesa, e  si contribuisce ad alimentare una cultura dell’ostilità; sottolinea, inoltre,  che <<Le ultime leggi sulle emigrazioni tradiscono uno scivolamento verso posizioni ispirate all’indesiderabilità >>. Tuttavia, alla luce degli ultimi avvenimenti, sembra che riguardo al punto sulla lotta all’immigrazione, ci siano e ci sono forti incomprensioni per le misure da adottare. Sono note, infatti, le recenti polemiche che accuserebbero il governo libico, di non aver fermato il traffico di immigrati verso l’Italia. L’articolo 19 del Trattato prevede, da un lato l’attuazione dell’accordo del 2000 (firmato a Bengasi), in cui la Libia è definita “come un prezioso alleato, col quale continuare e implementare a 360 gradi un progetto di cooperazione nei più svariati settori: da quello economico a quello culturale, da quello energetico a quello della difesa e, ovviamente, quello della “lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, e all’immigrazione clandestina”. Dall’altro lato prevede la concretizzazione   di due protocolli del 2007, il pattugliamento con equipaggi misti, con motovedette messe a disposizione dall’Italia. A ciò va incluso, un sistema di tele-rilevamento alle frontiere terrestri libiche.

Lo scenario Internazionale

Oggi la questione degli stranieri giunti nel nostro Paese, sembra non risolversi definitivamente, la dialettica riguardo tale questione si è svolta non solo all’interno dello Stato, (chiesa- governo- aiuti) ma costituisce terreno di dibattito, anche internazionalmente. Nel gennaio 2009 l’ UNHCR (agenzia dell’ONU per i rifugiati) ha fatto appello agli stati membri dell’Unione Europea, affinché garantiscano l’accesso al territorio e il diritto di asilo a chi arriva via mare; alla fine di febbraio, il 23, il Consiglio d’Europa, dichiara che le leggi italiane sull’immigrazione violano gli standard Ue  contrarie al codice etico, in generale “tali misure creano un’atmosfera negativa nei confronti degli immigrati”. A maggio l’alto commissario per i rifugiati, Antonio Guterres, ( a seguito del respingimento degli stranieri verso le coste libiche) denuncia la violazione dei diritti previsti dall’ Unione Europea, chiedendo ai governi di Malta e Italia, di continuare a garantire l’accesso al territorio e  il procedimento di accoglienza previsto dall’Unione.  Infine a settembre José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea, chiede all’Italia di rispettare i diritti umani, violati dalla politica di respingimento.

Situazioni come questa, si ripresentano in altre economie sviluppate, in Medio-Oriente, in Asia, nella Spagna, che ha visto un aumento modulato ma costante dell’immigrazione. La Francia che recentemente ha destato l’attenzione del mondo e dell’ Unione Europea, che attraverso la persona di Viviane Reding, commissario europeo incaricato di Giustizia, diritti fondamentali e cittadinanza, ha duramente disapprovato le misure del governo francese, sull’espulsione dei Rom. Parliamo di economie caratterizzate da grossi serbatoi di manodopera straniera, sfruttata e a basso costo.

Siamo, dunque di fronte ad una ripetizione esasperata, delle circostanze che l’Italia (e non solo) deve fronteggiare.

Tutto ciò, impone una riflessione ben ponderata.

È necessario, evitando qualsiasi approccio fazioso sul tema dell’immigrazione, valutarne l’effettiva portata, gli aspetti, e le possibili sfumature.

Analisi critica

L’obiettivo che l’Italia desidera raggiungere, vorrebbe un’importante diminuzione dell’immigrazione (clandestina e non), a tal proposito sono state “chiuse” alcune delle mete solite di approdo, come il canale di Sicilia, ed altri. Ciò ha causato inevitabilmente, la ricerca d’altre vie, come il Lazio e soprattutto strade “terrene” come il passaggio dall’Albania o dalla Grecia.

La popolazione è impaurita, diffidente, anche alla luce degli accadimenti di Rosarno e di Lampedusa. Secondo il Ministero degli Interni, un reato su tre è commesso da un extracomunitario. La preoccupazione delle istituzioni è rivolta anche alle condizioni di sovraffollamento che gli stranieri vivono, nei sempre minori Centri d’Accoglienza. È altresì indispensabile essere coscienti, di come il nostro sistema manifesti la necessità, di inserire gli extracomunitari all’interno della macchina produttiva, per agevolare i diversi settori lavorativi. Dunque, le misure volte a scoraggiare la clandestinità e l’eccessiva migrazione nel nostro Paese, devono accompagnarsi con iniziative che favoriscano l’integrazione e l’unità sociale.

Non è necessario scegliere tra l’intolleranza assoluta, e la tolleranza incondizionata.

A tal proposito, ripercorrendo la storia, un esempio calzante è fornito dalle vicende delle Province Unite, in seguito, nel 1648, L’Olanda. Agli inizi del 1500, (1517) irrompeva la dottrina protestante. Le guerre di religione, attraversavano tutta l’Europa, molti furono perseguitati, uccisi e costretti all’esilio. Le Province Unite, diventarono il baluardo della tolleranza religiosa. Molti vi si rifugiavano, sicuri di non correre alcun pericolo. Tuttavia, questo territorio, nello scopo di mantenere lo status quo, conservò una sua identità, ponendo dei limiti alle diverse confessioni religiose. Confini che rendevano possibile un buon margine di libertà, preservando la struttura e le caratteristiche proprie di questo Paese. In pochissimo, l’Olanda crebbe significativamente, grazie all’enorme ricchezza prodotta dal lavoro dei rifugiati religiosi. Tutto ciò le permise di scalzare L’Inghilterra e di guadagnare un ruolo primario nei mari e nella colonizzazione.

Questa analisi, deve, però tener conto del contesto e dello scenario odierno.

In conclusione

Sarebbe auspicabile che le misure punitive contro la clandestinità, criminalità e altro, si accompagnassero ad agenzie ad hoc per l’immigrazione, e il censimento, attraverso l’aiuto di società e fondazioni umanitarie ed assistenziali, in modo da convertire totalmente la gestione del problema. Non più, vissuto come un costante allarme, ma come una programmazione inserita nei propositi del governo.

*Giulia Vitolo è laureanda in Relazioni Internazionali (Università la Sapienza di Roma)

La Russia resetta con gli Usa e rilancia con la Cina

$
0
0

Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2010/10/11/russia-resets-with-u.s-sprints-with-china.html 11.10.2010

Il seguito di un vertice tra grandi potenze, a volte, può risultare più eccitante del vertice stesso. Non appena il vertice sino-russo (26-28 settembre) si è concluso a Pechino, di getto il presidente russo Dmitrij Medvedev sbarcava a Petropavolosk-Kamchatsky, una città incredibilmente eterea, alla fine del mondo, arroccato in alta collina circondata da vulcani fin dove è possibile agli occhi vedere. Ma lui non si stava godendo il paesaggio. E’ stato un semplice scalo, a causa del maltempo Medvedev non ha potuto procedere per Juzhno-Kurilsk, l’isola del Pacifico che Tokyo sostiene essere un suo territorio. E poi, non prima di essere di nuovo al Cremlino, Medvedev ha ricevuto una telefonata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama – per informarlo personalmente che Washington era soddisfatta delle credenziali della Russia per essere ammessa come membro dell’Organizzazione mondiale del commercio, il mainstream del commercio mondiale, da dove Mosca è stata tenuta fuori dall’Occidente grazie alla guerra fredda.
Le due ricorrenze scollegate, effettivamente formano un sequel del vertice sino-russo. La decisione del Presidente Medvedev di visitare le isole Kurili, arriva sulla scia delle agguerrite pretese del Giappone con la Cina per delle dispute territoriali. Tokyo, ovviamente, vi si è proiettata. Il primo ministro Naoto Kan ha prontamente ricordato che le Kurili della Russia costituiscono parte integrante del Giappone. Tokyo ha compiuto un’iniziativa diplomatica. Il ministro degli Esteri Seiji Meihara, ha avvertito di “
seri ostacoli” alle relazioni Giappone-Russia. Eppure, il linguaggio del corpo di Mosca è stato esplicito – ha gentilmente richiamato l’attenzione sulla sua disapprovazione per la belligeranza del Giappone nei confronti della Cina riguardo al contestato Mar Cinese Orientale. Mentre in Cina, il signor Medvedev ha celebrato il 65° anniversario dell’alleanza sovietico-cinese nella guerra contro il Giappone (1936-1945) e utilizzato un linguaggio forte per inviare la solidarietà della Russia – “L’amicizia con la Cina è la scelta strategica della Russia, è una scelta che è stata sigillata anni fa col sangue”, “L’amicizia tra i popoli russo e cinese, cementato dagli eventi militari, sarà indistruttibile e farà del bene alle nostre generazioni future“.
Mosca sa che dietro il Giappone si trovano gli Stati Uniti, il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, in un articolo sul cinese
Renmin Ribao, in coincidenza con la visita di Medvedev in Cina, ha criticato questi “blocchi”, un retaggio della Guerra Fredda, che esistono ancora nella regione Asia-Pacifico e sono una “minaccia alla sicurezza nazionale, una fonte di divisione, di sospetti e di reciproca diffidenza.” Criticava gli Stati Uniti che prevedono di implementare sistemi di difesa antimissile (ABM), in Giappone. Gli analisti di Mosca hanno avvertito che l’ABM rappresenta una minaccia per la Russia e la Cina. La risposta della Russia a ciò che gli strateghi oggi chiamano il “ritorno in Asia” degli Stati Uniti non è conflittuale, ma ha anche inequivocabilmente affermato che la strategia statunitense  di formare una coalizione dei volenterosi, di paesi asiatici ‘collusi con gli USA’, sotto la leadership di Washington, rifletta un pensiero negativo.
Come critica dettagliata delle imprese in Asia-Pacifico degli Stati Uniti, l ‘articolo di Lavrov merita attenzione da Nuova Delhi. Inoltre, la visita in Cina di Medvedev ha sottolineato diversi aspetti, che hanno un rapporto con la traiettoria della formazione del triangolo conosciuto come “RIC” – Russia, India e Cina. In primo luogo, per la Russia, non è una questione di “
aut, aut“. Essa applica con diligenza per il reset con gli Stati Uniti, ma non consentirà che il partenariato strategico con la Cina sia eroso. La lobby pro-USA a Mosca non si stancano mai di agitare lo spauracchio del “pericolo giallo” per la Russia, nel medio e lungo termine. Ma il Cremlino, che è immensamente esperto nella gestione dei rapporti con Washington, sembra comprendere che un forte rapporto con la Cina non può che rafforzare la sua influenza come potenza emergente, nel corso dei negoziati con gli Stati Uniti e l’Occidente.
La diplomazia russa va incontro con straordinario successo alla doppia partnership strategica del paese con la Cina, nei suoi fondamentali interessi nazionali nei settori strategici, politici ed economici, nonostante il fatto che la Russia sia consapevole delle ambivalenze della grande ascesa della Cina. Medvedev ha detto candidamente al Quotidiano del Popolo, che la politica estera russa si basa sul pragmatismo volto a promuovere i propri interessi nazionali e a rafforzare la sua diplomazia multi-direzionale. L’approccio russo trae lezione dall’approccio serio dell’India verso una sua normalizzazione con la Cina.
La cooperazione energetica è stato il leit motiv del vertice sino-russo. La Russia ha fatto finalmente il grande passo per esplorare le frontiere della cooperazione energetica – il numero uno al mondo della produzione di petrolio che va incontro al più grande consumatore di energia del mondo. Il vice primo ministro della Russia, Igor Sechin, l’ha detto succintamente: “
Non ci sono praticamente limiti alla crescita dei consumi del gas in Cina. La Russia ha gas sufficiente per lo sviluppo dell’economia cinese.” I tentativi statunitensi, negli ultimi due decenni, per diversificare le importazioni di energia dell’Occidente dalla Russia, in modo di privare Mosca dello ‘strumento geopolitico’ per influenzare le politiche occidentali, si stanno rivelando inutili. Al contrario, lo spettro che perseguita l’Occidente è una Russia che drammaticamente diversifica le sue esportazioni  energetiche, in modo da crea concorrenza tra l’Occidente e la Cina. Allo stesso modo, la Russia sta divenendo un partner “indispensabile” per la Cina. Essa fornirà 300 milioni di tonnellate di petrolio attraverso gli oleodotti, nel corso di un periodo di 20 anni, a partire dal 2011. I due gasdotti pianificati, si prevede  trasporteranno 30 miliardi di metri cubi di gas in Cina. Da parte sua, la Cina sta consentendo alle aziende petrolifere russe di entrare nel suo mercato altamente lucrativo del commercio energetico al dettaglio.
L’alacrità con cui Obama ha chiamato il Cremlino e ha sventolato la bandiera verde dell’ammissione della Russia al WTO, dopo anni di indugi, ci parla dell’urgenza sentita a Washington per dare più mordente al
reset con la Russia.  La NATO ha invitato Medvedev a partecipare alle vertice di Lisbona a novembre, e la Francia ospiterà un vertice tripartito con la Germania e la Russia a ottobre. Tuttavia, il paesaggio  deserto dei legami della Russia con l’Occidente è disseminato di ossa sbiancate delle carcasse su si basavano le speranze. Così, la Russia persegue anche i suoi legami con la Cina nel settore della difesa. “I risultati saranno presto noti“. Lavrov ha detto a Pechino che i due paesi stanno discutendo “progetti a lungo termine molto importanti” e, significativamente, ha aggiunto: “Noi [la Russia e la Cina] non abiamo alcun dubbio che la cooperazione tecnico-militare è uno dei più importanti settori della nostra collaborazione e del nostro partenariato strategico … Mi ripeterò: i piani sono molto ampi in questo campo“.
Quattro, la Russia apre le porte agli investimenti cinesi su larga scala per lo sviluppo delle sue regioni arretrate dell’Estremo Oriente e in progetti ad alta tecnologia. Un autorevole commentatore di Mosca ha scritto: “
Per gli USA, la Cina è un ovvio rivale strategico… Ma la crescente dipendenza economica spinge questi due rivali a relazionarsi con cautela e in modo responsabile. Questo è il tipo di effetto che noi [Russia] dovrebbe trarre dalle relazioni russo-cinesi, in quanto visioni del mondo simili sono una questione meno sostanziale delle fabbriche o dei container in viaggio attraverso gli oceani … La linea di fondo è: sapremo approfondire le relazioni politiche attraverso l’economia …  L’obiettivo chiave della politica russa è ora l’ammodernamento innovativo del paese … Gli sforzi che la Cina sta facendo per sviluppare la propria proprietà intellettuale di base sono enormi, e in generale, il centro dell’innovazione globale si sta spostando verso l’Asia che, ovviamente, include la Cina.  Strategicamente, la Russia deve trarre nuove conclusioni“.
In effetti, Mosca non si fa illusioni che proprio come per la Russia, a Pechino, anche, i rapporti della Cina con gli Stati Uniti rimarranno una priorità della politica estera. Anche quando il signor Medvedev ha ricevuto la telefonata di Obama, l’ufficiale
China Daily metteva in evidenza un commento che proponeva che la fase di stallo nei rapporti militari tra Cina e USA, “fossero portati di nuovo in pista, per un migliore sviluppo delle relazioni bilaterali, così come per la pace nel mondo. Né il governo sta considerando l’altro un nemico, né vuole un confronto militare. Le relazioni sino-statunitensi dovrebbero essere basate sulla dipendenza reciproca assicurata. Infatti, anche Mosca, da allora ha annunciato di prevedere di sottoscrivere un accordo vincolante con la NATO sul “reciproco contenimento militare“, e che sarà in seria considerazione la proposta dell’Alleanza per un congiunto sistema di difesa missilistica.
Ma il fondamento del partenariato strategico russo-cinese è la sensibilità che ogni parte mostrerà per le preoccupazioni e gli interessi vitali di base dell’altra. La Russia ha fortemente sostenuto la Cina sulle questioni di Taiwan e Tibet Xinjiang e ha mostrato il suo disappunto verso il Giappone. In una conferenza stampa congiunta con Medvedev, il presidente cinese Hu Jintao ha riconosciuto ciò, dicendo che “
la Cina e la Russia mantengono la pace e la stabilità internazionale e promuovono il recupero globale, la salute e lo sviluppo stabile dell’economia mondiale.” Hu ha chiesto l’approfondimento del meccanismo bilaterale dei “negoziati sulla sicurezza strategica, mentre si sostengono a vicenda su questioni riguardanti i loro interessi fondamentali.
Infine, hanno espresso le loro nozioni riguardo il
“multipolarismo” o “policentrismo” del sistema globale, un ordine mondiale “democratizzato” o un rinnovato sistema finanziario internazionale, ecc., che veramente riflettono le strategie di lungo periodo dei due paesi’. In sintesi, sono diventati acutamente consapevoli dei loro interessi comuni. Questo è dove il formato trilaterale, il RIC, ha qualche ritardo da recuperare. Il nuovo modo di pensare a Nuova Delhi, creativamente manifestata sui molti fronti della politica estera negli ultimi tempi, deve anche prestare attenzione alla ragion d’essere del RIC, nel contesto regionale e internazionale.

(L’autore è un ex diplomatico).
The Hindu

Copyright 2010 © Strategic Culture Foundation

E’ gradita la ripubblicazione dell’articolo con la condizione di un collegamento ipertestuale diretto al giornale on-line “Strategic Culture Foundation” (www.strategic-culture.org)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/

La Diplomazia dell’Export: USA e CINA a confronto

$
0
0

La 65° Assemblea Generale delle Nazione Unite, tenutasi a New York dal 23 al 30 settembre scorso, ha rappresentato il momento finale di un anno intricato e per molti aspetti privo di risultati tangibili per gli affari multilaterali della diplomazia mondiale. Molti analisti sono rimasti con l’amaro in bocca visto che problemi concreti, dalla riforma del sistema ONU, caldeggiata anche dal Ministro Frattini proprio dal pulpito del palazzo di vetro, alla ripresa di negoziati diretti in Medio Oriente, risultano chimere di difficile raggiungimento anche per i più ottimisti. Il risultato non può essere che una perdita progressiva di credibilità dell’intera macchina onusiana ancora arroccata sull’anacronistico sistema che vede il suo un organo politico, il Consiglio di Sicurezza, tentare goffamente di offrire certezza di applicazione al bistrattato diritto internazionale vigente e preservare i propri interessi particolari. Caso Flottilla docet. Non stupisce che Foreign Policy, autorevole rivista statunitense di politica internazionale, si sia soffermata più su un’analisi dettagliata dei costosi abiti sfoggiati dai ministri e capi di stato chiamati a parlare, piuttosto che sui contenuti dei loro discorsi. In un clima, quindi, tutt’altro che positivo nelle aspettative quello che brilla è un doppio incontro bilaterale tenutosi proprio nel sacro tempio del multilateralismo. Il 23 settembre il Presidente Obama, a margine del suo intervento, si incontra in camera di consiglio con il suo parigrado cinese, Wen- Jiabao. Lo stesso incontrerà, poi, i top-business nordamericani in un’altra sede. Le relazioni sino-statunitensi dell’ultimo anno sono state, in realtà, fittissime e quest’ultima occasione d’incontro ha sortito due principali effetti: il primo quello di far passare in secondo piano i contenuti del messaggio presidenziale che Obama ha consegnato alla platea dell’Assemblea Generale e il secondo quello di indurre una breccia di ottimismo tra gli analisti finanziari del blocco occidentale che speravano in una definitiva e fruttuosa risoluzione dell’annosa questione delle fluttuazioni dello yuan cinese; un ottimismo, in verità, subito represso. Dalla cosiddetta diplomazia del ping-pong che ha segnato l’immaginario collettivo dell’opinione pubblica d’inizio anni settanta, le relazioni sino-statunitensi, infatti, sono andate sempre più normalizzandosi su standard ben precisi che offrono uno schema interpretativo molto utile anche per questo incontro e per i suoi più prossimi sviluppi. Nel dicembre del 2003, infatti, a seguito dell’ incontro tra lo stesso Wen e l’allora presidente G.W. Bush, tenutosi nelle sale dell’American Bankers Association di New York, il premier cinese ha elencato i cinque principi che le due amministrazioni hanno convenuto essere fondamentali nella fissazione di canoni di relazioni diplomatiche tra le due sponde del pacifico. Il più importante è sicuramente quello del “do not politicize economic and trade issues” mutuato, nei fatti, anche dall’amministrazione democratica. Anche in questo caso Obama e Wen si sono ripromessi di non creare scompiglio politico ma di essere due interlocutori che si riconoscono l’un con l’altro, ripuliti dalle rispettive idiosincrasie ideologiche. Quanto questo sia vero è difficile appurarlo perché, alla vigilia delle elezioni di Mid-term del Congresso, negli USA, il “problema-cinese” sembra quanto mai un “political issue” su cui i democratici giocano parte delle loro chances di rielezione. Oltreoceano, infatti, risultano ingenti le pressioni dei sindacati e del tea party sulla questione import-export da e con la Cina. Sul suolo nordamericano, comunque, non mancano autorevoli voci di dissenso sulla lobby che l’amministrazione Obama esercita, da più di un anno, sul governo cinese circa la questione della valuta. Da Yale ad esempio, il prof. Paul Kennedy, uno degli storici più illustri degli USA, condanna le scelte dell’amministrazione in carica adducendone una motivazione geopolitica. Negli ultimi anni, assistiamo, nei mercati finanziari, ad una tendenza dei trader ad acquistare titoli in renminbi invece che in dollari e meno dollari vuol dire anche meno influenza internazionale da parte degli States. È senz’altro un momento cruciale per le relazioni diplomatiche tra i due paesi e per le conseguenze che queste avranno sui prossimi assetti geopolitici. Dal novembre del 2009, si registrano almeno quattro incontri ufficiali cadenzati a distanza di pochi mesi l’un con l’altro. Negli ultimi due, Pechino e Washington si sono riavvicinati, in particolare grazie all’incontro di fine giugno tra il presidente cinese Hu Jintao e Obama da contorno al vertice del G8 e del G20 in Canada. A margine, però, di questa fitta dialettica fatta di cortesie diplomatiche sui tanti temi in agenda che nel recente passato avevano creato non poche frizione (crisi del nucleare iraniano, vendita di armi a Taiwan e la questione tibetana) però la situazione non è sostanzialmente cambiata e le richieste americane sono risultate nulle sulla questione più spinosa: il tasso di cambio dello yuan. Per quanto ci siano stati momenti di enorme collaborazione tra Washington e Pechino negli ultimi mesi e la votazione delle sanzioni contro l’Iran in seno al TNP del maggio scorso ne sono una prova, gli sviluppi di settembre non hanno fatto altro che aumentare il senso di frustrazione a stelle e strisce e, conseguentemente, innalzare il livello di guardia del pericolo protezionista nell’intellighenzia economica statunitense. Le promesse di giugno del “nonno” Wen, come è definito in patria l’amatissimo premier cinese, di rivalutare il renminbi sono state vane e ne è seguita una “battaglia di comunicati stampa” con toni accesi e fermi delle due amministrazioni che si sono ancorate su posizioni distinte che molti hanno visto già tramutarsi in una contrapposizione commerciale propriamente detta quando, nell’ultimo giorno di settembre, il Congresso ha approvato una serie di dazi sulle merci d’importazione di matrice cinese. Wen comunque, anche in quest’occasione, si è sempre dimostrato fermo nel respingere un apprezzamento più veloce del renminbi per tutelare la stabilità interna della Cina: la sua argomentazione più importante è contenuta in quei 10.5 punti percentuali che corrispondono al tasso di crescita annuo del PIL del suo paese. In verità è ormai da tre mesi che la Banca Popolare Cinese sta lasciando salire, seppur lievemente, il valore della sua moneta sottovalutata, ma l’apprezzamento è considerato troppo lento e insufficiente dagli Stati Uniti: secondo le stime del Fondo Monetario lo yuan è sottovalutato del 27%, secondo altri economisti addirittura del 40 per cento. In un quadro, dunque, in cui sono gli States ad avvertire la minaccia derivante dai dati di crescita esponenziali dell’economia cinese (che hanno segnato il sorpasso della stessa ai danni del Giappone, promuovendola a secondo colosso economico mondiale), non stupisce che i vertici nordamericani abbiano deciso di riunire i top-manager delle maggiori industrie statunitensi (Indra K. Noovi, ceo di PepsiCo, Bill Gates ai capi di Goldman Sachs e JPMorgan Chase) nelle sale del Walford Astoria Hotel di New York aprendo le porte ad un franco contraddittorio con il convenuto Wen. Una sorta di diplomazia dell’export, appunto. Il moderatore dell’incontro è stato Henri Kissinger, padre della relazioni sino-americane ed oggi sostenitore di un nuovo ordine globale a cui, dice, gli statunitensi non devono mancare l’appuntamento da padri fondatori. Sembrerebbe un tentativo della corrente più realista e lungimirante dell’intellighenzia nordamericana di trovare un equilibrio che dal lato prettamente economico possa diventare, sul lungo periodo, anche geo-politico. Gli analisti, infatti, indicano il 2020 come l’anno del sorpasso della Cina ai danni dell’ economia statunitense; quel che comporterà è verosimile sostenere possa essere un conseguente riequilibrio dell’intero assetto geopolitico mondiale. Ad oggi spaventa una Cina primo socio commerciale del Brasile e da quest’anno primo investitore nel gigante sudamericano con 10mld di dollari d’investimenti previsti, primo paese importatore di risorse petrolifere dell’Iran; preoccupa poi la tendenza di crescita dei dati inerenti il commercio con i paesi dell’ASEAN e come importatore di risorse dai paesi africani. Inoltre, le immense riserve valutarie accumulate dall’Impero e stimate in circa 2.000 miliardi di dollari aiuterebbero le banche nella concessione di prestiti ai colossi finanziari cinesi che sono pronti a reinvestire, infatti, proprio in quei paesi e in quelle economie in via di sviluppo che una volta erano a totale appannaggio degli investimenti statunitensi; da qui, il passo di un declino politico, che gli USA non possono né vogliono permettersi, sarebbe molto breve. È un passaggio epocale che va trattato, dal gigante in panne a stelle e strisce, con la dovuta cautela soprattutto perché la faciloneria guascona di un tempo deve lasciar il passo ad un partenariato strutturato, maturo e consapevole che la lancetta dell’equilibrio potrebbe spostarsi, ad ogni minimo errore di valutazione, verso l’altra sponda del Pacifico.

* Francesco Saverio Minici è dottore in Sistemi di comunicazione nelle relazioni internazionali (City University of New York)

La Russia del 2010 – prospettive economiche e politiche (parte 1)

$
0
0

(Parte Prima)

Politica interna

Domenica 10 ottobre si sono svolte le elezioni amministrative per il rinnovo del parlamento di alcune importanti regioni russe e anche per alcuni sindaci. Stando ai primi dati sembra che il partito “Russia Unita” abbia stravinto questo test, con consensi che in alcune zone sfiorano l’80% dei votanti[1]. Questo significa che il partito di governo ha riconquistato quanto aveva perso alle precedenti elezioni amministrative svoltesi alcuni mesi fa, dove ne era uscito ridimensionato. Il 14 marzo scorso, infatti, si sono tenute le elezioni dei parlamenti regionali in otto regioni della Russia[2], in relazione alle precedenti elezioni regionali dell’ottobre 2009, il partito “Russia Unita” perse circa il 10% dei consensi, restando tuttavia il principale partito russo con un largo distacco dagli altri tre partiti[3] che sono riusciti a superare la soglia del 7% prevista per le elezioni regionali. In ogni caso il sistema di distribuzione dei seggi ha premiato largamente il partito fondato da Putin che con il 59% dei consensi ha ottenuto il 79% dei seggi. Al secondo posto si piazzava il Partito Comunista della Federazione Russa che ha aumentato i suoi consensi arrivando al 21%. Il partito di Putin-Medvedev usciva quindi vittorioso ma leggermente ridimensionato da un calo dei consensi dell’elettorato più conservatore e nazionalista che va a favore del Partito Comunista. Le elezioni tenutesi la scorsa domenica invece sembra abbiano quasi riportato la situazione al 2009, ridimensionando i comunisti e ridando un larghissimo margine di maggioranza al partito di governo.

Negli ultimi anni la Russia ha subito molteplici attacchi terroristici di grande impatto sull’opinione pubblica: Nord Ost (23/10/2002), bombe nei palazzi (diversi attacchi a Ryazan, Mosca, Volgodonsk, Bujnaksk nel settembre 1999), Beslan (settembre 2004), l’esplosione del treno sulla linea ferroviaria Mosca-San Pietroburgo (novembre 2009) e l’ultimo episodio nella stazione della metropolitana di Mosca (29/03/2010). Senza contare i quotidiani attentati che avvengono nella regione del Caucaso.

È solo dopo il crollo dell’URSS che il terrorismo è diventato una delle piaghe più gravi e urgenti da risolvere nell’agenda degli affari interni del Cremlino, insieme con le tensioni nelle regioni del Caucaso. Questi problemi sembrano essere strettamente connessi: la maggioranza delle persone ritiene che “la questione del Caucaso” sia la causa degli ultimi attacchi terroristici (51% dei soggetti intervistati indica i terroristi ceceni come responsabili degli attacchi)[4].

I responsabili politici sono consapevoli che la soluzione non è facile da trovare: dovrebbe essere abbastanza forte per sradicare il problema, ma allo stesso tempo dolce abbastanza per non superare i limiti e innescare ulteriori violenze. Le azioni intraprese dal governo russo, dopo gli attacchi terroristici (e altri simili pericoli per la società, basti pensare all’emergenza incendi di questa estate) mostrano quanto in questi casi è percepita come una priorità di sicurezza, sia dai cittadini che dai leader politici. Nel settembre 2004, pochi giorni dopo la presa degli ostaggi nella scuola di Beslan, l’ex presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che i governatori delle regioni russe sarebbero stati nominati dal presidente e non più eletti. Egli ha anche introdotto alcune misure per limitare i poteri del Parlamento e per rafforzare il potere esecutivo: la riforma ha imposto agli elettori di votare solo per i partiti e non per i leader politici della Duma. Inoltre, la soglia di sbarramento per ottenere seggi in Parlamento è stata sollevata dal 5% al 7%, e i partiti non sono più autorizzati a formare blocchi per raggiungere questa soglia.

Dopo l’inizio della guerra in Georgia (agosto 2008), il presidente Medvedev ha nominato un nuovo rappresentante presidenziale nel Caucaso del Nord, il cosiddetto “uomo forte”. Gli attentati terroristici nella metropolitana di Mosca e gli attacchi in Daghestan e Inguscezia hanno mostrato che il controllo sul Caucaso non è ancora perfettamente nelle mani del Cremlino. Tuttavia, per quanto riguarda la prevenzione del terrorismo, il presidente Medvedev sembra non avere altra scelta che perseguire la strategia binaria di comprare la lealtà delle élite locali con le riforme economiche e allo stesso tempo eliminare pericolosi potenziali criminali usando la forza militare. Oltre al pericolo del terrorismo e alle onnipresenti tensioni nel Caucaso, la vita di ogni giorno è ancora  percepita come in pericolo di fronte alla violenza nelle strade. Resta alta l’allerta per l’attività di gruppi estremisti (come i neo-nazisti) e della criminalità organizzata. Questi sono fra i principali motivi per i quali è stata approvata a luglio dalla Duma una nuova legge che espande i poteri dell’FSB (Federal’naja služba bezopasnosti Rossijskoj federacii, Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa). Tale documento permette ai capi dell’FSB, o ai loro delegati, di rilasciare delle avvertenze ai cittadini sulle azioni che potrebbero portare a commettere reati, come indagine preliminare in ciò che per legge si riferisce alle competenze dell’FSB. Il mancato adeguamento all’ordine legittimo di un ufficiale dell’FSB, da parte di funzionari pubblici, comporta una multa o un arresto amministrativo fino a 15 giorni[5]. D’altra parte, i sondaggi mostrano che una larga fetta di russi sostiene chiaramente le azioni preventive del governo contro il terrorismo e i disordini sociali.

I russi sembrano preferire la sicurezza e l’ordine garantito da un forte stato centralizzato (72%) piuttosto che la democrazia (16%), come un recente sondaggio del russo Public Opinion Research Center mostra[6]. Non sorprende quindi, che il rafforzamento del potere tende ad essere accettato dalla società sotto la minaccia del terrorismo e del disagio sociale. In tali situazioni le persone sono pronte a rinunciare a parte della loro libertà civili in cambio della sicurezza, garantita da un forte stato centrale. È difficile definire le modalità con cui i russi percepiscono la democrazia, infatti, nel quadro dello stesso sondaggio, alla gente è stato chiesto cosa pensa della democrazia, e l’11% dei soggetti intervistati (rispetto al 2007 un aumento del 5%), l’ha definita come una “parola vuota e priva di significato”.

Putin e Medvedev

Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 2012, il livello di popolarità dei due leader e potenziali concorrenti, Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev, si è avvicinato. Un recente sondaggio[7] sembra suggerire che, come tendenza generale, la confidenza in Putin è progressivamente diminuita mentre quella in Medvedev è in crescita. Il primo continua ad essere il leader più amato dai russi (49%) e il secondo lo segue a distanza ravvicinata (42%). Dal punto di vista della politica internazionale Putin resta l’interlocutore preferito per quei Paesi che intendono opporsi alle mire egemoniche degli USA (Venezuela, Iran, Siria, Nord Corea, ecc.) mentre Medvedev è di gran lunga preferito nei circoli atlantici americani e dell’Unione Europea, per le sue apparenti posizioni moderate e aperte al dialogo.

I due leader sono sostenuti da segmenti della popolazione che tendono ad essere ben distinti. Infatti, da un lato Putin raccoglie gran parte della sua popolarità dagli strati più bassi della popolazione (quelli con redditi più bassi, che vivono al di fuori delle grandi città e nelle aree meno sviluppate) e da soggetti il cui reddito dipende dal governo (cioè burocrati, impiegati pubblici, militari, pensionati, ecc.). Questa è forse la causa dell’alta visibilità del primo ministro russo sui canali televisivi statali, che sono i soli mass media in grado di raggiungere gli elettori degli strati più bassi della popolazione, i più anziani e i meno istruiti. Dmitrij Medvedev, d’altro canto, è generalmente più popolare tra gli elettori più ricchi e tra coloro che sostengono la modernizzazione e l’innovazione, esattamente i gruppi che Medvedev ha cercato di conquistare durante la sua presidenza. La sua apertura nei confronti dei think tanks, delle ONG e il suo uso della blogosfera attira coloro che fanno affidamento più su Internet e sui giornali che sulla televisione come fonte primaria di informazione[8]. Medvedev è preferito dai liberali e dagli ambienti filo-occidentali, i quali, invece, accusano Putin di eccessivo autoritarismo.

In questa cosiddetta “tandemocrazia”[9], come l’hanno battezzata i media russi, la bilancia del potere non sembra essere ancora stabile e potrebbe accelerare e arrivare ad una evoluzione prima del 2012, data delle elezioni presidenziali. All’inizio del suo mandato (marzo 2008), Medvedev era percepito come l’ombra del più esperto e carismatico primo ministro Vladimir Putin. Quest’ultimo, infatti, è stato spesso guardato come quello che tiene il manubrio del tandem, anche se la posizione di presidente dovrebbe essere la più importante in base alla Costituzione russa. Pertanto nel settembre 2009, molti politici (insieme con l’opinione pubblica) sono rimasti estremamente sorpresi dalla critica tagliente di Medvedev alla situazione economica e politica contemporanea[10], che prende nettamente le radici nella legislazione di Putin. Questo episodio fu seguito da altri segnali di rottura con il passato, per quanto riguarda anche questioni importanti negli affari esteri come i negoziati per l’accesso nell’OMC[11], la sottoscrizione del trattato START sul nuovo disarmo, e la decisione di appoggiare le misure di sanzione contro l’Iran. Nel corso dell’ultimo anno Medvedev sembra effettivamente aver preso alcune decisioni indipendenti: egli ha dovuto affrontare la crisi economica e l’inasprimento dei rapporti con le regioni del Caucaso nelle quali Putin continua ad avere un ruolo di primo piano. L’approccio di Medvedev, nel complesso sembra essere più liberale e pronto ad impegnarsi al dialogo. Alcuni esempi sono gli sforzi per migliorare le relazioni con gli Stati Uniti (si veda sotto), diversi incontri con le ONG, le interviste con i giornali dell’opposizione liberale come Novaja Gazeta.

Medvedev, nel suo piano di governo, si propone cinque priorità per avviare un processo di modernizzazione nel Paese. Vuole puntare sull’efficienza nella produzione, nel trasporto e nell’energia. Crede, in special modo, che sia arrivato il momento di sostenere una crescita tecnologica di qualità collegata ad una serie di infrastrutture terrestri e spaziali destinate al trasferimento di tutti i livelli di informazione. A questi obiettivi si aggiunge la volontà di assumere un ruolo leader nella produzione di alcuni tipi di attrezzature mediche. Affinché questo progetto vada a buon fine è necessaria la collaborazione dell’Europa di cui la Russia ha bisogno per modernizzare la sua industria e le infrastrutture. A questo scopo è necessario affrontare i pregiudizi sulla Russia ancora molto diffusi in Europa, tra i più ricorrenti ci sono, ad esempio, quello sull’assenza di uno stato di diritto e il presunto non rispetto dei diritti civili. Le autorità russe, sono state costrette a prendere posizione, in maniera esplicita, per sfatare definitivamente questi pregiudizi alimentati dalla russofobia diffusa in Occidente. Senza una politica di appeasement nei confronti delle pelose pretese umanitarie europee  – ‘pelose’ perché indotte dai circoli politici e finanziari atlantici e non minimamente richieste dalla popolazione europea e dai centri produttivi ‘sani’ – non sarebbe stato possibile, ad esempio, stringere un’alleanza strategica con la Germania della Merkel. Il presidente russo, così, è richiamato ad introdurre una serie di meccanismi di rinnovamento nel proprio sistema interno per assicurarsi una partnership economica europea nel tempo. A questo si deve, quindi, l’“apertura al dialogo” di Medvedev e le molte riforme annunciate in senso liberale e tecnocratico.

Molti osservatori occidentali affermano che esista una frattura tra i due leader che si andrà allargando in previsione delle elezioni del 2012. Alcuni addirittura paragonano Medvedev a Gorbachev dimostrando di conoscere ben poco la situazione interna della Russia e quella internazionale. È evidente che la presidenza di Medvedev tenderà sempre più a diversificarsi da quelle di Putin, da diversi punti di vista, non solo per quanto riguarda l’utilizzo dei mass-media e dei gruppi di sostegno elettorale. L’attuale presidente ha un approccio di apertura al pubblico, uno stile diverso nei rapporti diplomatici, è stato più volte definito “l’uomo del futuro”. Tutti questi segnali potrebbero portare a sospettare che Dmitrij Medvedev stia costruendo il suo personale consenso e la propria base di potere, in modo, forse, da correre autonomamente per le elezioni presidenziali del 2012. Quello che i suddetti osservatori dimenticano, però, è che la guida del partito Russia Unita è saldamente nelle mani di Putin e che lo stesso programma di modernizzazione è stato approvato dal partito e quindi da Putin stesso.

Molti si fanno abbindolare dal circo mediatico che tende a differenziare al massimo le figure di Putin e Medvedev, a metterli in contrapposizione, facendo credere che una determinata decisione sia da addebitare all’uno o all’altro. Si è veramente convinti che la politica sia svolta da questo o quell’uomo; l’importante è credere (perché un’opportuna campagna mediatica lo fa credere) che sia buono o cattivo, intelligente o mediocre, soprattutto ‘etico’ o furfante. Il presidente degli Stati Uniti, si ripete spesso, è “il più potente uomo della Terra”, mentre in realtà è quasi un burattino in mano alle lobby e ai gruppi di potere che hanno deciso e supportato la sua elezione. Il presidente conta fino ad un certo punto. Come sempre, la personalità ha una qualche ‘funzione nella storia’. Una funzione, tuttavia, decisamente meno importante di quella di un gruppo dominante compatto e che riconosca, in modo abbastanza unitario o comunque senza grosse crepe intestine, come i propri interessi siano ben difesi da quella data “amministrazione”, come è il caso del gruppo che si esprime attraverso Putin e Medvedev e che con il partito “Russia Unita”, che gode di consensi ‘bulgari’, ha praticamente blindato il sistema politico russo, reso impermeabile ad eventuali avversari politici esterni (si pensi all’affaire Khodorkovsky).

Relazioni con gli Stati Uniti

I presidenti Barack Obama e Dmitrij Medvedev hanno mostrato un profondo interesse nel

miglioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Federazione Russa. I segni di un disgelo tra i due paesi sono i seguenti:

  • Medvedev ha chiesto di rimuovere le barriere agli investimenti russi e chiesto la pressione politica degli Stati Uniti per aiutare la Russia a entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC)[12]. Eppure, il sostegno degli Stati Uniti da soli potrebbe non essere sufficiente per aprire la strada dell’OMC alla Russia. Al fine di essere in linea con i requisiti richiesti dall’OMC, la Russia deve ancora intraprendere alcune riforme importanti, come, ad esempio, abbassare i dazi doganali e le tariffe sui legnami[13]. In realtà, il gruppo di lavoro in merito all’adesione all’OMC è stato istituito già nel 1993. In una recente conferenza (16/04/2010) di chiusura del Business Week russo, Aleksej Mordashov (Presidente del Comitato per la Politica Commerciale e dell’OMC dell’Unione Russa degli industriali e imprenditori) ha annunciato che la Russia è pronta ad aderire all’OMC, non meno di altri paesi come la Mongolia o Cuba, che fanno già parte di esso. La Russia aveva preso in considerazione di entrare nell’OMC sola, poi in seguito, congiuntamente con la Bielorussia e il Kazakhstan[14], ma dopo trattative infruttuose il Ministro Shuvalov ha annunciato che – a causa di considerazioni tattiche – la Russia tenta di entrare da sola.
  • L’8 aprile, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il Presidente russo Dmitrij Medvedev hanno firmato a Praga il nuovo trattato START[15], che sostituisce l’accordo START del 1991. Le testate nucleari saranno ulteriormente ridotte a 1550 per ognuno dei due contraenti. L’Iran, contemporaneamente, ha organizzato una sua conferenza sul disarmo nucleare, contrapposta a quella di Obama. A seguito di ciò il Vice Ministro degli Esteri Sergej Rybakov ha avvertito l’Iran di adottare misure orientate a costruire fiducia reciproca e cooperazione nei rapporti.
  • La Russia ha aumentato la collaborazione con gli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan, contribuendo anche con denaro e attrezzature, oltre che consentendo il passaggio dei rifornimenti NATO. Tra gli obiettivi dei russi c’è la guerra al traffico di droga (la Russia è il più grande consumatore di eroina e il principale paese di transito nel mondo) e l’aumento dell’influenza della Russia nel campo politico ed economico dell’élite afgana.

Tuttavia, alcuni attriti persistono nelle relazioni russo-americane:

  • La Russia resta fortemente preoccupata per il programma di difesa missilistica degli Stati Uniti. In particolare, dopo che la Romania ha approvato la proposta americana di ospitare missili intercettori anti-balistici sul suo territorio, anche se il Presidente romeno Basescu ha assicurato che i missili USA non sono diretti contro la Russia[16].
  • Il presidente Barack Obama ha sostenuto la sovranità territoriale della Georgia e la sua integrità. La Georgia – insieme con gli Stati baltici – offre in cambio di questa garanzia il sostegno militare agli Stati Uniti in Afghanistan e la disponibilità ad ospitare basi USA e NATO[17].

Relazioni con L’Unione Europea

Il programma di cooperazione tra Russia ed Europa è iniziato nel 1997, con la firma del cosiddetto “Accordo di cooperazione e partenariato UE-Russia (ACP)”. In seguito i rapporti si sono sviluppati in “Quattro Spazi Comuni”, o settori di cooperazione:

  • spazio economico comune;
  • spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia;
  • spazio comune per la sicurezza esterna;
  • spazio comune per l’istruzione, ricerca e cultura.

Dal 1994 è stato attivato un programma di sostegno economico alla CSI[18], chiamato TACIS (assistenza tecnica alla CSI). In questo quadro la Russia è stata il maggior beneficiario del fondo. Il TACIS è scaduto nel 2006 ed è stato sostituito da un nuovo regolamento per lo Strumento europeo di vicinato e partenariato (ENPI). Più di recente, l’impulso a sviluppare i rapporti politici e diplomatici con la Russia è arrivato quasi esclusivamente dalle singole nazioni europee, piuttosto che dalla burocrazia centrale di Bruxelles.

Tuttavia, nel febbraio 2010 il Ministro degli Affari Esteri Sergej Lavrov ha scritto, in un documento indirizzato al presidente Medvedev, il “Programma per un’efficace uso della politica estera nello sviluppo a lungo termine della Russia”. In questo documento si afferma che è venuto il momento per la Russia di stabilire stretti rapporti con l’Unione europea nel suo complesso al fine di aiutare

l’economia russa ad uscire dalla crisi economica. Tutti i membri dell’UE sono nominati nel documento, ad eccezione di Polonia e Regno Unito, con i quali la Federazione russa ha recentemente avuto problematiche relazioni diplomatiche.

In particolare, il documento mette in evidenza tre paesi cruciali per le alleanze commerciali:

  1. Germania, per il Nord Stream Pipeline e il progetto Airbus A350.
  2. Francia, per la costruzione di fabbriche di auto Renault, Peugeot e Citroen nel territorio russo, nonché per la cooperazione tra Gazprom e Électricité de France (EDF), il programma spaziale congiunto in Guinea e l’impianto nucleare di Belene in Bulgaria.
  3. Italia, per il coinvolgimento in South Stream, la ristrutturazione ed il potenziamento delle ferrovie russe, di porti e aeroporti e la cooperazione alle Olimpiadi invernali 2014 di Sochi (vedi anche sotto).

Per quanto riguarda l’Unione europea nel suo complesso, a livello generale, la Russia ha preparato un programma di “Partenariato per la Modernizzazione” varato ufficialmente al vertice UE-Russia tenutosi il 1° giugno 2010 a Rostov-sul-Don, che include, tra le sue priorità: l’espansione delle opportunità di investimento in settori chiave che spingono la crescita e l’innovazione, rafforzano e approfondiscono le relazioni bilaterali sul piano commerciale ed economico e promuovono le piccole e medie imprese; la promozione dell’allineamento delle regolamentazioni e delle norme tecniche, nonché di un elevato livello di attuazione dei diritti di proprietà intellettuale; il miglioramento dei trasporti; la promozione di un’economia sostenibile a bassa emissione di carbonio e dell’efficienza energetica nonché di negoziati internazionali sulla lotta al cambiamento climatico; il miglioramento della cooperazione nel campo dell’innovazione, della ricerca e sviluppo e dello spazio; la garanzia di uno sviluppo equilibrato affrontando le conseguenze regionali e sociali della ristrutturazione economica; la garanzia del funzionamento efficace del sistema giudiziario e il rafforzamento della lotta alla corruzione; la promozione dei legami interpersonali e il rafforzamento del dialogo con la società civile per favorire la partecipazione di individui e imprese; invita la Commissione Europea e il governo russo a elaborare più in dettaglio il partenariato per la modernizzazione; accoglie con favore l’impegno del Presidente Medvedev di basare la modernizzazione della Russia nel XXI secolo sui valori democratici e sullo Stato di diritto, costruendo un’economia moderna diversificata e dinamica e incoraggiando la partecipazione attiva della società civile. In realtà, ci sono due punti che restano ancora critici: il rafforzamento di una presenza economica russa nei paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e l’acquisizione di partecipazioni di controllo nelle raffinerie di petrolio e negli oleodotti e gasdotti della Bielorussia e dell’Ucraina.

Relazioni con l’Italia

Negli ultimi anni le relazioni tra la Russia e l’Italia hanno raggiunto un livello di eccellenza e, tra i paesi dell’Unione europea, l’Italia è quello che ha stretto di più i legami con la Russia. La solidità ed importanza strategica di queste relazioni è tale che lo stesso primo ministro russo ha recentemente dichiarato: “Le relazioni tra la Russia e l’Italia non sono solo una questione di buone relazioni personali tra Berlusconi e me, esse sono basate su reciproci interessi di Stato”[19]. Infatti, anche con i precedenti governi italiani una fruttuosa e costruttiva collaborazione era in azione, anche se va notato che proprio con l’attuale governo Berlusconi queste relazioni hanno subito una decisa spinta in avanti. La natura di questi interessi reciproci è varia e abbastanza sostanziosa.

Dal punto di vista politico, l’Italia è un buon supporto alle relazioni della Russia o ai piani di ammissione a diverse organizzazioni internazionali occidentali, come l’UE, l’OMC e l’OCSE. Le relazioni tra Italia e Federazione russa si sono sviluppate attraverso numerose riunioni e accordi di alto livello[20]: la visita di Stato in Russia del Presidente della Repubblica Italiana Napolitano nel luglio 2008; la visita del ministro degli Affari Esteri Frattini a Mosca nel settembre 2008, durante la crisi tra Russia e Georgia; il vertice governativo italo-russo tenutosi a San Pietroburgo il 7 novembre 2008 (il precedente si è tenuto a Bari nel marzo 2007); l’incontro del Presidente Berlusconi con il Presidente Putin a Istanbul il 3 dicembre 2009 e, infine, il vertice intergovernativo allargato svoltosi a Roma il 3 dicembre 2009.

Per quanto riguarda il commercio, l’Italia esporta diversi beni in Russia, come macchinari, attrezzature meccaniche, abbigliamento, prodotti in cuoio e mobili, mentre la Russia è soprattutto  un grande esportatore di materie prime[21]. A causa della crisi finanziaria internazionale, l’export italiano è sceso nel 2009 di oltre il 30% rispetto all’anno precedente. Le esportazioni dalla Russia sono stati meno compromesse, essendo calate “solo” del 24,7%[22], probabilmente a causa della minore elasticità della curva di domanda del gas. Al momento si stimano circa 500 aziende italiane  operanti sul territorio russo. I principali settori in cui operano sono l’alta tecnologia, la meccanica e le telecomunicazioni, il settore auto, gli elettrodomestici e il settore bancario[23].

Nel giugno 2009 l’Italia e la Russia hanno firmato il Trattato per la prevenzione della doppia imposizione, che potrebbero rafforzare ulteriormente i legami commerciali tra i due Paesi[24].

Recentemente, i ministri della ricerca russo e italiano hanno avviato un progetto congiunto di ricerca sulla fusione nucleare. Il progetto è quello di costruire un reattore nucleare sperimentale appena fuori Mosca[25]. Oltre ad essere un importante partner in campo energetico, l’Italia è anche uno dei maggiori importatori di gas dalla Russia: al fine di facilitare strategicamente la consegna, nel 2012 inizierà la costruzione del cosiddetto gasdotto South Stream, che dovrebbe essere pronto nel 2015. Il progetto coinvolge Gazprom e Eni[26].

Alcune delle principali aziende italiane operanti nella Federazione Russa

L’Eni ha iniziato ad operare in Russia già durante la Guerra Fredda, quando l’allora presidente Mattei ha firmato con la Russia un accordo di scambio del petrolio russo con prodotti italiani (gomma, pompe, tubazioni, compressori). Alla fine degli anni ’60 Eni e URSS iniziarono la costruzione del gasdotto TAG che nel 1974 ha iniziato a portare il gas in Italia attraverso il suolo austriaco. Fu in quegli anni che la cooperazione tra Eni e governo sovietico si ampliò con la fornitura di macchinari per gli impianti energetici. Oggi una joint venture con Gazprom basata nei Paesi Bassi ha realizzato il gasdotto Blue Stream che va dalla Russia alla Turchia[27]. La partnership con Gazprom si è trasformata in una cooperazione strategica a lungo termine: nel 2006 le due aziende hanno firmato un importante accordo finalizzato ad avviare progetti comuni nel midstream e downstream del gas, nell’upstream e nella cooperazione tecnologica. Nel giugno 2007 le due  compagnie hanno sottoscritto un memorandum d’intesa per la realizzazione del gasdotto South Stream, che collegherà direttamente la Russia e l’Europa attraverso il Mar Nero. Un altro balzo in avanti ad operare nel mercato russo è stato l’accordo con TGK-9, che Eni ha firmato nel giugno 2008 attraverso la propria società Eni-Energhia e che ha consentito ad Eni di iniziare a vendere gas in Russia[28]. I progetti dell’Eni in Russia sono ancora in piena espansione. Nel mese di ottobre 2009 l’Eni, Calik Holding[29], Transneft e Rosneft[30] hanno firmato un memorandum d’intesa per la realizzazione del gasdotto Samsun-Ceyhan.

UniCredit è una banca italiana, con sede a Milano. È operativa in Russia sin dal 1989, quando sbarcò a Mosca con il nome di International Moscow Bank. Nel 2001 si è fusa con Bank Austria Kreditanstald, presente anche lei in Russia. Il passo decisivo avvenne nel 2005, quando Bank Austria entra in UniCredit, in questo modo iniziando ad operare in Russia. Dal 2007, quando International Moscow Bank cambia nome in UniCredit, ha iniziato ad operare sotto questo marchio. Al momento UniCredit è ampiamente diffusa in tutta la Federazione russa, ha più di 100 uffici, 3.700 dipendenti, un capitale di 64,2 miliardi di rubli[31]. Forbes[32] ha valutato Unicredit al sesto posto tra le banche più affidabili della Russia.

Enel[33] è il terzo fornitore di energia più grande in Europa e il più grande in Italia, Spagna e Slovacchia. Fornisce energia (gas ed elettricità) a più di 61 milioni di clienti. Il primo passo nel mercato russo è stato fatto nel 2004, quando in collaborazione con ESN Energo ha ottenuto la gestione dell’impianto elettrico North-West Thermal Power Plant (NWTPP) di San Pietroburgo. La gestione si è rivelata estremamente efficiente e di successo da diversi punti di vista: la centrale ha quasi raddoppiato la sua capacità ed è stata la prima centrale russa a ricevere un certificato di qualità ambientale. Sulla base di questo successo, Enel nel 2006 ha acquisito una quota del 49,5% di RusEnergoSbyt, il principale operatore indipendente di energia in Russia[34]. Nel 2007 Enel e Rusatom[35] hanno firmato un accordo di cooperazione per lo sviluppo congiunto dell’energia nucleare. Nello stesso anno, in una joint venture con Eni, Enel ha acquisito depositi di gas, che dovrebbero essere congiunti con i principali gasdotti russi, sulla base di un accordo firmato con Gazprom. Dopo l’acquisizione di una quota di OGK-5[36] nel 2009, Enel è ulteriormente presente sul mercato russo. Gli impianti di proprietà di OGK-5 saranno migliorati e implementati, al fine di aumentare la loro produttività e la sicurezza e ridurre al minimo l’impatto ambientale. Altri impianti sono stati pianificati per essere aperti sul suolo russo nei prossimi anni.

La presenza della Fiat in Russia ha radici sin nel 1966, quando aiutò alcune industrie di auto  dell’URSS ad aprire uno stabilimento produttivo nella città di Togliatti. La nuova società così creata si chiamò AvtoVaz e iniziò a produrre una piccola “auto del popolo”, chiamata Lada, sulla base del modello Fiat 124, adattato alle condizioni climatiche e alle strade russe. La produzione si è evoluta ed è diventata più indipendente dal contributo italiano: già nel 1977 il corpo e il sistema di trazione a quattro ruote della Lada Niva erano interamente progettati dall’AvtoVaz. Nel 2008 Fiat e Sollers[37] hanno annunciato alcune joint venture per produrre e vendere auto Fiat in Russia. L’11 febbraio 2010 è stato annunciato[38] che la joint venture avrebbe immesso sul mercato russo fino a 500.000 auto all’anno entro il 2016. La joint venture al 50% è sostenuta da un prestito di 1,2 miliardi di euro del governo russo. Un nuovo impianto di produzione verrà aperto in Tatarstan[39] e ospiterà la produzione di vari modelli di Fiat e del gruppo Chrysler.

Finmeccanica opera nel mercato russo dal 1967, quando il primo Ufficio di Rappresentanza fu aperto a Mosca. Già nel 1970 Selenia forniva i centri di controllo di Mosca, Kiev e Mineral’nye Vody con radar che sono ancora in attività. Da questi primi passi, Finmeccanica ha costantemente aumentato e ampliato il suo interesse per il Paese, espandendo le sue operazioni in molti settori strategici e ad alta tecnologia. Riconoscendo l’elevato potenziale del mercato e l’impegno del governo determinato a IED, la tecnologia e il know-how transfer, strategia d’investimento attuale del Gruppo Finmeccanica nella Federazione Russa va oltre il semplice attività commerciale. Approfittando dei forti legami politici, economici e culturali tra l’Italia e la Federazione russa, l’obiettivo della Società è quello di stabilire una cooperazione di lunga durata con i partner locali, sviluppando una potente base industriale nella Federazione Russa. Attualmente Finmeccanica opera nei settori dell’aeronautica, dei trasporti ferroviari, dell’energia, delle telecomunicazioni, dello spazio e della logistica e sicurezza integrata.


[1] Fonte: APCOM

[2] Altai, Khabarovsk, Voronezh, Kaluga, Kurgan, Ryazan, Sverdlovsk, Yamalo-Nenets.

[3] Partito Comunista della Federazione Russa – PCFR, Partito Liberaldemocratico di Russia – PLDR, Russia Giusta.

[4] http://wciom.com/, sondaggio del 27 Aprile 2010.

[5] Cfr. http://www.eurasia-rivista.org/5191/la-duma-della-russia-approva-il-disegno-di-legge-per-l’espansione-dei-poteri-della-fsb

[6] http://wciom.com/, sondaggio del 12 Aprile 2010.

[7] VTsIOM (Centro di ricerca sull’opinione pubblica russa), www.wciom.com, http://wciom.com/news/ratings/confidence-in-political-leaders.html

[8] Carol Savez, professore dell’Università di Harvard, voanews.com, 05/01/2010

[9] Il neologismo è stato creato piuttosto sagacemente: come la radice del termine (tandem) suggerisce, tale meccanismo può funzionare solo se entrambi i membri pedalano nella stessa direzione, essendo impossibile per uno dei due andare in una direzione diversa.

[10] Nel suo discorso e piano per il futuro: “Russia, avanti!”

[11] Organizzazione Mondiale del Commercio.

[12] The Moscow Times, 15/04/2010

[13] David G. Tarr, The Moscow Times, 13/02/2010

[14] Questi tre paesi applicato come Unione doganale, un blocco commerciale costituito nel 2010. Era la prima volta nella storia dell’OMC che un’Unione richiesto per l’ingresso, che ha sollevato alcune critiche e dubbi. Dopo 17 anni di attesa la Russia ancora attende l’ingresso nell’OMC finora bloccato dagli Stati Uniti.

[15] Strategic Arms Reduction Treaty

[16] The Telegraph, 04/02/2010.

[17] Reuters, 06/04/2010.

[18] Comunità degli Stati Indipendenti, l’organizzazione che raccoglie gli Stati dell’ex URSS: Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Kazakhstan, Kyrgyzistan, Moldavia, Russia, Tajikistan, Turkmenistan, Ucraina, Uzbekistan.

[19] Xinhua, 12/04/2010.

[20] Gli accordi diplomatici e commerciali attivi al momento riguardano diverse aree: commercio ed economia, ricerca, cultura, diritto, energia, ecc.

[21] Pelo Roberto – Torrembini Vittorio, Sdelano v Italii, La presenza italiana in Russia. Successi, problemi, prospettive, pp. 38–40, Milano, Edizioni Il Sole 24 Ore, 2010.

[22] Dal sito internet del Ministero degli Affari Esteri, www.esteri.it

[23] Pelo Roberto – Torrembini Vittorio, Sdelano…, cit., pp. 74–77.

[24] www.worldwide-tax.com

[25] Il progetto è assolutamente significativo e innovativo perché il reattore Alcado C-Mod sarebbe il primo nella storia a raggiungere l’accensione, cioè il punto in cui una reazione di fusione nucleare diventa autosufficiente. Il fisico Bruno Coppi sarà il responsabile del progetto (fonte: nanopatentsandinnovations.blogspot.com, 11/05/2010).

[26] Ma è ormai certo l’ingresso nel progetto della francese EDF e sono in corso le trattative con l’azienda tedesca RWE, si veda: http://www.eurasia-rivista.org/5154/south-stream-cosa-si-muove

[27] La cooperazione con Gazprom continua in joint venture con l’Enel, si veda infra.

[28] Eni è stata la prima azienda europea ad entrare nel mercato della distribuzione ai privati in Russia. NEFTE Compass, 07/07/2008.

[29] Società turca.

[30] Aziende russe.

[31] Sito internet ufficiale di UniCredit in Russia: www.unicreditbank.ru

[32] Forbes Russia, edizione di Marzo 2009, N. 3.

[33] Ente Nazionale per l’Energia Elettrica

[34] Tra i suoi clienti ci sono aziende di importanza strategica come, ad esempio, RZD (Ferrovie di Stato Russe).

[35] Agenzia russa per l’energia nucleare.

[36] Una delle aziende che sarà privatizzata, come previsto dal progetto di liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica in Russia.

[37] Sollers ha sei centri produttivi localizzati principalmente nella parte orientale della Russia.

[38] Bloomberg Businessweek.

[39] Una delle repubbliche russe.

*Antonio Grego

Seconda Parte


Swami Vivekananda e il suo tempo, tra modernità e tradizione

$
0
0

Il quadro storico

Il periodo storico in cui visse ed operò Swami Vivekananda, la seconda metà dell’Ottocento, fu per l’India un momento particolarmente intenso.

Sul piano politico, caratterizzò questi anni il passaggio del governo dell’India dalla Compagnia delle Indie Orientali alla Corona inglese, che assunse il controllo diretto del Paese nel 1858, a seguito del Mutiny. Considerato da alcuni il primo scoppio del fervore nazionalista ed indipendentista, questo evento ebbe come principali conseguenze un’ondata terribile di violenze e la deriva ancor più autoritaria del governo inglese in India. Certamente, la rivolta fu indicativa del carattere predatorio della Compagnia e del livello di esasperazione da essa indotto nella popolazione, che cominciava a mal sopportare il peso del dominio inglese. Se, infatti, il regime coloniale trasformava gradualmente l’India in una nazione moderna – introducendo infrastrutture, reti di comunicazione, organizzazione della burocrazia e della società civile – d’altro canto il Paese pagava un prezzo altissimo in termini economici, sociali e politici.

Sul piano economico, l’India subì in questo periodo la devastazione causata dai legami sproporzionati tra centro e periferia dell’impero, che distrussero la preesistente economia, anche se, per quanto sfrenato, lo sfruttamento economico dell’India garantiva alla Gran Bretagna guadagni complessivamente piuttosto limitati. L’apporto fondamentale della colonia, infatti, rimase sempre la sua funzione di bacino potenzialmente inesauribile di reclutamento di uomini per l’esercito inglese in India, per l’apparato burocratico coloniale e per l’indentured labour, il sistema di “lavoro a contratto” che sostituì gli schiavi africani con migliaia di contadini e braccianti indiani, trasferiti nelle piantagioni e nelle miniere dei luoghi più disparati, legati a contratti che mascheravano uno stato di effettiva schiavitù.

Questi erano tra gli aspetti che, naturalmente, contribuivano a disintegrare il tessuto sociale indiano; vi si aggiungeva il portato del bagaglio ideologico introdotto dal regime coloniale, che cooperò enormemente alla cristallizzazione delle differenze castali e religiose e, dunque, alla frammentazione della società indiana in una miriade di blocchi contrapposti ed ostili, chiusi a livello endogamico, regolati da criteri gerarchici e definiti su basi di purezza razziale e rituale.


I movimenti di riforma

Di pari passo con il potere coloniale, cresceva lo scontento ed il senso di inadeguatezza di alcune categorie, perlopiù intellettuali di classe media ed estrazione urbana, figli di un’educazione di stampo occidentale, dalla cui iniziativa scaturì quel processo di rinnovamento sociale e culturale – nonché di ridefinizione identitaria, presa di coscienza nazionale e critica del regime coloniale – che investì l’India nel periodo in esame.

Si trattò di un periodo di fermento culturale e di tentativi di riforma sociale e religiosa, volti a ripensare le pratiche considerate più aberranti della tradizione hindu (come la sati, l’immolazione delle vedove sulla pira del marito, o il matrimonio infantile), a diffondere un’istruzione di tipo moderno, a ridiscutere la condizione femminile. Motore e scopo ultimo di questi movimenti era l’acquisizione di strumenti atti ad affrontare «l’esibita superiorità dell’Occidente cristiano nei confronti della cultura e delle religioni indiane»1, come dimostrarono, in particolare, le misure a favore dell’istruzione femminile. Auspicate dai riformatori per motivi che poco avevano a che fare con il reale desiderio di apportare miglioramenti alla generale condizione delle donne, queste misure si rivelarono, in realtà, necessarie ad altri scopi: confutare le teorie europee – secondo le quali la discriminazione cui erano sottoposte le donne in India e la loro condizione erano immagine dell’arretratezza del Paese in generale –, dando prova dell’adeguatezza dell’India all’autogoverno; creare “nuove donne indiane” capaci di essere mogli e madri più adatte alle necessità (pratiche, ma anche identitarie e d’immagine) della classe emergente, e di socializzarne i valori e le aspirazioni, pur entro i confini della tradizione patriarcale, che restava per i riformatori un punto fermo e indiscutibile.2

In ambito religioso, la riforma si concretizzò nelle figure di alcuni pensatori e nella fondazione di istituzioni, volte a rivedere le più grandi tradizioni indiane – hindu e musulmana – alla luce di uno spirito più moderno e razionale.

È tra questi riformatori che si colloca Vivekananda, al secolo Narendranath Datta, nato in quella Calcutta all’epoca centro della vita politica e culturale del Paese, e in una famiglia di scienziati e pensatori illustri.

Fin da bambino profondamente interessato ai temi dell’Hinduismo e della meditazione e dotato di un carisma e di una passione per la ricerca della verità inusuali per la sua età, Narendranath ricevette un’istruzione di stampo occidentale, appassionandosi in particolare alla filosofia, e coltivando allo stesso tempo lo studio della poesia sanscrita, dei testi sacri e degli scritti del riformatore suo contemporaneo Rammohan Ray.

Razionale, dedito al ragionamento logico e sprezzante dei dogmi religiosi tradizionali, Narendranath si avvicinò al Brahma Samaj, l’istituzione fondata a Calcutta nel 1828 da Rammohan Ray al fine di operare una trasformazione dello Hinduismo in senso moderno, depurando la religione dalle pratiche più barbare ed introducendo nello studio della stessa il principio di ragione. Narendranath, affascinato dalle arringhe dei riformatori che facevano parte del movimento, sembrava destinato ad una carriera del tutto simile, borghese e socialmente impegnata, fino a quando un incontro introdusse nel suo percorso un cambiamento di rotta.


Da Narendranath a Vivekananda

Era il 1880, quando Narendranath incontrò per la prima volta Ramakrishna, il sacerdote officiante di un tempio situato a Dakshineshwar, un sobborgo di Calcutta, e dedicato ad una forma del dio Shiva, che veniva lì adorato insieme alla dea Kali. Brahmano di estrazione contadina, con un’istruzione limitata cui sopperivano buon senso, mitezza e profonda devozione, costui era un rinunciante di eccezionale spessore, un rappresentante della corrente mistica della bhakti, la “devozione”, e un punto di riferimento per gli intellettuali bengalesi, affascinati dalla schiettezza dei suoi insegnamenti.

Quell’incontro provocò un imponente cambiamento nella vita del giovane Narendranath, che in pochi anni, durante i quali proseguì nel tentativo di conciliare il materialismo delle scienze occidentali e lo spiritualismo in cui lo precipitavano i momenti a Dakshineshwar, divenne il discepolo prediletto di Ramakrishna. Come il suo Maestro, divenne un Advaitavedantin, un sostenitore dell’indirizzo dottrinale del non-dualismo, che predicava l’unità tra Sé individuale e Assoluto. Da questi insegnamenti Narendranath avrebbe in seguito derivato la convinzione della divinità degli esseri umani, dunque la considerazione di tutte le forme dell’esistenza quali manifestazioni dello spirito divino.

Nel 1886 Ramakrishna, dopo aver iniziato i discepoli alla loro nuova condizione di sanyasin3, indicò Narendranath come loro guida. Fu così che egli divenne Vivekananda, “colui che ha la beatitudine della discriminazione spirituale”. Due anni più tardi Vivekananda cominciò la sua vita di parivrajaka, “monaco errante”, partendo per un pellegrinaggio che durò anni, un viaggio solitario compiuto a piedi sulle strade polverose dell’India, dallo Himalaya fino a Kanyakumari. Questa esperienza fornì a Vivekananda una conoscenza profonda del Paese, quale non aveva mai posseduto. Alla fine del viaggio, quando finalmente raggiunse Kanyakumari, Vivekananda rifletté su tutto quello che aveva visto: «Un Paese dove milioni di persone vivono dei fiori della pianta mohua, e un milione o due di sadhu e circa cento milioni di brahmani succhiano il sangue di queste persone, senza fare il minimo sforzo per migliorare la loro condizione, è un Paese o l’inferno? È quella una religione, o la danza del diavolo?»4

Partito con l’obiettivo di portare unità tra le varie sette e confessioni indiane, radunandole sotto l’ombrello del messaggio vedantico, Vivekananda comprese che al suo Paese servivano istruzione e cibo, più che insegnamenti religiosi. Ripensò a quel che aveva sentito dire alcuni mesi prima, circa l’organizzazione a Chicago del World’s Parliament of Religions, un congresso che avrebbe ospitato rappresentanti di ogni religione del mondo; Vivekananda decise che si sarebbe recato negli Stati Uniti, per predicare il messaggio vedantico e chiedere in cambio il sostegno economico necessario a fondare in India istituzioni educative e caritative per le classi più svantaggiate.

Pochi mesi più tardi ebbe inizio la sua missione in Occidente, che lo vide tenere innumerevoli conferenze e radunare intorno a sé molti sostenitori.


Un pensiero moderno e rivoluzionario

Attualizzando gli aspetti religioso-filosofici della dottrina vedantica, all’interno di un pensiero in cui la speculazione teorica e dogmatica veniva costantemente riportata alle necessità pratiche del suo tempo e del suo luogo – percepite come urgenti ed imprescindibili –, Vivekananda divenne l’esempio di una nuova tipologia di riformatore, capace di coniugare gli insegnamenti ancestrali del pensiero vedantico con l’attualità dell’India più comune. Questa narrazione, dunque – a differenza di quelle costruite da altri riformatori, che auspicavano un ripensamento, quando non un distacco, della “tradizione” sociale e religiosa, sentita come ostacolo al “progresso” –, non presupponeva una revisione in chiave filo-occidentale del bagaglio culturale e religioso indiano, bensì glorificava quel passato, proponendolo come la chiave che avrebbe aperto all’India le porte della giustizia sociale, dell’istruzione, dello sviluppo materiale e spirituale.

«La società più grande è quella in cui le verità più alte diventano concrete»5, sosteneva Vivekananda, facendo riferimento alla necessità di costruire una società strutturata in modo da permettere la realizzazione della divinità umana. Da questa convinzione di base, derivata dalla filosofia vedantica, egli ricavò il suo progetto di società utopica, che si sarebbe retta sul pilastro dell’uguaglianza tra gli uomini. Il fatto che egli ritenesse necessarie all’avverarsi di questa idea da un lato la diffusione dell’istruzione – che doveva diventare di massa, affinché gli strati più svantaggiati acquisissero forza e coscienza del proprio valore – e, dall’altro, la soppressione di ogni privilegio – politico, economico o religioso che fosse – dimostra il carattere rivoluzionario del pensiero di Vivekananda. Diversamente da molti suoi contemporanei, egli non era disposto a prevedere risultati parziali; eppure, l’imponenza di questo progetto e il suo carattere utopico non compromettevano in alcun modo la fede di Vivekananda nella sua realizzabilità.

«Pane! Pane! Non credo in un Dio che non riesce a darmi il pane in questo mondo, mentre mi promette la beatitudine eterna nei cieli! Bah! L’India deve essere affrancata, i poveri devono essere nutriti, l’istruzione deve essere diffusa, e la piaga del potere sacerdotale deve essere eliminata».6

Anche nel suo rapporto ideale con l’Occidente Vivekananda differiva dal resto dei riformatori: non prevedendo né una forma di riverente assimilazione ai suoi valori, né il rifiuto astioso di essi, egli auspicava una sorta di collaborazione e di mutuo scambio di eccellenze: «Direi che la combinazione della mente greca, rappresentata dall’energia dell’Europa, e della spiritualità hindu darebbe origine a una società ideale in India. […] L’India deve imparare dall’Europa la conquista del mondo esteriore, e l’Europa deve imparare dall’India la conquista del mondo interiore. Allora non ci saranno hindu ed europei: ci sarà un’umanità ideale, che ha conquistato entrambi i mondi, quello esterno e quello interno. Noi abbiamo sviluppato una parte dell’umanità, e loro un’altra. È l’unione delle due ciò cui dobbiamo aspirare».7

Ancora, la modernità del pensiero di Vivekananda si espresse nella sua considerazione del gesto filantropico che, come in ambito cristiano, fino a quel momento era stato reputato dal sistema hindu tradizionale una questione privata tra donatore e beneficiario. Egli fu il primo a proporre un’etica del seva (il “servizio”) istituzionalizzata – così come è divenuta la filantropia, un po’ ovunque nel mondo, in tempi recenti –, con lo scopo di garantire una ripartizione equa e il più possibile estesa di azioni di solidarietà nei confronti di persone bisognose: “Fare del bene agli altri è l’unica grande religione universale”8, sosteneva Vivekananda, accordando alla pratica del seva un significato che andava ben oltre la semplice azione filantropica. Teorizzò, inoltre, che la figura sociale più autorevole in India – e dunque più adatta a diffondere un pensiero in certo modo rivoluzionario – era quella del sanyasin. Mentre i suoi contemporanei proponevano modelli borghesi, di uomini d’alta casta colti e mondani, o figure eroiche della tradizione storica e religiosa indiana, Vivekananda individuava nel monaco, nell’asceta e nel rinunciante la sede della saggezza e della credibilità presso il popolo; era a queste figure, estranee ai meccanismi del potere, all’avidità e al perseguimento dell’interesse personale, che Vivekananda avrebbe affidato il compito di diffondere il messaggio, dimostrando ancora una volta l’intransigenza che guidava il suo pensiero.

Su questi pilastri poggiava la Ramakrishna Mission, istituita da Vivekananda a fine secolo quale organizzazione impegnata in ambito sociale e strettamente connessa alla vita del monastero dell’Ordine di Ramakrishna, i cui monaci fondevano nella propria esperienza quotidiana lavoro sociale e pratica spirituale – due aspetti che, completandosi a vicenda, fungevano l’uno da motore dell’altro. Intervenendo inizialmente soprattutto in ambito educativo e nella lotta alla povertà, la Ramakrishna Mission cominciò così in quegli anni il suo servizio all’India, che Vivekananda descriveva in termini angosciati:

«Fiumi ampi e profondi, gonfi e impetuosi, affascinanti giardini sulle rive del fiume, da fare invidia al celestiale Nandana-Kanana; tra questi meravigliosi giardini si ergono, svettanti verso il cielo, superbi palazzi di marmo, decorati da preziose finiture; ai lati, davanti e dietro, agglomerati di baracche, con muri di fango sgretolati e tetti sconnessi […]; figure emaciate si aggirano qua e là coperte di stracci, con i volti segnati dai solchi profondi di una disperazione e di una povertà vecchie di secoli […]; questa è l’India dei nostri giorni!

[…] Devastazione causata da peste e colera; malaria che consuma le forze del Paese; morte per fame come condizione naturale; carestie mortali che spesso danzano il loro macabro ballo; un kurukshetra di malattie e miseria, un enorme campo per le cremazioni disseminato dalle ossa della speranza perduta.

[…] Un agglomerato di trecento milioni di anime, solo apparentemente umane, gettate fuori dalla vita dall’oppressione della loro stessa gente e delle nazioni straniere, dall’oppressione di coloro che professano la loro stessa religione e di coloro che predicano altre fedi; pazienti nella fatica e nella sofferenza e privati di ogni iniziativa, come schiavi, senza alcuna speranza, senza passato, senza futuro, desiderosi solo di mantenersi in vita in qualche modo, per quanto precario; di natura malinconica, come si confà agli schiavi, per i quali la prosperità dei loro simili è insopportabile. […] Trecento milioni di anime come queste brulicano sul corpo dell’India come altrettanti vermi su una carcassa marcia e puzzolente. Questo è il quadro che si presenta agli occhi dei funzionari inglesi».9

Costituito inizialmente da appena una dozzina di monaci, nei cento e più anni che ci separano dalla sua fondazione l’Ordine di Ramakrishna è oggi un movimento transnazionale di proporzioni enormi, simbolo di pace ed ecumenismo, fondato sulla pratica del servizio disinteressato come metodo per la realizzazione del divino e caratterizzato da un approccio razionale alla religione – considerata non un apparato ritualistico ma una scienza dell’essere e del divenire –, da una tradizione colta e dall’efficacia dei suoi interventi in campo sociale.

Definiscono Ramakrishna Mission e Ramakrishna Math (rispettivamente la componente pratica del movimento e l’organizzazione monastica) le tre caratteristiche che sono state segni distintivi di Vivekananda e del suo operato e che, risultando a tutt’oggi innovative, dimostrano la statura di un riformatore illuminato, rivoluzionario per il tempo e il luogo in cui visse: la modernità – che si esprime nell’attualizzazione dei principi vedantici, e nel collocare nel presente il pensiero guida dell’operato di queste istituzioni; l’universalità – data dal rivolgersi non ad un unico Paese o ad uno specifico gruppo di persone, ma all’umanità intera; e la concretezza – che risiede nel porre i principi teorici e spirituali a servizio del miglioramento delle quotidiane condizioni di vita delle persone.


* Elena Borghi, dottoressa in Studi linguistici e antropologici sull’Eurasia e il Mediterraneo (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), è autrice di Sai Baba di Shirdi. Il santo dei mille miracoli (Red, Milano 2010) e Vivekananda. La verità è il mio unico dio (Red, Milano 2009)


1 Torri, M., Storia dell’India, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 453.

2 Jayawardena, K., Feminism and Nationalism in the Third World, Zed Books, Londra 1986.

3 Asceta errabondo, che ha rinunciato ad ogni piacere mondano e ad ogni forma di possesso materiale ed umano, per dedicarsi unicamente al conseguimento della liberazione, il moksha. Il monaco rinunciante trascorre la propria vita in solitario cammino, elemosinando il cibo, coltivando il silenzio e il raccoglimento, inaccessibile ad ogni desiderio e ad ogni umana debolezza. La contemplazione dello Spirito supremo, il distacco, la disciplina e la meditazione profonda sono i suoi compiti, che lo preparano ad abbandonare per sempre la dimora terrena ed il corpo mortale, liberandolo dal ciclo di rinascita e rimorte.

4 The complete Works of Swami Vivekananda, Mayavati Memorial Editing, Advaita Ashrama, Calutta 1992-95, vol. VI, p. 254.

5 Ibid., vol. II, p. 85.

6 Ibid., vol. IV, p. 368.

7 Ibid., vol. V, p. 216.

8 Ibid., vol. IV, p. 403.

9 Ibid., vol. V, p. 441-442.

Spunti di ricerca su un pensiero strategico

$
0
0

La formulazione di un pensiero  strategico – che possa elevarsi ad  oggetto di ricerca scientifica, così da poter contemperare la potenza di uno Stato, con gli obbiettivi posti da “un insieme strategico” (ri)volto ad un predominio su altri Stati – fu concretizzata dagli Usa, nell’immediato Secondo dopoguerra, con la vittoria sul nazismo: un suggello fondamentale per un predominio statunitense entro un mondo bipolare, insieme ad un presupposto fondamentale ad una    maggiore espansione americana, così come venne a configurarsi, a ridosso dell’implosione dell’ Urss (1989).

Certo è che quell’insieme strategico Usa – imposto con la fine del conflitto mondiale – si confermò viepiù,  oltre alla sconfitta del nazismo fin dalle sue radici (1), una piena vittoria su un declinante imperialismo inglese (e francese),  nell’emersione di una Costituzione Materiale di un nuovo Ordine Internazionale da imporre , in sostituzione  del  vecchio liberalismo inglese di “Wilson” e che,  del resto, aveva garantito con le  “cannoniere”, la libera circolazione delle merci e dei capitali, almeno dai primi  dell’Ottocento fino agli anni Venti del secolo scorso; una conferma ulteriore che un insieme strategico prevale su un altro, soltanto quando quest’ultimo è comprensivo di una  strategia militare: una  extrema ratio, la più convincente.

L’avvento  fondamentale delle armi nucleari e dei missili intercontinentali  del mondo Bipolare (Usa-Urss-, dal 1945 in poi) si impose con  nuovi confini geostrategici, a partire  anzitutto, dalle  “Regole Mondiali”, fino allora gestite, dalle vecchie burocrazie europee; nuovi predomini da tracciare e che richiamavano  approcci più ampi e diversi a partire dal cosiddetto problema sulla sicurezza e la difesa del sistema Occidentale:  una storia, in filigrana, di un sistema di rapporti tra dominante e dominati, in continua mutazione politica secondo una, non tanto inedita, propaganda dell’informazione rivolta a nascondere un rapporto di un  predominio Usa a tutto campo.

E’ con questo  rilievo, che si può  (ri)leggere il testo di  Carl Jean “Manuale degli Studi Strategici” (2004); una ricerca tutta tesa a giustificare la tenuta  politica di un sistema di sicurezza, il cui aspetto militare è la parte  “diplomatica”, riservata  al predominante Usa e che intende regolare con  la forza le sue relazioni internazionali; un ridefinizione aggiornata e “moderna” di un sistema (di sicurezza) non più esclusivo, tra i  (pochi) dominanti del vecchio bipolarismo (Usa-Urss), ma inclusivo per potenza di efficacia strategica, da gestire in un più ampio  mondo multipolare.

Tutti i classici hanno considerato la strategia come parte integrante della politica, come ricerca di armonizzazione tra obbiettivi politici e risvolti più propriamente militari. Lo stesso Machiavelli nel suo “Il Principe” considerava indispensabile lo studio della guerra per la sopravvivenza dello Stato e riteneva che le strutture politiche-sociali influissero in modo determinante, per la loro sopravvivenza, sulle esigenze militari, oltre ad esserne a loro volta influenzate, da una (continua) trasformazione dei rapporti sociali delle istituzioni politiche e sociali.

(cfr., Car Jean)  “La guerra è un fenomeno multiforme, che assume forme differenti in tempi e contesti storici diversi, a seconda delle strutture del sistema internazionale, della cultura etico-politica, dell’organizzazione sociale e politica e delle tecnologie disponibili….Durante la guerra, in altri termini, non cessa il dialogo politico fra i contendenti, ciascuno di quali cerca di imporre la propria volontà all’avversario, costringendolo ad accettare le proprie condizioni di pace…Generalmente le guerre sono limitate, poiché  limitati sono gli obiettivi politici perseguiti, e a causa della <ragione strategica>, basata sull’equilibrio fra i benefici, cioè i fini politici, e i costi e rischi connessi all’iniziativa di far ricorso alle armi rispetto ai benefici, costi e rischi del non far ricorso.”

Qualsiasi strategia deve considerare l’insieme di un complesso strategico nei suoi effetti complessivi di una azione strategica che intenda operare entro un determinato contesto internazionale. “Nella sua accezione più ampia, il termine strategia ha il significato di logica dell’azione o di prasseologia. E’ da notare che la logica strategica è valida non solo nella competizione, ma anche nella cooperazione. Le due situazioni non sono infatti, strutturalmente diverse: d’altronde, competere ha come radice <cum petere>, cioè cercare assieme o <avere i medesimi obiettivi>. Le decisioni strategiche sono caratterizzate dalla loro unicità e irrepitibilità. In questo differiscono da quelle tattiche, e soprattutto da quelle tecniche, che generalmente sono ripetitive”.

La forza militare ha come obiettivo fondamentale quello politico; al contrario di tutti gli altri campi, i cui i mezzi impiegati hanno una natura identica ai fini perseguiti. Nelle guerre esiste una “asimmetria strutturale” tra i fini che sono politici e i mezzi che sono militari.

(cfr.,d.d.)  “La distruzione del nemico non costituisce lo scopo della guerra, che consiste -nella sua forma ideale – nel sottomettere il nemico stesso alle proprie volontà e nel fargli accettare la sconfitta e le condizioni di pace. Una volta che il nemico abbia accettato la sconfitta può divenire un alleato; se non l’accetta, ma si piega alla pura imposizione della forza, prima o poi riprenderà la guerra, dopo aver ricostituito la sua potenza militare, o facendo ricorso a metodi <asimmetrici>, come il terrorismo, la guerriglia e la resistenza di lunga durata – le cosiddette <armi dei deboli> – ricorrendo cioè a strategie o a tattiche che gli consentono una speranza di successo nonostante che i rapporti di forza gli sono sfavorevoli. Poiché lo scopo della guerra non è la vittoria militare, ma quella politica, quest’ultima è ottenibile con l’impiego anche solo virtuale della forza…”

Si dice nel linguaggio comune che la guerra significa l’impiego effettivo della  forza. Un temine non corretto o quanto meno non completo se si pensa alla “Guerra Fredda,” dove il termine guerra veniva ridotta a forza in  stato potenziale: una allocuzione che alludeva ad un’idea di strategia entro  cui far  convivere, ideologicamente,  i due mondi  contrapposti del Capitalismo Occidentale e del “Socialismo Reale”.

Non senza dimenticare  che una ricerca storica sulle  strategie dei paesi dominanti è poco indagata in profondità e, per quanto ci riguarda, poco conosciuta;  un’indagine sulle strategie di un paese dominante deve riguardare la causa originaria della sua formazione economica sociale in cui  è iscritta  la genesi  della sua potenza;  oltre a spiegare il come questo  insieme  strategico, possa acquistare forza e vigore con indubbia  efficacia: una trama genetica  di una siffatta tipologia (capitalista)  marcò con prevalenza di dominio, le altre formazioni sociali, con una  peculiarità capitalistica di tipo predatoria; così come si andò delineando con  lo Stato Usa al momento della sua  (ri)fondazione,  facendo seguito alla vittoriosa  Guerra di Secessione(1861-65)  sulla sua  parte di capitalismo (agrario) più arretrato e indissolubilmente legato al capitalismo inglese di tipo borghese; in sostituzione di quest’ultimo venne avanti una peculiarità capitalistica, in corrispondenza ad uno Capitalismo Usa che si incarnò su uno Stato fondativo e che prese la forma di una sorta di Costituzione Capitalistica, con una caratteristica del tutto nuova rispetto ai processi formativi dei capitalismi della vecchia Europa, le cui Costituzioni nascono, da accordi, tra  classi sociali, entro un capitalismo dato;  oltre a rappresentare un  processo storico,  in nuce di  una valenza capitalistica,  in grado  di liberare enormi forze sociali, che furono coagulate in quel  nocciolo di fucina storica, che fu la Seconda Rivoluzione Industriale (1870); e  da lì ebbe modo di sprigionarsi una nuova potenza capitalistica – liberata come l’araba fenice che risorge sulle ceneri del vecchio capitalismo – che si innervò nel capitalismo Usa e che si espanse  velocemente in un spazio  sociale più ampio,  di quello già occupato dalle precedenti formazioni capitalistiche.

Lo stesso capitalismo Usa fu  provvisoriamente, e con un certo ritardo storico, definito “Capitalismo Manageriale”, fin dal Burnham degli anni Quaranta, con la sua “Rivoluzione Manageriale”. Dei processi  formativi dei più recenti capitalismi, di Russia (ex Urss), Cina.., si possono  formulare  ipotesi, del tutto empiriche, sulla base di  convergenze geopolitiche; una  conoscenza minimamente strutturale sulle caratteristiche dei  capitalismi oggi esistenti nella zona euroasiatica,  si possono  far discendere delle deduzioni,  soltanto “per imitazione”:  si può supporre che anche in quei paesi si sia potuto sviluppare una molteplicità di Capitalismi Manageriali,  così come furono le diffusioni in Europa dei vari capitalismi nazionali Ottocenteschi, sorti su imitazione del  Capitalismo Inglese di tipo Borghese.

E’ altrettanto indubbio che in assenza di ricerca rivolta ad un’indagine scientifica (o  minimamente tale) sull’attuale capitalismo Usa, ci si allontana  dalla conoscenza reale dell’oggetto sociale, costituito da un insieme strategico, in grado di occupare uno spazio geopolitico, entro cui  si sviluppa e si riproduce  la particolare tipologia  capitalistica (Usa), poi estesa in tutto l’Occidente; un esatto contrario a quanto portato avanti da una superficiale letteratura istituzionale, che continua ad avallare l’idea tolemaica dell’esistenza di un “Capitalismo Unico” ed a relegare, con una indubbia apologia, la  frammentazione di un pensiero strategico, più prosaicamente ridotto, a strategie economiche, commerciali, di marketing….”.

Ben si comprende come l’ideologia possa sostituire  la  politica, quella decisiva per un paese dominato, come quello italiano, privato ormai di ogni salvaguardia, dei propri ineludibili interessi nazionali, compresi quelli militari, esiziali quest’ultimi, per una lunga fase difensiva, entro un sistema di alleanze intercambiabili, in vista di una strategia  multipolare.

Solo da qui,  può ripartire la ricerca di un  “un soggetto politico”, definita dal Blog “Conflitti e Strategie”, “Il Grande Chirurgo”, in grado, cioè, di  sezionare e distogliere l’accozzaglia parlamentare-giudiziaria, e operante in ogni dove, ed in piena osservanza ad una politica  totalmente rivolta, o quasi (escludendo il “granellino” Berlusconi), ad un acquiescente dipendenza nazionale; e che, nella fattispecie italiana, ha assunto  la configurazione di un paese dominato dai congrui interessi Usa, gestiti dalla “G&F” (Grande Finanza e Industria Decotta) nostrana.

E infine, sviluppare un’autonomia politica significa preparare, per approssimazione di giudizio, una uscita strategica, secondo gradi e/o livelli di alleanze più confacenti ad una corposa  collocazione internazionale; oltre a costituire una reale controtendenza politica, rispetto  ai  mille ostacoli frapposti dalle soffocanti strutture burocratiche europee messe di traverso dagli Usa, per ogni  risveglio nazionale in Europa.

(1) (Cfr., Carl Jean) Il summit di “Casablanca” (1943) degli Alleati anglo-americani aveva come obbiettivo strategico nei confronti dell’Asse, la “pastorizzazione della Germania”, per impedire il risorgere della potenza industriale e militare tedesca; si trattava di un piano di genocidio del popolo tedesco, proposto e redatto dall’amministrazione Roosevelt.

GIANNI DUCHINI    Ottobre ‘10

La crisi tagika e le manipolazioni esterne

$
0
0

La crisi tagika e le manipolazioni esterne

Quale impatto per il Kirghizstan, e dunque per l’avvenire dell’Asia centrale?

“L’aumento dei casi d’infiltrazione di bande terroristiche dal (….) l’Afghanistan, nei paesi centro-asiatici limitrofi ed il numero di scontri armati nei territori  di questi ultimi, particolarmente del Tadjikistan, agitano i paesi della regione e la Russia “

Vitali Tchourkine[i]

Ambasciatore della Russia alle Nazioni Unite

Mercoledì 29 settembre 2010

La crescita delle tensioni nazionali ed etno-religiose nel Tadjikistan, si inscrivono nel prolungamento di una grave crisi, scoppiata inizialmente tra questi paesi durante il periodo 1992-1997,  e molto presto trasformata  in una cruenta lotta civile. Questo conflitto contrapponeva il potere centrale ( “i laici”) ed i combattenti islamici ( i “religiosi”) e fece all’epoca, circa 150.000 morti. Ma già sotto il regime sovietico, si presentò in una forma attenuata, a volte latente – con un ruolo particolarmente attivo del Movimento Islamico dell’Uzbekistan (MOI) . Ora un’implicazione indiretta ed immediata influenzerà il futuro politico del Kirghizstan, e in tal senso, della parte Centro-asiatica dell’ex impero sovietico, degli ultimi resti di uno stato-perno.

Oggi queste tensioni, fomentate dall’esterno, si accompagnano ad un rafforzamento della “minaccia terroristica” (secondo il termine ufficiale) verso l’Asia centrale, tra cui il Tadjikistan – con il Kirghizstan- sarebbe una leva privilegiata. Fondamentalmente, tale minaccia terroristica, sarebbe legata allo sviluppo parallelo dell’economia della droga e di ideologie religiose radicali, favorendo la nascita ad una nuova forma di criminalità internazionale. Durante gli anni successivi, tale criminalità è stata discussa per la crescita vertiginosa degli attentati. Cosi, secondo il ministro Tagiko (tajik –tagiko è un’espressione comune, per indicare un largo raggio di persone d’origine principalmente iraniana, di lingua persiana) dell’interno A.  . Kakharov; in 12 anni (1997-2009), l’attività di 200 bande terroristiche ha comportato l’attuazione di 3000 crimini, di cui 170 attentati, sono stati smascherati nel Tadjikistan. “ I paesi dell’Asia centrale sono, la lastra rotante del mercato di stupefacenti, e la piattaforma della criminalità transnazionale” ha precisato il presidente del dipartimento federale dell’ufficio della polizia criminale (BKA), Ziercke[ii]. Sul lungo periodo, quest’instabilità crescente, si inscrive in un contesto più largo, di  fragilità politica dell’Asia centrale, zona economica strategica del passato URSS.

Ora, nella misura in cui si prenda in considerazione la vicinanza delle prossime elezioni presidenziali\legislative nel Kirghizstan- previste il 10 ottobre 2010- la crisi tagika, acquisisce una dimensione politica non neutrale, per l’avvenire del paese.  Senza entrare in un anti-americanismo, ispirato dalla teoria dei complotti, si ha il diritto di interrogarsi sull’attitudine americana di fronte a questa crisi, e di interrogarsi sulla sua neutralità. L’amministrazione americana, sarebbe in effetti obiettivamente interessata, sull’evolversi della situazione nel Tadjikistan, per tre ragioni principali. In primis, creando le condizioni per l’acuirsi di questa situazione, potrebbe per rimbalzo fare pressione, sul governo kirgiko attuale, e sull’elettorato, invitandolo a scegliere il “suo” candidato. In un passato recente, le amministrazioni Carter, Regan e Bush hanno dimostrato un certo talento, nella manipolazione della “minaccia islamica” secondo la loro terminologia. Inoltre un’instabilità regionale aumentata, potrebbe legittimare l’inserimento di una stazione militare americana nel Tadjikistan per l’apparente motivo della “lotta anti-terroristica” o vedendo, perciò la “guerra preventiva” o il “dovere morale d’integrazione”, già invocato dalla precedente amministrazione Bush. Infine, alimentando un conflitto periferico nel Tadjikistan, (come in Afghanistan nel 1979, e in Cecenia nel 1994), Washington potrebbe continuare la sua strategia, d’erosione politica e di esaurimento economico, di una potenza russa, dunque obbligata ad intervenire come arbitro ultimo- come già fece negli anni ’90. Perché delineando la CEI -dunque l’Asia centrale- come sua “zona di interesse vitale”  la Russia ha il “dovere di integrazione” rinforzato dall’obbligo morale, di aiutare un paese fratello, un tempo sue repubbliche sovietiche, ovvero  la sua tutela politica.  Tale intervento sarebbe più giustificato, poiché il Tadjikistan fa parte delle strutture politico- militari (OTSC, OCS[iii]) messe in opera per Mosca, per assicurare lo spazio post-sovietico e neutralizzare le “nuove minacce”-  di cui i movimenti separatisti\terroristici dominati da fondamentalisti islamici. La cosa più inquietante, è che ora negli scontri armati entrano “forze dell’ordine” e “militanti islamici”- secondo l’espressione ufficiale- si moltiplicano nel Tadjikistan, principalmente nelle sue frontiere, con le Repubbliche sorelle con l’Asia centrale e dell’ l’ex-URSS[iv] (Afghanistan, Kirghizstan e Uzbékistan). In tal senso, si percepisce una collisione di interessi, da una parte, le correnti nazionali di obbedienza religiosa, vogliose di impiantarsi in zone centro-asiatiche (in tale modo, espellendo definitivamente Mosca), e dall’altra parte un’ala (conservatrice) dell’elite politica americana vicina al Pentagono, e fautrice di un rafforzamento della presenza americana, in periferie post-sovietiche, attraverso il suo sistema militare e l’introduzione di nuove basi. Altrimenti detto, si potrebbe giustamente sospettare una strumentalizzazione politica della crisi tagika, da parte di una potenza americana tendente ad intensificare la sua presenza in Asia centrale, nell’ottica infine, di controllare meglio il nodo nevralgico dell’Eurasia post-comunista- e obliquamente, avere il dito puntato sui circuiti energetici.

Da questo punto di vista, converrebbe restituire quest’evoluzione geopolitica, al quadro d’applicazione della linea Brzezinski di destabilizzazione dell’autorità russa, sulla sua dimensione storica, e più precisamente  di distaccamento delle vecchie repubbliche sovietiche, per la  sua tutela.

Tendenzialmente ed in maniera più globale, questa strategia, tenta di estendere l’influenza americana in zone centro-asiatiche e caucasiche- di cui la parte Nord, sarebbe ormai il nervo sensibile secondo le confessioni del primo ministro russo, V. Putin che dice “ di una condivisione delle zone di influenza[v] ”  al Caucaso nord. Nei primi tempi, la riuscita di questa linea anti- Russia  implicò un supporto temporaneo di “qualche accanito islamico” secondo i termini di Z. Brzezinski[vi]. In un secondo tempo, quest’orientamento della strategia americana cercò di creare una cintura periferica, politicamente affidabile e vicina al blocco occidentale della Nato. Impregnata di ideologia Brezezinskiana, questa strategia d’accerchiamento della potenza russa, è una tendenza osservata ed accentuata a partire dall’implosione dell’Impero Sovietico nel 1991. Questa strategia, suppone un riavvicinamento multidimensionale (politico/economico/militare) dell’impero americano con i nuovi stati indipendenti (NEI) dell’ex URSS. Il suo obiettivo finale è dunque la frammentazione dell’antico spazio politico, altre volte formatosi attraverso l’Unione Sovietica.

Di conseguenza, la crisi tagika, appare come una leva potenziale per l’integrazione americana, nel destino politico degli stati perno dell’Asia centrale- tra cui a breve termine, il Kirghizstan, fragile a causa di una crisi politico-etnica dal Aprile 2010, dopo la caduta del presidente  K. Bakiev-. Questa evoluzione, s’inscrive dunque, nella lotta d’influenza implacabile, volta al cuore dell’Eurasia post-sovietica, per i due vecchi nemici della guerra fredda, e ormai arbitri attraverso la Cina. E là, la radicalizzazione della crisi tagiko- kazaka sperimenterebbe in ultima istanza, il perseguimento di una partita a scacchi strategica, tra due pretendenti per la leadership regionale. E in tal senso, come dimostrerebbe l’elezione del Kirghizistan del 10 aprile, questa crisi sarebbe un fondamentale risultato delle strategie manipolative.

Traduzione di Giulia Vitolo


[i] http://fr.rian.ru/world/20100930/187536756.html : ‘’Asia centrale : Mosca fa appello ad evitare la propagazione del conflitto’’, V. Tchourkine, 30/09/2010 – RIA Novosti.

[ii]http://www.fr.rian.ru/world/20091102/185446300.html : ‘’Terrorismo: 200 bande smantellate nel Tadjikistan in 12 anni’’, Dipartimento federale della polizia criminale, 2/11/2009 – RIA Novosti.

[iii] OCS : Organizzazione  di cooperazione d Shanghai ; OTSC : Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva.

[iv] A questo titolo, possiamo richiamare l’attentato del 19 settembre 2010, che ha causato almeno 40 morti, tra i militari tagiki.  Questa imboscata, secondo il ministero tagiko, è il lavoro di un gruppo terroristico internazionale, diretto dall’antico condottiero di guerra tragico Moullo Adoullo. Questo all’interno del paese, a partire dall’Afghanistan.  “In gran parte dei cittadini tagiki, il gruppo terrorista, comprende, dei militanti e mercenari originari del Pakistan, dell’Afghanistan, Cecenia e Russia” ha aggiunto M. Makhmadaliev, portavoce del ministero. In seguito, ha precisato che “ con la scusa della fede islamica, questi combattenti hanno voluto creare nel Tadjikistan un terreno per mantenere la loro guerra fratricida con la collaborazione di gruppi illegali”.

Fonte : http://www.fr.rian.ru/ex_urss/20100920/187466591.html : ‘’Tadjikistan : non meno di 40 soldati uccisi in un attacco’’, 20/09/2010 – RIA Novosti.

[v] http://fr.rian.ru/russia/20100831/187327751.html : ‘’Caucaso del Nord : Poutin esclude una nuova guerra ‘’, Mosca, 31/08/2010 – RIA Novosti.

[vi] Questa manipolazione del movimento islamista è stata riconosciuta per aver provocato, per Brezezinski nel 1998, stranieri convinti del ruolo messianico ed avanguardista di un’America portattrice della storia del mondo ‘’che cosa è più importante riguardo la storia del mondo ? i talebani o la caduta dellIimpero Sovietico ?qualche facinoroso islamico o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda ? Fonti : ‘’Brzezinski : « Si , la CIA è entrata in Afghanistan prima dei russi…» ‘’, Z. Brzezinski, Nouvel observateur, 15-21 gennaio 1998, (p. 76).

Democrazia Sperimentale in Asia Centrale: le due Rivoluzioni Kirghise

$
0
0

Il Kirghizistan è una Repubblica relativamente giovane, dichiaratasi indipendente venti anni fa e guidata per quindici da Askar Akayev. Uomo di scienza senza un passato direttamente legato al comunismo e simpatizzante del WTO, sembrava il candidato ideale per creare un angolo di democrazia nel cuore dell’Asia Centrale.

Il paese è invece rimasto governato, al pari dei suoi vicini, da un sistema presidenziale con un forte accentramento dei poteri. È già in questo contesto che ha iniziato a muovere i suoi primi passi Roza Otunbayeva, all’epoca Ministro degli Esteri.

La Otunbayeva vive a lungo tra Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna. Nel 2003 si sposta a Tblisi dove vive da vicino la georgiana Rivoluzione delle Rose e rientra in patria nel 2004, forte di una nuova rete di contatti con fondazioni statunitensi disponibili a finanziare movimenti democratici (1).

Solo un anno dopo la popolazione kirghisa si solleva dando vita a quella che sarebbe poi stata ribattezzata Rivoluzione dei Tulipani. Roza Otunbayeva ne è una delle principali sostenitrici, insieme a Kurmanbek Bakyev, destinato a diventare nuovo presidente del Kirghizistan nel dopo-rivoluzione.

In capo a cinque anni la situazione è destinata a mutare nuovamente, e l’8 aprile 2010, le agenzie stampa di tutto il mondo diffondono la notizia che il presidente è stato rovesciato con una rivolta che vede in testa proprio la Otunbayeva, nel frattempo estromessa dal governo Bakyev e passata al ruolo di forte opposizione.

Il Post-Rivoluzione

Da aprile altri importanti eventi si sono succeduti. Il 27 giugno il governo ad interim ha indetto un referendum per una nuova Costituzione e il passaggio da una Repubblica presidenziale a un sistema misto tra presidenziale e parlamentare, funzionale a riequilibrare una gestione storicamente autocratica dei poteri (2). In quell’occasione si è recato alle urne oltre il 60% della popolazione e il sì alla nuova Costituzione democratica è passato con il 90% dei voti. Cifre che, in un contesto tribale e instabile come quello del Kirghizistan, ricordano panorami sovietici e mettono più di qualche dubbio.

Contrariamente alle aspettative, gli osservatori internazionali dell’Osce hanno dichiarato una sostanziale trasparenza della gestione dei voti.

Una spiegazione che possa legittimare la bontà di cifre così sospette si può forse trovare anche nel dramma consumatosi nella regione di Osh, proprio alle porte del referendum costituzionale.

In quell’occasione, la maggioranza kirghisa si è scontrata in un violentissimo raid contro la minoranza uzbeca, che ha lasciato dietro di sé almeno quattrocento morti e migliaia di profughi. Proprio una parte di questa enorme massa di uzbechi è rientrata nei luoghi della persecuzione appositamente per esprimere il suo voto.

Gli Agenti Esterni

Al contrario dei suoi vicini, il Kirghizistan non è un paese ricco di risorse energetiche e materie prime, la popolazione khirghisa è storicamente nomade, e la situazione economica disastrosa. La sua posizione è però geostrategicamente interessante al punto da renderlo un grande conteso tra Russia e Stati Uniti. Con le basi militari di Kant (Russia) e Manas (USA) è infatti l’unico paese al mondo a ospitare basi di entrambe le potenze.

Gli Stati Uniti in particolare hanno un crescente rapporto di vicinanza diplomatica con la Repubblica centro asiatica. Come già accennato, sono stati nel 2005 con l’amministrazione Bush e attualmente con Obama, degli agenti attivi nello stesso sostegno e finanziamento ai movimenti rivoluzionari.

Risale al 24 settembre il meeting statunitense tra Roza Otunbayeva e Barack Obama, in occasione del quale il presidente americano ha avuto modo di congratularsi ufficialmente per i progressi khirghisi in senso democratico. Dichiarazioni che non vanno intese come semplice diplomazia di facciata, dato il forte interesse degli Stati Uniti a  mantenere una posizione militare privilegiata per le manovre verso il fronte afghano. In questo senso garantire un clima stabile in Kirghizistan è di primaria importanza.

La Federazione Russa dal canto suo, ha forse un ruolo meno attivo, ma più complesso.

L’Asia Centrale è un vicino storico e ben conosciuto. Le vicende dei rapporti tra Russia e vicino Oriente iniziano intorno alla metà del 1500 con Ivan IV Il Terribile, attraversano secoli di tentativi maldestri di gestire le politiche tribali della Steppa, e se possibile si complicano ulteriormente in epoca sovietica con la gestione di un enorme impero multietnico.

Questa lunga storia rende la Russia attuale uno spettatore forse poco oggettivo, ma anche con una conoscenza ben più profonda delle dinamiche interne alle ex Repubbliche Sovietiche. Per questo probabilmente Vladimir Putin non ha tutti i torti quando si esprime negativamente riguardo al nuovo cammino intrapreso dal Kirghizistan. Il Primo Ministro ha infatti recentemente espresso grande preoccupazione, affermando che un sistema di tipo parlamentare, in quel contesto, non può funzionare.

Se sono innegabili gli interessi meramente economici e politici che la Russia nutre nei confronti degli –stan countries, sono innegabili anche i grossi rischi dell’instaurare un regime democratico in un contesto clanico, tribale e autarchico.

L’atteggiamento russo è anche il riflesso dei timori generalmente diffusi tra i paesi più e meno confinanti con il Kirghizistan. Quel che si teme non è tanto un improvviso dilagare della febbre democratica, quanto le conseguenze disastrose in caso di fallimento. Emblematico l’esempio dell’Uzbekistan, il cui principale interesse è quello di non dover avere a che fare con le masse di profughi di origine uzbeca che si sposterebbero dal Kirghizistan in casi di nuove persecuzioni.

L’opinione generale è che un sistema senza accentramento dei poteri sia troppo debole per poter resistere alle tensioni interne al paese, e in particolare alla presenza di gruppi dissidenti di estremisti religiosi che vorrebbero dichiaratamente instaurare una teocrazia. Questi gruppi come Hizb al-Tahrir, sono attivi in particolare proprio nella regione di Osh, e i recenti scontri hanno dimostrato come l’area sia terreno fertile per lo scoppio di tensioni inter-etniche.

Non bisogna peraltro dimenticare, che una delle differenze principali tra questa sollevazione e quella del 2005, è stata la presenza rilevante di slogan nazionalisti e atteggiamenti aggressivi nei confronti delle minoranze etniche presenti nel paese.

Situazione Attuale: Elezioni, Timori, Prospettive

Questa aspirante democrazia ha proprio in questi giorni compiuto l’importante passo delle elezioni politiche. A dispetto dei timori di molti, quel che ne è uscito, sono state elezioni pacifiche e, pare, regolari.

Dalle elezioni del 10 ottobre il partito nazionalista Ata Zhurt è uscito con una maggioranza risicata del 9%, seguito dall’8% circa del  Partito Socialdemocratico (3). Roza Otunbayeva manterrà la carica di presidente fino alla fine del 2011 e nel frattempo sarà necessario creare un governo di coalizione nel tentativo di dare stabilità al paese.

Per indirizzare il Kirghizistan verso dei progressi reali, sarebbe forse necessario vedere una collaborazione tra forze rivali, laddove la Russia avrebbe gli strumenti di conoscenza del territorio necessari per evitare pericolosi scivoloni da parte degli Stati Uniti. Panorama surreale in un contesto in cui chiari interessi strategici supereranno sempre ricerca di stabilità e velleità di democratizzazione.

* Ginevra Lamberti è laureanda in Lingue e Culture dell’Eurasia e del Mediterraneo (Università Ca’ Foscari di Venezia)

(1) Si veda peacereporter.net http://it.peacereporter.net/articolo/21195/Kirghizistan,+ri-rivoluzione+colorata

(2) Per informazioni più precise sul nuovo sistema elettorale khirghiso http://www.levanteonline.net/esteri/mondo/2028-nuova-costituzione-nuovo-governo-e-nuove-sfide-per-il-kirghizistan.html

(3) Risultati delle elezioni politiche via ilpost.it http://www.ilpost.it/2010/10/11/risultati-elezioni-kirghizistan/

La militarizzazione dello spazio

$
0
0

Possediamo il 50% della ricchezza mondiale ma soltanto il 6% della popolazione mondiale. Questa disparità è particolarmente evidente quanto quella che c’è tra noi e la popolazione dell’Asia. In questa situazione non possiamo non essere oggetto d’invidia e risentimento. Nell’immediato futuro il nostro principale compito sarà quello di elaborare un modello relazionale che ci permetta di mantenere questo divario senza che vada a discapito della nostra sicurezza nazionale. Per fare questo dobbiamo mettere da parte i sentimentalismi e i sogni ad occhi aperti e dobbiamo concentrare la nostra attenzione ovunque sui nostri obiettivi nazionali più immediati. Non dobbiamo illuderci pensando che possiamo permetterci il lusso dell’altruismo e di fare i benefattori del mondo”.

Questa era la teoria politica di George Keenan, senior Planning Officer de Dipartimento di Stato statunitense nel 1948 , poi Ambasciatore USA in Unione Sovietica, 1950 – 1964, e autore della politica di Contenimento dell’URSS all’epoca della Guerra Fredda fino al 1991.

Innanzitutto un breve esame del contesto delle relazioni del potere politico in gioco oggi e il loro impatto sulle forze che stanno incentivando  il dispiegamento di armi nello Spazio che verosimilmente porteranno a una corsa all’armamento nello spazio – analoga a quella della guerra fredda – finora “santuario di pace” e,  conseguentemente, a una situazione di ‘Mutua Distruzione Assicurata’ (MDA) del pianeta.

L’esperienza storica dell’India ci ha insegnato che la superiorità del sistema di difesa rappresentava l’elemento innovativo della strategia del potere imperiale per rompere l’unità delle società  che si cercava di colonizzare. Certamente sappiamo tutti come e perché le bombe atomiche vennero sganciate su Hiroshima e Nagasaki per dominare, intimidire, indurre la paura e  minacciare altre nazioni finché l’uguaglianza non fosse stata stabilita. La gente ha visto i risultati della rovinosa guerra fredda e  di una corsa agli armamenti senza pari. Non c’è stato alcun vantaggio portato dalla pace come ci avrebbe voluto far credere la propaganda. Infatti la guerra fredda continua con i ‘nuovi nemici’ aggiunti all’‘asse del male’ e una omnipervasiva guerra al terrore per spaventare la gente di tutto il mondo al fine di tutelare i disgustosi profitti delle ‘multinazionali della guerra’. L’attuale situazione è che per mantenere la superiorità del sistema di difesa il Pentagono spende non solo 700 miliardi di $, ma gli Stati Uniti oltre 1400 miliardi di dollari per l’intero apparato di sicurezza, cioè circa tre volte tanto quello che spendono i restanti paesi messi assieme. Con questa premessa procediamo con il gioco internazionale del potere.

Con la capitolazione politica dell’Unione Sovietica, accettata dai rappresentanti di lunga data Mikhail Gorbaciov, Segretario generale del  PCUS e Boris Yeltsin, Presidente della Federazione Russa, in totale disaccordo con il referendum tenuto dai membri dell’URSS, di rimanere Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ci si accordò per completare la transizione verso un ‘mondo unipolare’ con gli USA come ‘potenza egemone’ e l’implementazione formale delle politiche e delle dottrine che erano state annunciate dopo la fine della II Guerra Mondiale.

Il progetto per un Nuovo Secolo Americano (PNAC), era stato definito da un piccolo gruppo politico-finanziario, il gruppo Bilderberg, guidato dai Rockfeller e dai Rotschild.  Ciò ha avuto come premessa una serie di teorie sul modello della ben nota dottrina Monroe per l’America Latina, Dottrina Presidenziale USA 59 e le Dottrine Carter e Clinton (la Dottrina Clinton aggiungeva che “gli USA hanno il diritto di ricorrere all’uso unilaterale della forza per proteggere i mercati chiave e le risorse” ), dichiarando il Medio Oriente un’area di interesse vitale per gli USA, seguita successivamente dalle dottrine della Pre-emptive war (guerra di Autodifesa Anticipata), della Guerra Senza Limiti, dalla delega all’autorità -nei teatri di guerra-  ai comandi militari per l’utilizzo di micro-ordigni nucleari  ( fino ad armi da 20 Chiloton, tre volte la bomba di Hiroshima) secondo la dottrina USA sulle Armi Nucleari del 2007, per il ricorso su ‘obiettivi che possono resistere ad attacchi non nucleari – tunnel, siti metropolitani e come rappresaglia per armi militari, biologiche, chimiche o nel caso di SORPRENDENTI SVILUPPI MILITARI (contro gli USA ) di natura non specificata. George W Bush ha definito i ‘micro-ordigni nucleari, artiglieria convenzionale’. L’apparente giustificazione per una tale dottrina era che – “Nel nome della Pace, della libertà, della democrazia e dei valori civili dovremo intraprendere delle guerre” (Paul H. Nitze in NSC 68 ). In breve, tutte dottrine Imperiali. La dottrina Imperiale come quella definita da Obama, Presidente degli Stati Uniti che, nel suo discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Pace,  ha detto, “Gli strumenti di guerra hanno un ruolo nel preservare la pace …GLI STATI UNITI SI RISERVANO IL DIRITTO DI AGIRE UNILATERALMENTE, SE NECESSARIO, e di scatenare guerre il cui scopo vada oltre l’autodifesa o la difesa di una nazione contro l’aggressore …La Pace non è una pace più lunga, ma piuttosto una guerra permanente che va ben oltre l’Afghanistan e il Pakistan fino a regioni disparate e nemici diffusi”. Egli ha definito tutto questo ‘Sicurezza Globale’.

Tutto ciò era la politica militare USA che promuoveva l’armamento, sebbene alla fine del suo mandato il Presidente USA Dwight D. Eisenhower diventando per un attimo sentimentale, riguardo al complesso militare – industriale che aveva messo in grave pericolo i cittadini degli Stati Uniti, eccezion fatta per le altre nazioni, in un discorso mentre abbandonava il suo incarico, disse … “Io odio la guerra come solo un soldato che l’ha vissuta può fare, come può fare solo uno che ha conosciuto la sua brutalità, la sua inutilità, la sua stupidità …ogni pistola che è stata fabbricata, ogni nave da guerra varata, ogni razzo sparato, alla fine non è altro che un furto ai danni di chi ha fame e non è sfamato, di chi ha freddo e non è vestito”.

L’intera verità che oggi è davanti agli occhi del mondo, con diverse guerre d’aggressione e bombardamenti brutali di piccoli e, dunque, vulnerabili paesi per la conquista delle risorse e di aree strategiche, è che la Carta delle Nazioni Unite e la nobile Dichiarazione dei Diritti Umani esistono solo sulla carta malgrado parole altisonanti, “Noi popoli delle Nazioni Unite risoluti a salvare le generazioni future dal flagello della guerra, credendo nell’uguaglianza dei diritti degli uomini, delle donne e delle nazioni, grandi e piccole, per stabilire la giustizia e promuovere il progresso sociale derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale”.

La piccola élite finanziaria, che è l’oligarchia delle società politiche chiamate ironicamente democrazie; i banchieri, le compagnie finanziarie, le grandi compagnie petrolifere, i giganti del business degli OGM, le compagnie farmaceutiche e alimentari e i monopoli delle sementi che cercano di controllare il mondo degli alimenti e dell’energia, per dominare le nazioni e i popoli in lungo e in largo per il mondo e per i continenti, hanno effettivamente privatizzato patrimoni  pubblici e beni comuni e, quindi, sminuito e castrato la democrazia con l’ulteriore intento di spopolare il mondo. Sono le politiche di quest’oligarchia che individuano nei sistemi di difesa e nella loro espansione nello Spazio  le priorità del bilancio nazionale per mirare al pianeta terra, e per servirsene negli oceani, sul fondo marino, ma per prima cosa, dicono nello Spazio. In ogni caso, tutte queste aree del nostro piccolo e vulnerabile pianeta: la terra, gli oceani, l’atmosfera e lo spazio sono intrecciati e interconnessi.

Come possiamo vedere, l’ordine del mondo oggi, le condizioni materiali delle persone, da un continente all’altro, le conseguenze dirette del colonialismo, originano guerre predatorie per le risorse e i mercati, e conflitti all’interno delle nazioni per consolidare ulteriormente un regime di sfruttamento estremo, parassitico e coloniale, per schiacciare gli ‘untermenschens’ o  sub-umani – espressione con cui si designa la gente comune – per condannare milioni di persone ad una politica predeterminata di malnutrizione, fame, malattia e morte, come non era mai accaduto prima nella storia del mondo. In India, il Mahatma Gandhi e Jawaharlal Nehru hanno descritto queste condizioni come il “terrore della fame e della disoccupazione”, pensando che fossero caratteristiche inerenti l’epoca coloniale in India e che sarebbero state sradicate una volta che la libertà avesse vinto!

Per riassumere l’autentico carattere dell’accumulazione del surplus in un sistema capitalistico, la sua estrema, parassitica, peculiarità di succhiare il sangue e i frutti della fatica dei lavoratori e di intere colonie, bisogna coltivare politiche che creano sistemi di difesa per stabilire l’egemonia e il dominio. Il Progresso Umano nelle scienze e nella tecnologia, invece di essere utilizzato a beneficio della civiltà, è usato per perfezionare e inventare, non importa quanto costi ai bilanci nazionali, sistemi di difesa robotizzati nella loro capacità di uccidere e mutilare un largo numero di persone, sempre più civili. Questo è stato dimostrato, per fare un esempio, con la tecnologia telecomandata con il suo controllo a distanza, in anticipo sulle successive versioni da impiegare nello Spazio. Questo processo accelera, proprio mentre le persone perdono il controllo sui bilanci militari, proprio mentre non hanno più alcun controllo sui loro sistemi politici. La natura di questo armamento è destinata a distruggere l’habitat umano e l’ambiente e ha pericolose implicazioni sul futuro genetico dell’umanità, sotto forma di OGM e pesticidi delle compagnie dell’Agribusiness.

“Il colonialismo è  una condizione necessaria e costante per la crescita capitalista. Senza le colonie, l’accumulazione di Capitale potrebbe arrestarsi” disse Rosa Luxemburg, membro del Partito Socialdemocratico nella Germania pre-nazista. Oggi viviamo nell’era del Neocolonialismo travestito da Globalizzazione, senza bandiere straniere o eserciti, con le Multinazionali che tessono la rete della Classe Capitalista Transnazionale, attraverso il nostro sistema di governo e la nostra economia.

Dobbiamo comprendere la realtà dell’attuale mondo privo di leggi, dove le Multinazionali guidano le forze militari scatenando pre-emptive war (guerre di Autodifesa Anticipata), invasioni e occupazioni e dove il sistema dell’ONU è paralizzato, la sua Carta è ignorata, i Trattati  e le convenzioni, firmati e ratificati, sono disprezzati in ogni momento. È necessario concentrarci sulla cruda verità, cioè che quei trattati e quelle convenzioni non proteggono l’umanità dalle forze che vogliono dominare e sfruttare le risorse del mondo usando qualsiasi sistema di difesa e tutti i mezzi possibili – per terra, per mare, sui fondali marini o nello spazio – e se il sistema mondiale non stabilirà il prima possibile un bilanciamento delle basi militari potrebbero essere collocate nel sistema planetario terrestre.

Vladimir Putin, prima Presidente e ora Primo Ministro russo, intervenendo alla Conferenza sulla Sicurezza Europea tenutasi a Monaco il 10 febbraio 2007, ha detto: “Il mondo unipolare definisce un mondo in cui c’è un capo, un centro dell’autorità, un unico centro del potere, un unico centro dove prendere decisioni. Alla fine dei conti ciò è fatale non solo per quelli che stanno all’interno del sistema ma anche, dall’interno, per lo stesso Sovrano; ciò che è più importante è che lo stesso modello è incrinato perché alla sua base non c’è e non può esserci un fondamento morale per la civiltà moderna ( e ancor meno per la democrazia).

Stiamo assistendo al disprezzo sempre maggiore dei principi fondamentali del diritto internazionale, al pressoché incontenibile super-uso della forza nell’ambito delle relazioni internazionali, forza che sta spingendo il mondo nell’abisso dei conflitti permanenti. Sono convinto che siamo giunti al punto decisivo in cui dobbiamo seriamente pensare all’architettura della sicurezza globale”.

Dobbiamo smuovere cielo e terra, il potere dell’umanità per smantellare questa élite dominante che prende le decisioni ‘nelle sale dei consigli assembleari militari’, nei sotterranei del Comando Strategico in Nebraska o in più posti a Wall Street, nella City ( Londra ) o a Tel Aviv .

La domanda senza limiti per stabilire un monopolio sui mercati e le risorse del pianeta terra ha condotto il mondo ad assistere a guerre infinite, talvolta definite ‘guerre lunghe’, se l’espressione può sembrare meno distruttiva, e la caccia infinita alle piattaforme per le armi, per ottenere ‘il dominio dell’intero spettro’ e la ‘Iniziativa della Difesa Strategica’ (SDI) o le Guerre Stellari iniziate con il ‘libero mercato’ del governo Reagan e con il Thatcherismo che hanno accelerato  la morte e la distruzione a cui abbiamo assistito  in lungo e in largo per il pianeta, in Angola, Congo, Somalia, Afghanistan, Iraq, Palestina, America Latina e Centroamerica, Yugoslavia, Libano, Gaza e ancora prima in Corea, Vietnam e Cambogia, tra gli altri paesi, con l’acquiescenza e, in alcuni casi, il sostegno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU .

Le tecnologie per la rincorsa alla guerra sono le meglio finanziate e spesso giustificate dalla generica espressione ‘Sicurezza Nazionale’. Ci sono piattaforme e testate, le prime stanno diventando sempre più versatili nelle versioni da terra, mare, aria e spazio. Le testate hanno numerose varianti – Uranio Impoverito, micro – ordigni nucleari, fosforo, napalm, bombe grappolo, bunker-buster, laser potenti e raggi  di particelle, le ultime specialmente per l’utilizzo nello spazio.

Un sistema di ‘Guerra Permanente’ alimentato da una ‘Economia di Guerra’ permanente, foraggiata dalle pratiche predatorie delle grandi Banche e delle multinazionali (MNC) ha condotto alla fondazione di uno Stato di Sicurezza Nazionale che a sua volta promuove l’interesse privato della oligarchia finanziaria. Le tre regole d’oro, quindi, sono la presenza militare globale USA/NATO, la proiezione globale del potere militare e l’uso della forza in un conflitto o in un altro per minacciare ‘i popoli inferiori’ del mondo con un ‘Dominio a Pieno Spettro’  – incluso lo Spazio. La classe al potere è attualmente un’alleanza della Classe Capitalista Transnazionale (TCC) che si garantisce profitto, potere e privilegi per mezzo di una politica di controllo e armamento.

La nuova strategia

La nuova strategia è elaborata da un ‘Consiglio’ costituito dai CEOs (Chief Executive Officers) delle più grandi multinazionali e dai Comandanti di Campo, l’elenco degli obiettivi, le priorità e i piani di guerra finanziati, sono poi tradotti in Documenti sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale (NSSD), dottrine Presidenziali/dichiarazioni, minacce e sanzioni. Per esempio è ufficiale che il Piano/Elenco dei Bersagli delle Armi Nucleari era stato preparato congiuntamente dai più alti dirigenti del mondo degli affari e dagli alti comandi militari presso la Offut Air Base del Comando Strategico USA nel 2002 (citazione del Prof. Michel Chossudovsky). Preso in considerazione ciò; per primo il piano di ‘Ricostruzione’ (o affari) e poi il ‘Piano di Distruzione’ , o meglio quello che si è stabilito di distruggere in modo che possa essere nuovamente ricostruito per mezzo di appalti  del tesoro pubblico.

La Vision 2020 del Comando USA nello Spazio, non è che un’espressione di questa realtà.  Allo scopo di prestarsi a questa farsa, gli USA/NATO – servendo il paese, difendendo la Costituzione (questo “maledetto pezzo di carta” come George W. Bush era solito chiamarlo) e la gente, i militari continuano a coprire elmetti e uniformi dei membri delle forze armate con decorazioni e distintivi. L’agenda viene stabilita dall’oligarchia finanziaria, i militari sono cooptati come partner esecutori. In ogni caso ‘compagnie militari private’ (PMC) sono sulla linea di comando e hanno il vantaggio del libero funzionamento al di fuori della regolamentazione del Diritto Militare USA. Entrambi hanno il mandato di sostenere le imprese criminali nel saccheggio e nella devastazione .

Rilevante per la comprensione delle prime decadi del XXI sec., la retorica della Vision del Comando dello Spazio recita: “Basata sull’insuperabile potere e influenza USA ( basato su fiat dollars e finanziamento del debito da Cina, Giappone etc.) che favorisce la libertà umana (per es. l’Operazione Iraqi Freedom)  e l’estensione della pace attraverso l’incoraggiamento di società libere e aperte in ogni continente (vedi libere imprese e liberi mercati), rende il mondo sicuro per la democrazia, sviluppa le capacità che rendono possibile il dominio e più aggressive intenzioni”. La “Grande Strategia” è quella di ‘rifare’ il mondo sulle basi dell’inattaccabilità USA (vedi Ultra Capitalismo/TCC), intaccando la sicurezza internazionale e l’umana sicurezza, in lungo e in largo per il mondo.  “Il progetto per l’armamento dello spazio è all’avanguardia nel processo oggi in atto. In ogni caso il successo dell’alleanza delle persone contro il progetto, mantiene la promessa, non solo di tutelare il ‘santuario della pace’ ma anche di progredire verso il disarmo e la pace sulla terra”, scrive Wade L. Huntley .

Vision del Comando USA nello Spazio

Incoraggiato dalla ‘Commissione Spaziale 2000’ di Donald Rumsfeld,  che abbracciava il mito dello ‘Spazio Pearl Harbour’ e lo basava sulla dubbia interpretazione che non c’è nessuna proibizione nascosta nel diritto internazionale riguardo il dispiegamento o l’utilizzo di armi nello Spazio, La Relazione della Commissione per lo Spazio contiene anche l’ammonimento rivelatore che gli “USA devono essere  prudenti con gli accordi voluti per uno scopo che si aggiungono a una ampia serie di trattati e convenzioni/regolamenti che potrebbero avere conseguenze impreviste, limitando le future attività nello spazio”.  Il documento della vision del Comando dello Spazio USA invoca il dominio della dimensione spaziale delle operazioni militari per proteggere gli interessi e gli investimenti USA. La Vision 2020 è per il dominio della Terra dallo Spazio. I suoi concetti operativi sono:

1.                         Controllo dello Spazio.

2.                         Impegno Globale.

3.                         Integrazione totale delle forze tramite – informazioni, sorveglianza , ricognizione ( ISR ) .

4.                         Partnership/alleanze Globali.

Il documento della Vision 2020 per il Comando Spaziale USA persegue l’idea di un Global Area Strike System, di cui un elemento chiave potrebbe essere un raggio laser ad alta intensità che dalla terra rimbalza su specchi collocati nello spazio (ground based high energy laser capability), l’installazione di Armi ad Energia Diretta (Directed Energy Weapons,  DEW) e Armi ad Energia Cinetica (Kinetic Energy Weapons, KEW), distrattori e falsi bersagli (soft kill jammers). Il quarto rapporto quadriennale della Difesa, periodico del NSSDs e i rapporti sul Comportamento nucleare, l’ultimo dell’aprile 2010, sono degli utili punti di riferimenti per un’analisi dettagliata di idee quanto di intenzioni e piani.

Molto più importante di ogni altra descrizione sulle tipologie di armi e piattaforme per armi programmate per essere dispiegate nello Spazio, c’è il fatto che il Documento della Vision enfatizza “il ruolo dello Spazio NELLA GESTIONE DELL’ECONOMIA GLOBALE …La Globalizzazione (vedi neo–imperialismo/colonialismo) dell’economia mondiale continuerà a generare un gap che aumenta, tra ‘quelli che hanno’ e ‘quelli che non hanno’ …L’idea è che controllando lo Spazio e la Terra sottostante gli USA (intendendo per USA i TCC) saranno in grado di tenere in riga ‘quelli che non hanno’”.

Il Comando Spaziale USA è acutamente definito da Bill Sulzman, Direttore, Cittadino per la Pace nello Spazio, che osserva -“Il Comando Spaziale si sta preparando ad essere ‘La forza dell’ordine’  dell’Economia Globale e della struttura politica”.

La Vision del Comando Spaziale indica gli USA e gli interessi globali, finanziari coinvolti nella determinazione della ‘Dottrina Militare Spaziale’. Il ‘Piano di Lungo Periodo’ del Comando dello Spazio si apre evidenziando questo coinvolgimento – spiegando nei dettagli che esso coinvolge 75 multinazionali a cominciare da Aerojet, Boeing, Lockheed –Martin, Rand, Raytheon, Sparta Corp, TRW fino a Vista  technologies, e centinaia di Multinazionali in Europa e in Giappone che lo potenzieranno con degli appalti e salvaguarderanno il loro controllo delle risorse e dei mercati.

La crescita dell’influenza degli affari Finanziari e delle Multinazionali confonderà gli accordi sulla Sicurezza così come  controllerà e influenzerà gli eventi mondiali e l’intera architettura della sicurezza globale, Asia  inclusa.

Già nel 1996, il Generale Joseph Ashy, Comandante in Capo del Comando Spaziale USA aveva detto ‘Aviation Week & Space Technology’… “È un tema politicamente sensibile …ma accadrà … alcune persone non vogliono neppure sentirlo, ma sicuramente combatteremo nello Spazio, noi combatteremo dallo spazio e nello spazio”.

Un’analisi giustamente conclude  “gli USA (TCC) sono preparati a un controllo unilaterale (militare) dello Spazio che sovrasta il Pianeta Terra, i suoi abitanti e i suoi continenti – con questa posizione di vantaggio potrebbero sopraffare qualsiasi avversario”. Inseguendo il profitto hanno dichiarato con spavalderia che ‘avrebbero fatto esplodere il mondo’ se necessario. In ogni caso, come dice un proverbio, anche quando tutto sembra certo qualcosa può sempre andare storto. Dopo il 2007 con la crescente implosione finanziaria, gli indebitamenti e la perdita di potere dell’industria del sistema USA ha preso visibilmente velocità, la fine del gioco potrebbe essere diversa dal previsto!

Conformemente a quanto dichiarato, appena qualche anno fa, da alcuni gruppi di esperti …   “Le altre nazioni non hanno i soldi né la tecnologia per competere con gli USA nello sviluppo delle armi dell’era dello spazio, citiamo Friedman come esempio, la Cina e la Russia hanno già superato la soglia”. Infatti la  Cina, e in misura minore la Russia, sono creditori del Tesoro USA in bancarotta …La Cina ha finanziato indirettamente le guerre delle multinazionali in Afghanistan e in Iraq…la presenza militare globale USA e le crescenti aspettative del Comando Spaziale. Ma le illusioni possono essere pericolose nel provocare un’incontrollata corsa all’armamento nello Spazio con tutti i rischi connessi e le imprevedibili conseguenze che potrebbero far esplodere il pianeta terra, nonostante il fatto che l’economia USA è in fase terminale mentre i suoi guerrieri delle multinazionali della classe capitalista Transnazionale conservano la loro ricchezza sotto forma di titoli finanziari,  quantunque titoli derivati, CDOs e CDSs  e altri titoli di credito in un’enorme rete di imbrogli. Come dicono i cinesi, viviamo davvero in un’epoca interessante.

Dal momento che il Comando Spaziale USA va avanti con la costruzione del sistema spaziale WMD e sinergizzando con la Ballistic Missile Defense, National Missile Defense e i weapon system Anti-Satellite (ASAT), la Cina e la Russia entreranno con sistemi orientati alla difesa e se lo farà la Cina, l’India la seguirà e il Pakistan anche. L’intero gioco è controproducente e porta a una più grande ‘Mutua Distruzione Assicurata’ (MAD) così come con le armi nucleari … ma non nella mente della classe capitalista Transnazionale che ama il tocco d’oro di Mida.

Il ‘Trattato dello Spazio Estremo’ 1967 , fu firmato e approvato da USA, Unione Sovietica, Cina e India, tra gli altri . Il Trattato dello Spazio Estremo è uno strumento legalmente vincolante. In ogni caso ha una clausola, che omessa permette ‘l’uso militare passivo dello spazio’. I Primi Ministri di Canada e Russia al Summit del Millennium nel settembre del 2000, e, poi in occasione dell’incontro del dicembre 2000, promisero di lavorare in stretta collaborazione per prevenire una corsa all’armamento nello Spazio.

In un documento ben formulato, presentato alla Conferenza sul Disarmo dello Spazio, tenutasi a Mosca nel 2001, la Dott.ssa Rebecca Johnson, Direttore Esecutivo dell’Acronimo Institute for Disarmament Diplomacy convocata per un graduale ‘Ottawa Process’ e consultata per un documento di lavoro costruttivo presentato dalla Francia alla Conferenza sul Disarmo (CD) a Ginevra. La Dott. ssa Rebecca Johnson ha ricordato anche che un certo numero di compagnie americane con interessi nell’industria delle  Telecomunicazioni, della Navigazione e dell’Intrattenimento hanno interessi a mantenere in pace lo Spazio; Ha fatto anche un’altra rilevante osservazione ‘la smilitarizzazione dello Spazio è legata alle Relazioni Internazionali’. Richiamando il contributo dello Sri Lanka, per la proposta di una moratoria sulla sperimentazione delle armi ASAT e per una discussione su un ‘Codice della Strada’ per lo Spazio, nel tentativo di prevenire l’armamento dello Spazio stesso, l’ambasciatore dello Sri Lanka alla Conferenza sul Disarmo di Ginevra, Jayantha Dhanapala, già nel 1985,  aveva messo in evidenza, con un’insolita lungimiranza, che “prevenire una corsa all’armamento nello spazio estremo è un impegno più facile di quello di tentare di controllare di decelerare tale corsa una volta che questa è già iniziata…perciò, l’urgenza di proibire, per mezzo di negoziati multilaterali, il dispiegamento di armi nello spazio, progettato allo scopo di danneggiare, distruggere o interferire con i veicoli spaziali di qualsiasi paese”.

Ciò sarebbe ideale se  anche i progetti BMD e NMD venissero bloccati, se non nella realizzazione della loro pratica futilità, allora semplicemente perché l’arrivo della ‘Più grande Depressione’ dovrebbe indurre ad una migliore analisi in ragione almeno della non praticabilità finanziaria.

Un eminente pensatore e analista del network globale per la preservazione dello spazio santuario ha detto così: “Ai pacifisti non piacerà molto chiedere la fine della guerra in Iraq, Afghanistan, della guerra nucleare, dell’armamento dello spazio… a meno che loro (noi) non mobilizzeranno milioni di persone che chiedano la fine del sistema fondamentale, il profitto è tutto  e l’essere umano nulla, che ha prodotto una guerra semi – permanente, il conflitto, la violenza, la tensione e liti settarie (le squadre della morte e PMC personale mascherato da Gruppi Speciali, bombe controllate a distanza al di fuori del controllo di qualsiasi istituzione dell’apparato statale)”

Siamo minacciati dalla distruzione e decimazione della gente e delle nazioni del mondo intero, inclusa la distruzione delle risorse della madre terra, necessarie alla vita.

Per prime  Russia e India hanno dichiarato una posizione condivisa fondamentale riguardo al ‘Non armamento dello Spazio’ con la dichiarazione congiunta dei due Primi Ministri, del 25 gennaio 2007 a New Delhi ( Per quanto sotto la pressione della preoccupazione di non rimanere troppo indietro e isolata, l’India ha annunciato un Comando Congiunto dello Spazio nel marzo del 2008 (per consolidare la sua capacità ISR – Intelligence, Surveillance, Reconnaissance).

I negoziati sul Trattato per proibire le armi e la guerra nello spazio, come proposto dalla Dott. ssa Rebecca Johnson, avranno tre punti chiave:

I)                              Divieto di dispiegamento e uso di armi nello spazio come risultato dell’ampliamento e del rafforzamento del Trattato sullo Spazio Estremo del 1967 così che anche le armi ad energia diretta e cinetica siano vietate, grazie al ‘Divieto di dispiegamento’ di ogni futura e offensiva innovazione con un potenziale analogo.

II)                              Divieto di sperimentare, dispiegare e usare armi ASAT, sia collocate sulla terra che nello spazio.

III)                           Stabilire un codice di condotta per sostenere la pace, l’uso non aggressivo e non offensivo della forza (anche come blocco, nel breve periodo, e come limite per gli ASAT).

Siamo avvezzi a quanto la scienza e la tecnologia hanno permesso. Ora c’è la possibilità di permettere Poteri Spaziali per finanziare delle guerre, o meglio far esplodere il pianeta terra o costringere e ricattare altri paesi a fondersi e ad autorizzare un’unica ideologia politico-economica del mercato e dell’impresa privata, malgrado la bancarotta finanziaria imponga a più di un paese del mondo condizioni come il “Debito Sovrano!”.

Il Ministro per gli Affari Esteri russo, Sergei Lavrov, ha ufficializzato che certe mosse sulla scacchiera “disturberanno l’equilibrio militare mondiale”. Il 6 settembre 2007, prima dell’Assemblea Generale dell’ONU, la Russia ha emesso una bozza di risoluzione per vietare il dispiegamento di armi nello Spazio Estremo, intitolata ‘Misure sulla costruzione della Trasparenza e della Fiducia nelle attività dello Spazio Estremo’. Una prima proposta della Russia sulla stessa linea era stata avanzata alle Nazioni Unite nel 2002. La proposta includeva anche la convocazione di una conferenza per perseguire congiuntamente, dopo aver analizzato diverse questioni e preparato e negoziato una bozza di trattato per proibire le armi nello spazio, per così dire, per migliorare il Trattato del 1967 in riferimento alla attuale realtà per prevenire l’armamento dello Spazio.  Anche la Cina si è unita alla Russia nel chiedere agli USA di osservare il Trattato e di non dispiegare armi nello Spazio.

Neanche l’alleanza della Classe Capitalista Transnazionale si auto-distrugge, obbligata dai lavoratori solidali di tutti i continenti, i quali si oppongono alla guerra e stanno solidalmente assieme come una forza d’opposizione dalla parte dell’umanità o finiremo per precipitare in un abisso profondo. Per ognuno ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le cose come sono o assumersi la responsabilità di contribuire al cambiamento – da un’economia di guerra a una politica economica di pace da condividere, per preservare il nostro ambiente e per appartenere a comunità in cui ogni essere umano ha una parte eguale per i suoi bisogni elementari.

Ammiraglio Vishnu Bhagwat

Traduzione a cura di Ilaria Poerio

Viewing all 166 articles
Browse latest View live