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Channel: Cristina Kirchner – Pagina 231 – eurasia-rivista.org

La politica estera di d’Annunzio a Fiume

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Esattamente 90 anni fa, le cannonate delle navi da guerra italiane congiunte all’attacco terrestre da parte del Regio Esercito, costringevano Gabriele d’Annunzio, Comandante di Fiume e vertice della Reggenza italiana del Carnaro, a por fine alla sua avventura irredentista e rivoluzionaria cominciata nella notte fra l’11 ed il 12 settembre 1919 alla testa dei suoi “Legionari”.

Per più di un anno il poeta abruzzese ed eroe di guerra capeggiò una sedizione nata in ambito militare, ma che seppe raccogliere sulle rive del Carnaro significative adesioni anche da parte di intellettuali, artisti, politici e sindacalisti non solo italiani. Partito sventolando la bandiera della “vittoria mutilata”, che privava l’Italia soprattutto in Dalmazia di quanto le spettava, il Vate si pose nettamente in contrasto con quanto si andava deliberando a Parigi in seno alla Conferenza della Pace, mettendo in serio imbarazzo pure il Governo italiano. Quest’ultimo cercò di sfruttare la situazione a suo vantaggio dietro le quinte, mantenendo i contatti con gli elementi più moderati dell’entourage dannunziano al fine di prendere contatto con i movimenti separatisti che cominciavano a prendere piede nel neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, soggetto geopolitico che minacciava l’egemonia italiana nell’Adriatico e che non era neppure previsto nel Patto di Londra del 24 aprile 1915, in base al quale i Savoia si erano decisi a entrare in guerra. Quel medesimo patto, però, non prevedeva neppure l’annessione di Fiume e solamente il sorgere nella città quarnerina di un Consiglio nazionale italiano al momento della dissoluzione austro-ungarica aveva offerto il destro alla diplomazia sabauda per avanzare nuove pretese. Il litorale adriatico diventava quindi luogo di contesa fra Roma e Belgrado: dall’avamposto fiumano si adoperavano per intessere contatti con i secessionisti jugoslavi personaggi come Giovanni Giuriati, interlocutore privilegiato di Pietro Badoglio (nel frattempo nominato Commissario Straordinario per la Venezia Giulia per tenere sotto controllo la sedizione fiumana), mentre in Dalmazia un Governatorato Militare italiano presidiava i territori che dovevano essere annessi in base al Patto di Londra e a Trieste i servizi segreti militari avevano nel tenente colonnello Cesare Finzi Pettorelli Lalatta il canale con cui tenersi in comunicazione con gli ambienti croati intenzionati a destabilizzare il regno dei Karageorgevic.

A queste manovre orchestrate di fatto da Roma si accompagnavano iniziative di politica internazionale partorite dall’estro dannunziano ovvero dalle proposte di alcuni suoi seguaci particolarmente audaci. Già a inizio ottobre del 1919 la Federazione della Gente del Mare, sigla sindacale capeggiata dal socialista Giuseppe Giulietti, dirottò sullo scalo fiumano la nave Persia con un grosso carico di armi destinato al porto di Vladivostok a beneficio delle Armate Bianche che ancora contrastavano l’Armata Rossa in Siberia. In una lettera rivolta all’inatteso ma graditissimo alleato, d’Annunzio spiegava che “la causa di Fiume non è la causa del suolo: è la causa dell’anima […]. Dall’indomabile Sinn Fein d’Irlanda alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, tutte le insurrezioni dello spirito contro i divoratori di carne cruda sono per riaccendersi alle nostre faville che volano lontano”. Ancor più esplicito sarebbe stato il discorso del 24 ottobre seguente, Italia e vita, in cui si vaticinava che “gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno […]. È la nuova crociata di tutte le nazioni povere ed impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi, contro le nazioni usurpatrici e accumulatrici d’ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, la crociata novissima ristabilirà quella giustizia vera da un maniaco gelido crocifissa con 14 chiodi spuntati [riferimento ai 14 punti del Presidente statunitense Woodrow Wilson, ndr]. La nostra causa è la più grande e la più bella che sia oggi opposta alla demenza e alla viltà di quel mondo. Essa si inarca dall’Irlanda all’Egitto, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Romania all’India. Essa raccoglie le stirpi bianche e le stirpi di colore; concilia il Vangelo e il Corano”. A rincarar la dose, Gran Bretagna, Stati Uniti d’America e la nascente Società delle Nazioni erano considerati “la punta di diamante della plutocrazia internazionale, di una civiltà borghese, avida e materialista, fondata sul denaro e sullo sfruttamento del lavoro, sull’oppressione dei popoli e delle loro aspirazioni di indipendenza, sul tradimento dei valori di eroismo e di spirito di sacrificio propri del movimento combattentista, alimentati ed esaltati dalla guerra”. Siffatte dichiarazioni ed in particolare i riferimenti alla Russia bolscevica risultavano sconvolgenti per le classi dirigenti fiumane, provenienti dalla borghesia irredentista locale, e per gli elementi maggiormente nazionalisti presenti nelle schiere dei Legionari, ma questo era ancora niente.

A dicembre d’Annunzio ed i suoi più scatenati seguaci ribaltarono gli esiti di un plebiscito cittadino che doveva valutare una proposta di accomodamento avanzata dal governo italiano, la quale prevedeva di integrare parzialmente il territorio fiumano nei confini del Regno sabaudo e rinunciava alla Dalmazia, laddove per il Comandante le due questioni erano inscindibili. In seguito a questo colpo di mano, salirono alla ribalta personaggi marcatamente di sinistra come il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, già interventista e che di lì a poco avrebbe fornito i contributi maggiormente innovativi dal punto di vista sociale alla Carta del Carnaro, ma anche il letterato belga Leon Kochnitzky, il quale vedeva in Fiume il punto di partenza per una rivoluzione mondiale dei popoli sfruttati, ed il futurista Mario Carli, fondatore del giornale La testa di ferro. Dalle colonne di tale testata partirono svariati messaggi di solidarietà con la rivoluzione bolscevica, con la quale si rivendicava una sostanziale somiglianza poiché entrambe antiplutocratiche, antiliberali, guidate da leader carismatici come Lenin e d’Annunzio e nate dalla temperie bellica, come si poteva leggere nell’articolo Il nostro bolscevismo del 15 febbraio 1920: “tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte fra queste due rive”. Due personaggi particolarmente esuberanti della cerchia dannunziana, vale a dire l’aviatore Guido Keller e l’ardito Giovanni Comisso, animatori dell’effervescente Yoga. Unione di spiriti liberi, auspicavano la calata dei “barbari” bolscevichi al fine di distruggere la corrotta civiltà occidentale e consentire una rinascita spirituale, quasi ad anticipare le pagine del diario di Drieu La Rochelle datate dicembre 1942, in cui si sarebbe vista l’avanzata delle truppe di Stalin come lo strumento provvidenziale che avrebbe fatto repulisti in un’Europa marcia e decadente. Lenin stesso pare che seguì con interesse gli sviluppi della vicenda fiumana e Antonio Gramsci la vide come una rivolta nata sì in ambito nazionalista e militare, ma che nei suoi esiti andava di fatto a indebolire lo stato borghese italiano e quindi meritava attenzione. A partire dalla sezione triestina del Partito Socialista, però, gli appelli degli insorti fiumani a stringere un’alleanza per portare la rivoluzione in Italia caddero nel vuoto (eccezion fatta per Nicola Bombacci) e non si riuscirono quindi ad agganciare neppure relazioni stabili con Mosca.

La prima parte del 1920 fu impiegata dal cosiddetto Ufficio Relazioni Esteriori a raccogliere non solo dichiarazioni di solidarietà per la causa fiumana da parte di altri popoli sfruttati e oppressi, ma anche per organizzare movimenti insurrezionalisti. Una delegazione fiumana, che si recò a Parigi chiedendo di poter perorare la propria causa in seno ai lavori della Conferenza di pace, non venne neppure presa in considerazione e gli incontri con i delegati egiziano ed irlandese portarono in dote solamente attestazioni di solidarietà. A marzo Kochnitzky stilò l’elenco dei possibili partecipanti alla contro-Società delle Nazioni che almeno nei suoi piani stava prendendo corpo:

I – Rappresentati dei popoli oppressi: Fiume d’Italia, Isole, Dalmazia, Albania, Austria Tedesca, Montenegro, Croazia, Irredenti Tedeschi ora soggetti della Polonia, della Cecoslovacchi, della Francia, dell’Italia (con riserve: autonomia) e della pseudo-Lega delle Nazioni, Catalani, Maltesi, Gibilterra, Irlanda, Fiamminghi. Islam, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Palestina, Mesopotamia, India, Persia, Afghanistan. India, Birmania, Cina, Corea, Isole Filippine, Hawaii, Panama, Cuba, Portorico. Razze oppresse: Cinesi in California, Negri dell’America. Problema israelitico.

II – Rappresentanti dei Paesi lesi ingiustamente dalla Conferenza di Versailles: Russia, Rumenia, Belgio, Portogallo, Siam, Germania, Bulgaria, Turchia, Santa Sede. Delegazioni di partiti e di gruppi solidali col “Fiumanesimo”, principalmente italiani, francesi, inglesi ed americani”.

Ad aprile d’Annunzio stesso anticipava in un’intervista rilasciata ad un giornalista ungherese la nascita di questo soggetto, ma la costante carenza di soldi avrebbe di lì a poco segnato la fine del progetto. La Lega di Fiume si ridimensionò nel corso dell’estate 1920 a strumento della politica estera italiana, perdendosi in quelli che il dimissionario Kochnitzky definì “gli intrighi balcanici”. D’Annunzio d’ora in poi, infatti, avrebbe stretto contatti con croati, montenegrini, macedoni, ungheresi di Vojvodina ed albanesi del Kosovo con l’auspicio di poter abbattere il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, annettere all’Italia Fiume e creare una Dalmazia autonoma, caratterizzata da una Lega fra le sue città costiere e comunque orientata verso l’Italia, la quale avrebbe potuto farvi valere alcune servitù militari ed installarvi basi per la flotta. Così tanto fervore destò preoccupazione nel giovane ed incerto Stato jugoslavo, tanto più che nel frattempo negli Stati Uniti Wilson, maggior paladino delle rivendicazioni belgradesi, era stato sconfitto alle presidenziali, ed il Senato non aveva ratificato il Trattato di Pace.

A novembre 1920, tramite la mediazione delle rispettive ambasciate a Vienna (l’Italia non aveva ancora riconosciuto ufficialmente il nuovo assetto del regno dei Karageorgevic), si giunse pertanto al Trattato di Rapallo, il quale in Istria ricalcava il confine del Patto di Londra, erigeva Fiume a Città Libera (come Danzica), assegnava le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta nonché l’enclave di Zara all’Italia ed alla Jugoslavia il resto della Dalmazia, in cui gli italiani avrebbero potuto optare per la cittadinanza italiana appunto. Nonostante in molti suggerissero a d’Annunzio di ritenersi soddisfatto in quanto Fiume non era stata annessa alla Jugoslavia come si paventava ed in Istria e Dalmazia comunque l’Italia aveva ottenuto riconoscimenti significativi, il Vate proseguì nella sua avventura, contrapponendosi all’esercito italiano che intendeva garantire il rispetto dei confini appena sanciti.

Il 13 novembre gli “uscocchi” fiumani occuparono le isole di Arbe e di Veglia, ma contestualmente si defilò l’Ammiraglio Enrico Millo, Governatore Militare della Dalmazia che fino ad allora aveva sostenuto al limite dell’insubordinazione le iniziative irredentiste provenienti dal Carnaro nei confronti del territorio dalmata. Il 24 dicembre le truppe italiane costrinsero a ripiegare su una linea difensiva più arretrata i legionari fiumani, il 26 un bombardamento navale e la ripresa dell’offensiva terrestre misero a dura prova i seguaci di d’Annunzio: il 28 alcuni notabili cittadini chiesero al Vate e ottennero di por fine alla resistenza, tanto più che in Italia la solidarietà nei confronti della loro causa si era ormai ridotta ai minimi termini.

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L’Italia al tempo di Wikileaks

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Gli attori

L’Italia non è una superpotenza e non potrà mai diventare tale, ma non è neppure uno stato piccolo, quindi non può limitarsi ad osservare in disparte ciò che sta succedendo nella vita internazionale. L’Italia è una media potenza e come tale è destinata a cercare continuamente una propria posizione tra le superpotenze di turno.

La Russia è una ex-superpotenza la quale, desiderosa di riprendersi le posizioni perse sullo scacchiere della politica internazionale dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sta riemergendo con una nuova forza, rimettendo in discussione gli attuali equilibri geopolitici.

Gli Stati Uniti sono una superpotenza che a seguito del passaggio del mondo da unipolare al multipolare deve far fronte al ridimensionamento della propria influenza nel mondo. E come insegna la storia le grandi potenze non lasciano senza combattere le proprie sfere di influenza.

Il contesto

Per una serie di motivi storici l’Italia per oltre mezzo secolo è stata influenzata dagli Stati Uniti nelle sue scelte di politica estera. Oggi, invece, in un contesto geopolitico mondiale non più bipolare e neanche più unipolare, ma quasi multipolare, l’Italia sembra si stia staccando dalla storica influenza statunitense mediante l’avvicinamento a un nuovo polo di influenza rappresentato dalla Russia. Ed è comprensibile che in tale situazione gli Usa non possono non mettere in atto azioni volte a conservare la loro influenza sull’Italia, come testimonia l’ormai famoso cablogramma pubblicato da “Wikileaks” del 26 gennaio 2009 in cui l’allora Ambasciatore degli Usa in Italia Ronald Spogli scrive: “Per attaccare frontalmente il problema, l’Ambasciata [Usa] ha messo in campo una vigorosa strategia diplomatica e d’affari pubblici diretta a figure chiave, interne ed esterne al Governo [italiano]. Il nostro scopo è duplice: istruire più profondamente i nostri interlocutori [coloro che non vedono di buon occhio l’avvicinamento italo-russo] circa le attività russe e dunque sul contesto della politica statunitense, e costruire a mo’ di contrappeso un’opinione dissenziente sulla politica russa, specialmente dentro il partito politico di Berlusconi.” Bisogna notare che l’Italia non è l’unico paese dell’Europa occidentale che si sta avvicinando alla Russia, basta guardare al crescente sviluppo dei rapporti tra la Russia e la Germania. Chiaramente, neanche questo rapporto è ben visto dal Governo statunitense, con la sostanziale differenza che mentre nel caso tedesco gli USA “non hanno potuto certo far nulla, in Italia, invece, hanno potuto contare sull’appoggio di una parte della stampa italiana. E se l’Italia si sta avvicinando alla Russia, ciò non vuol dire che stia rinnegando i rapporti con gli Usa perché, come riconosce lo stesso Spogli “i rapporti tra gli Usa e l’Italia sono eccellenti”.

I vantaggi

Tralasciando le polemiche circa gli interessi personali che entrerebbero in gioco nel rapporto Italia-Russia, cerchiamo, invece, di capire oggettivamente quali sono i vantaggi geopolitici che l’Italia potrebbe trarre dalla stretta collaborazione con la Russia nel campo energetico.

Prima di tutto gli impegni decennali tra Eni e Gazprom potrebbero garantire la stabilità nell’approvvigionamento energetico dell’Italia. Ma ciò non vuol dire diventare dipendenti dalla Russia. Infatti, sempre Spogli scrive che “l’Italia non è totalmente cieca verso il pericolo di diventare dipendente dalla Russia, in quanto essa comunque sta prendendo dei provvedimenti per prevenire l’aumento della percentuale dell’energia importata dalla Russia”; inoltre, “dopo il ritorno al potere, Berlusconi ha annunciato che avrebbe volto nuovamente il paese verso l’energia nucleare”. Spogli sottolinea il fatto che l’Italia, pur non avendo una precisa politica energetica, è tuttavia consapevole che “la vicinanza geografica alle risorse del Nord Africa la rende meno dipendente dalla Russia rispetto alla Germania o ai paesi dell’ex Blocco sovietico”. Secondo, l’Italia pur rimanendo negli ottimi rapporti con gli Usa ha bisogno di far capire a Washington che le sue decisioni riguardo alle scelte di politica estera non vanno contrastate attraverso le pressioni sulla politica interna italiana, ma vanno rispettate, così come avviene per gli altri paesi europei (come, ad esempio, la Germania).

Se l’Italia riuscirà a portare avanti una politica energetica autonoma dalle direttive degli Usa, farà un importante passo verso la conquista del proprio diritto a una politica estera indipendente. L’indipendenza nella politica estera potrà permettere all’Italia un giusto inserimento nei nuovi equilibri globali basato sulle proprie esigenze geopolitiche e non su quelle imposte dagli altri.


* Konstantin Zavinovskij è dottore in Lingue e comunicazione internazionale (Università degli Studi di Roma III)

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Cosa si nasconde dietro Wikileaks?

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Fonte: http://www.aldogiannuli.it/2011/01/cosa-si-nasconde-dietro-wikileaks/

Una rivoluzione nel mondo dell’informazione, un cambiamento epocale nel mondo delle relazioni internazionali, conseguenze straordinarie causate da un solo fenomeno: “Wikileaks”.

In realtà “Wikileaks” è un fenomeno che non è ancora stato confrontato con la realtà oggettiva.
Tralasciando il fatto che i segreti rivelati sono tutti segreti parziali, in parte già noti agli esperti del settore, restano ancora oscuri il suo modo di operare, la sua rete e i suoi finanziamenti. Nel momento in cui restano oscuri questi aspetti, non siamo in grado di valutare quali siano i reali cambiamenti epocali verso i quali questo fenomeno ci sta indirizzando.Se analizziamo la vicenda “Wikileaks” dal punto di vista informatico, considerando le modalità secondo cui è imputata di essersi procurata i documenti, possiamo individuare aspetti non chiari, alcuni dei quali possono determinare il nostro approccio a questo caso.

In questa analisi dobbiamo sempre considerare con attenzione tre dati fondamentali: la quantità elevata di documenti trafugati,il periodo di tempo esteso durante il quale questi documenti sono stati redatti e la loro provenienza da zone diverse del mondo.

Dalle informazioni diffuse abbiamo appreso che un soldato, Bradley Manning, è imputato di aver trafugato i documenti da una rete informatica segreta, normalmente utilizzata da alcuni enti governativi e militari statunitensi, e di averli successivamente passati al gruppo di “Wikileaks”.

Prima di analizzare questa teoria, è opportuno declassarne altre dal rango delle ipotesi attendibili.

Infatti, molto probabilmente le informazioni riguardo le modalità di trafugamento dei dati varieranno nel corso del tempo. Le modalità del furto restano uno degli aspetti fondamentali e mantenere un certo livello di incertezza a riguardo è un interesse diffuso sia da parte governativa che militare. Lasciare questi aspetti non del tutto ben definiti potrà inoltre rivelarsi estremamente utile in futuro, quando e se si deciderà di introdurre della legislazione limitativa della privacy o della libertà di comunicazione in rete.

Iniziamo con l’escludere il furto di dati tramite attività di intercettazione delle comunicazioni sia radio che satellitari. In questi casi la complessità degli apparati e delle procedure di funzionamento garantiscono un livello di sicurezza estremo, difficilmente violabile anche da apparati governativi e militari riconducibili a potenze straniere normalmente identificate come “ ostili ”.
La quantità di dati trafugati e la provenienza degli stessi da zone diverse del mondo, ci porta a considerare che un operazione di questo tipo sarebbe stata troppo complessa da porre e in atto, inoltre avrebbe dovuto estendersi per un periodo di tempo troppo lungo, aumentando esponenzialmente la possibilità di essere individuata e garantendo il tempo necessario per porre in essere le dovute contromisure.

Considerando inoltre che le informazioni trafugate, vista la quantità e le zone di provenienza, hanno sicuramente viaggiato per canali differenti e in periodi di tempo molto distanti fra loro.

Se per pura ipotesi volessimo accettare che fossero state tutte intercettate, occorre aggiungere che le trasmissione di dati su queste reti non avvengo in chiaro, ma crittografate, quindi i dati trafugati non sarebbero interpretabili.
La crittografia se ben implementata, come avviene nelle reti di comunicazione degli apparati governativi e militari statunitensi, garantisce un livello di sicurezza estremamente elevato. La decriptazione delle informazioni, in assenza delle apposite chiavi, che proprio per sicurezza non vengono trasmesse con le informazioni stesse, è un’operazione che in determinati casi nemmeno le reti di calcolo militari statunitensi, per i dati di cui disponiamo oggi, sono in grado di compiere.

Esistono specifiche procedure di implementazione di questa tecnologia, stabilite dalle preposte agenzie e sappiamo per certo che non vengono e non possono venir disattese.

Veniamo ora all’ “ipotesi Manning”, il quale, avendo accesso alla rete militare segreta, avrebbe effettuato un banale “copia e incolla” di una parte significativa del database.

Questa versione è difficilmente credibile, nonostante il parere favorevole di alcuni esperti, a dire il vero non troppo indipendenti dagli stessi enti governativi.
Tale versione non è compatibile con le procedure di sicurezza più elementari, oltre a quelle descritte e implementate dagli stessi enti governativi statunitensi.
Esistono diversi manuali resi pubblici, prodotti da preposte agenzie governative statunitensi: decine di migliaia di pagine descrivono numerose norme e procedure di sicurezza informatica estremamente complesse, studiate per intervenire a diversi livelli e gradi.

La “ipotesi Manning” prevede invece il caso diametralmente opposto: l’insicurezza diffusa, provocata dalla disattenzione verso una quantità enorme di procedure, alcune fra le più banali.

Questa ipotesi produce la visione di una delle reti più importanti e segrete degli Stati Uniti come estremamente vulnerabile, insicura a tal punto che in determinati casi non sarebbe in grado nemmeno di garantire gli standard di sicurezza di una rete commerciale.

Inoltre accedere alla rete non significa accedere a tutti i dati che la rete stessa detiene.
I documenti, tanto più se segreti o confidenziali, sono catalogati e mantenuti in appositi database, ospitati su server dedicati, ai quali è possibile accedere solo attraverso il rispetto di scrupolose procedure.

Assumiamo, come sostengono alcuni, che i documenti all’interno di questa rete, un volta effettuato l’accesso, siano detenuti in modalità non crittografata. Anche in questo caso le normali procedure di sicurezza stabiliscono che l’accesso alle stesse informazioni è regolamentato da specifiche policy studiate ad hoc, per garantire l’integrità e la sicurezza dei dati stessi.

Occorre fornire delle credenziali per poter accedere ai dati, credenziali studiate e garantite solo per l’accesso alle informazioni strettamente necessarie all’espletamento dell’attività posta in essere dal richiedente. Molto spesso sono variate da esperti terzi, in funzione delle richieste che devono essere a loro volta giustificate e accreditate.

Inoltre le credenziali variano in base alle diverse tipologie di utenza.

Esistono poi tecnologie di tracciamento e monitoraggio delle operazioni svolte sui database che intervengono automaticamente ad impedire attività proibite come la compromissione dei dati, la variazione indiscriminata e casuale, la manipolazione e la copia di un’ampia quantità degli stessi.
Gli apparati informatici che dispongono dell’ accesso a tali database, contenenti informazioni con diversi gradi di riservatezza, debbono essere vincolati da forti limitazioni all’accesso di periferiche proprio per impedire la copia non voluta dei dati.

Inoltre deve essere proibita, all’utilizzatore, l’installazione di software commerciali e di terze parti, se non in maniera assoluta, almeno parziale; l’intero software installabile deve essere approvato e deve sottostare alle complesse procedure di sicurezza previste. Ricordiamo che Manning è accusato anche di aver anche installato questo genere di software non certificato.

A conferma di ciò occorre considerare che, dai dati emersi negli scorsi anni, questa rete sarebbe accessibile da un personale numericamente elevato, stimato in più di tre milioni di persone.  Per garantirsi un livello di sicurezza accettabile le policy minime di sicurezza descritte in precedenza debbono obbligatoriamente essere implementate.

Allo stesso modo, l’ipotesi di una attacco hacker condotto da un gruppo legato a “Wikileaks”, si scontrerebbe con i medesimi problemi dell’ “ipotesi Manning”, oltre che con altri ben più complessi. Ipotesi quindi ancor meno attuabile e ancor più remota, se condotta da personale non appartenente ad organismi militari.

In via definitiva emergerebbe che, o questa rete segreta governativa è meno sicura di quella di una media azienda o di un’ università, insicura a tal punto da non poter essere nemmeno certificabile secondo gli standard internazionali e gestita disattendendo le principali procedure di sicurezza, stabilite dalle medesime agenzie governative, oppure che il “caso Manning” così come ci è stato raccontato non corrisponda alla realtà.

A questo punto, se assumiamo la seconda ipotesi come più probabile ci troviamo di fronte a due strade. La prima ci porta a credere che la fuoriuscita dei documenti sia stata pilotata da enti o funzionari appartenenti agli stessi Stati Uniti, al fine di influenzare determinate scelte politiche su scala globale. La seconda ci porta a considerare l’ipotesi di un attacco informatico alla rete militare statunitense, ben orchestrato e attuabile solo da chi detiene elevate capacità in materia, come la Cina.

L’unica certezza è che Wikileaks non sarebbe quel fenomeno straordinario che ci è stato fatto credere ma, un semplice strumento dietro al quale si cela un gioco strategico ben più complesso.


Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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The importance of Russia to Italy

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Source: “Eurasia”, Italia review of geopolitics, no. 2/2010


Ten centuries of indifference

In 1472 the Gran Prince Ivan III of Moscow, forthcoming gosudar’ (monarch) of all Russia, married a Byzantine princess, Sophia (Zoe) Palaiologina, Constantine XI’s niece, the last emperor of the Eastern Roman Empire deceased nineteen years earlier on the walls of Constantinople after being assaulted by the Turks.

For the occasion, Ivan III assumed the double-headed eagle, the imperial court ceremonial, and the title of Tsar (car’ according to the current transliteration) from “Caesar”, a Roman Emperor heritage that had been handed down until its end in 1453.

It is no surprise that during those same years the legend of the Roman descendance of the Moscow princes was spread in Russia, along with the “Third Rome” theory – Moscow indeed – as the successor of the original and the second Byzantine Rome1.

According to the legend Augustus had split up the empire sharing it with relatives (by the time this story was thought it was common to consider the State as a monarch’s property, and such conception was stated during the classic period as well) making his brother, named Prus, leader of the Vistula’s rivers. After fourteen generations, Rjurik, the Viking who started the Rurik dynasty to which Ivan III belonged, will be born. The third Rome theory, born during the XV century, had been completely formulated only five years after Ivan III’s death, when in 1510 the abbot Filofej wrote a letter to the Tsar Vasili III with the famous sentence «Two Romes have fallen, but the third one stands and there will be no fourth»2 .

A few years after his wedding with Sophia, Ivan III sent his agent to Venice, his goal was to invite to Moscow Italian architects and distinguished people: between those who accepted were Aristotile Fieravanti, Aloisio of Milan, Marco Ruffo and Pietro Antonio Solario.

In a few years Fieravanti built the Cathedral of the Annunciation. Ruffo, Solario and other Italian architects concurred to build the Kremlin, constructing the Palace of Facets and various towers.

It was just the vanguard, since the Italian contribution on the Russian architecture went on for centuries.

There are excellent monographs on this subject3, we’ll mention only some other examples, such as Bartolomeo Francesco Rastrelli (1700-1771), author of the Winter Palace, of the Smolny Institute in Saint Petersburg and the Palace of Tsarskoye Selo (today Puškin), and Giacomo Quarenghi (1744-1817), well known for the Hermitage Theatre (Saint Petersburg).

Despite these significant cultural relationships – mostly one way actually – for many centuries those politics were not as considerable, if we don’t consider the relationship between the Papal Rome and the Orthodox Moscow, mainly religious and not very peaceful. It’s easy to identify the reason why the political relationship between Russia and Italy for almost a millennium was non-existent. Between the IX to the XI century the Kievan Rus’ had been a State that linked through the north-south river course the Baltic Sea to the Black Sea, and did not face west. During the same period, the Kingdom of Italy of Lombard-Carolingian origins was in a deep institutional crisis, and even in the south the Byzantine control had severe troubles leaving room to secession attempts: there was no time for thinking about foreign countries if not for the fear of possible invasions. Between the XIII century and the age of Ivan III the Russian principates had to go under the Mongolian Golden Horde, directing towards east; in the same period in Italy the imperial hegemony attempt failed causing an extreme political break, especially in the centre-north area of the country: the Italian “foreign” policies aimed to ask for military help to close cities, national leagues of Guelphs and Ghibellines and to other near military powers. While Muscovy found its way out of the Mongolian control and reunified the Kievan Rus’, finally becoming an important European country, Italy, since Charles VIII’s coming, goes into its dark ages when the peninsula becomes battlefield and land of conquest for big foreign military powers. In those thousand years between the birth of Rus’ and the Napoleonic age, Russia’s history is about the rise of a powerful nation and the Italian history is about the decline of an important nation, although even Moscow didn’t have the strength to look away from its region. Therefore, while Italy focused on internal fights, the Kremlin took care of the Russian reunification not going beyond Ukraine and Belarus, expanding mostly towards east, in the exciting Siberian Cossacks’ run between ‘500 and ‘600. In those conditions, the two national histories could not encounter, except for the cultural gaze exchanges that we briefly mentioned before.

Italy discovers Russia

In the struggle against Napoleon’s France Russia under Alexander I gained the title of Europe’s great power. Italy could not ignore its importance anymore, whereas Moscow didn’t need to attach importance to our weak and divided peninsula: hence why Italy started to “discover” Russia in early 800’s, but it took a longer time before Italy could be viewed in the same way.

As we’ll see, we could assert that Moscow, in its Soviet period, did not completely discover Italy.

For about a century, this “discovery”, wasn’t exactly appreciated by the Italian. Russia, considering its role in the Holy Alliance, was constantly hostile to the Italian reunification process – although its reunification was gladly accepted by the Russian intellectuals. More than fifty thousand Italians (both northerners and southerners) joined the great Napoleon’s Russian campaign, mostly in the fourth corps commanded by the Vice-King, foster child of the Emperor, Eugène de Beauharnais. These fifty thousand men faced the same tragic fate as most of the Grande Armée, but only after being covered in glory at Borodino.

In 1849 the Russians concurred to the defeat of the revolutions of 1848 invading Kossuth’s Hungary; helping the Habsburgs, indirectly facilitated their Italian campaign, even though in the peninsula, during the Hungarian campaign, the revolution was already dying.

A few years later the Habsburgs, showing ingratitude, sided against the Romanovs in the Balkan area. This could have made the Russian Empire a potential ally for the Italian Risorgimento, considering the common hostility towards Austria, but the geographic distance, the diplomatic isolation of Moscow and the poor history of the diplomatic relationships between the two countries drove the Count of Cavour to not even consider this hypothesis, deciding instead to aim at London and Paris. In 1855, the Count of Cavour chose to give a positive answer to the requests of the two western powers, though the public opinion and his same cabinet didn’t feel the same way, sending Piedmont soldiers to fight in Crimea against Russia and, as a consequence, in favour of Vienna which diplomatically endorsed the intervention. Though the Crimean war is usually portrayed as a Count of Cavour’s “diplomatic masterpiece”– whom turned the Italian issue into a matter of International politics, rather than a public order question – the British historian Denis Mack Smith raised various doubts, asserting that the intervention was forced by Vittorio Emanuele II and at the Congress of Paris «the results were disappointing», enough to lead the Count of Cavour to hope «to find an alley in the defeated Russia»4.

Actually Italy went on looking at the western powers, and after the unification – when our country’s goals aimed at the Balkans – Russia became a political “competitor”. The concern towards the Russian-German-Austrian Dreikarserbund, potentially able to cut Italy out of the Balkans matter5, led our nation to approach Germany, and the crisis between the three Emperors coincided with the birth of the Triple Alliance. In other words, Italy replaced Russia in the Austrian-German alliance system.

Only in early 900’s Italy started to discover Russia on a different perspective, not like a far threat but rather like a potential friend.

Russia as a diplomatic counterbalance

Italian diplomatic history is made of balances and counterbalances, allies and “friends”. It is understandable considering that it has been the last of the great powers, and that since 1943 it is just a middle power. Rome has always bound itself with powerful allies, under whose shield it could lead its politics; in the meanwhile, not to surrender to its senior partner, Italy tried to endorse a different power, a “friend” rather than an ally, in order to take advantage of this triangulation to gain autonomy.

The Risorgimento was made under the Second French Empire’s protection but Piedmont kept tight relationships with England. Without this second reference point the Italian history would have been different. Napoleon III promoted the Sabaudian crown’s expansion towards the northern area of Italy, in order to move against the Habsburgs, but in its strategic plans it would have been just a French satellite state, just like the other two Italian kingdoms that would have been born in the centre and the south of the peninsula. The English, instead, did not sympathize with Austria but they were even more afraid of the French expansion, therefore they decided to support in a crucial way a further Sabaudian expansion until the creation of a unified Italy, which would have been useful to check France in the western Mediterranean.

After 1871, with the fall of the Second Empire and the launching of a clerical republic in France, Rome had to give up the alliance with Paris and, after an excessive hesitation, it aimed for an alliance with Germany. The Italian diplomacy hoped to raise England to the status of ally, but it didn’t become more than a “friend” keeping its role of counterbalance. The Italian experience in the Triple Alliance could be compared to a wave: the tide raised until it reached the top with Crispi’s presidency; then it broke against Adua’s rock and started to flow again. It was during this period, characterized by an open, dynamic and partially inconsistent diplomacy of Italy – between the Austrian-German allies and the French-British “friends”– that Rome concluded its first formal agreements with Russia.

Around 1907 the Russians and the British reached an arrangement about the tensions in Asia (Persia, Afghanistan etc.). Since Moscow became “friend” of our “friends”, Rome tried to approach to it as well signing commercial agreements first. With the Bosnian crisis in 1908 the Ministry of foreign affairs Tittoni tried to come to an Austrian-Italian-Russian agreement in the Balkans, but Berlin’s intervention to back up Austria stopped the plan, making Vienna particularly self-confident and leaving Moscow hesitant. The following year though Russia took the initiative.

On October 24th 1909 the Tsar visited the King in Racconigi: the Ministry Aleksandr Isvolskij introduced an agreement draft to Tittoni and, to avoid possible hesitation by the Italians, he showed a copy of the declaration of neutrality between Austria and Russia in 1904: it was kept secret since it was obviously addressed against Italy. Even the Racconigi treaty was drawn in secret, and it was planned for Italy and Russia to keep the status quo in the Balkans and, if it was impossible, to facilitate the birth of national states instead of the imperial expansion of external countries (such as Austria-Hungary). The Treaty, immediately followed by another bilateral agreement with Vienna (Italy continued to adopt the “allies and friends” policies) didn’t limit to just the Balkan area: Rome agreed to support the Russians on the straits of Bosporus and Dardanelles in return for allowing them the occupation of Cyrenaica and Tripolitania. As Sergio Romano writes, «The promise of Racconigi showed that Italy was ready to increase the number of players to reduce the Anglo-French hegemony» in the Mediterranean6. For the first time, Russia was in the game of balances and counterbalances of the Italian diplomacy.

The big military conflagrations always represent a negative event for the disvantaged powers, and this is the case of Italy during its entire modern unitary history. With the beginning of the Great War, Rome was forced to side one of the two coalitions in war – and predictably it chose to support the one that could have represented a bigger danger7. Being by Russia’s side, in this situation, was a coincidence after all: because actually Italy lined up with the French and the British. The Tsar’s Empire could have been useful after the war, if it didn’t anticipate the fate of the three big defeated empires that had been broken up and brutalized by the greedy and vengeful Versailles’ politics. Italy ended up alone, with three strong allies – France, England and U.S.A. – and no “friend” able to help her. The French and the British – even for the lack of immediate threats, and so a scarce need to be in a good relationship with Italy – showed to not be keen to give a hand in the Balkans, in the Mediterranean and in Africa, lands that could increase the Italian power and become a threat for them. Wilson, strongly disliked the Italian diplomacy, and was a further obstacle rather than helpful: after him the U.S. adopted a political isolation, and Rome remained alone, Cinderella amongst the two evil sisters, not to mention stronger than her, willing to keep it as a junior partner in the triad (to restrain Germany and communism) – but surely nothing more than that. So we can interpret the acknowledgement of the USSR by Mussolini on February 7th 1924 (one of the first European governments to do it) in the light of the pattern we mentioned so far. Without Germany, the Soviet Union was viewed as the “friend” able to be a counterbalance with the allies8. This didn’t last long though, first for Mussolini’s hesitations to side against “the western demo-plutocracies”, and second for the return of Germany in the international scene, which became the new point of reference on its foreign policy. During the World War II Mussolini sent Italian soldiers for the third time – after Napoleon and Cavour – to fight against Russia; and like the previous two times, the Italian didn’t follow own geopolitics interests to do this, they just entrusted themselves to the ally which decided and guided the war. It’s well-known that Hitler didn’t even consult with Mussolini before launching the “Operation Barbarossa”, that ended up to be the turning point for the war, but not in the meaning that Führer wished.

After the defeat, but before the end of the war, the importance that the Soviet Union was having in the international politics, and that it could have in the Italian foreign policy, was clear to everybody.

The Italian Kingdom, during the conflict, was subject to an Anglo-American control commission. Renato Prunas, able and daring General Secretary Ministry of foreign affairs (de facto minister, since titular of the department was prisoner of the German), decided with Badoglio to increase their negotiation abilities involving the USSR in the game: in the winter 1943-44 he started negotiating with Andrej Vyšinskij leading in March to regular diplomatic relationships between the Italian Kingdom and the USSR. The problem was that Moscow, by then, didn’t “discover” Italy as a functional geopolitics element and, as we’ll see, this condition lasted during the following decade as well, compromising the attempt of the Italian approach; also, being Italy in the western sphere of influence, the Soviet decided to not deal with the diplomacy but only with the communist party9. In this circumstance the Kremlin, which only expected from this agreement to send a message to the Anglo-Americans, treated with an extreme coolness the Italian ambassador, Pietro Quaroni, in Moscow. The Roman diplomacy was soon to receive a cold shower by the Soviets. In the post-war period broad sectors of the Italian diplomacy and politics had strong doubts about the atlanticist choice of the Prime Minister Alcide De Gasperi and his Ministry of foreign policy Carlo Sforza. In particular Manlio Brosio, expert liberal politician who in late 1946 replaced Quaroni as ambassador in Moscow, pleaded the neutralist choice, hoping that Italy could get better with a new “decisive weight policies”: like a beautiful woman who keeps the two admirers on tenterhooks, gaining even more attentions from the suitors, Rome had to stay in balance between the two arrays and enjoy that privileged position. Actually though, it was impossible because the Soviets took for granted that Italy had to be in the US spheres of influence: therefore they didn’t show interests towards Brosio’s project, willing to have a “popular diplomacy” with Italy through the local communist party10. Brosio, given the Soviets’ indifference, ended up to convert himself into to the atlanticism, becoming also General Secretary of the NATO between 1964 and 1971.

The idea of establishing friendly relationships with the USSR to use it as counterbalance for the powerful and intrusive North-American ally and gaining room for independent actions (especially in the Mediterranean) remained a constant presence in the Italian ruling class. The “new-atlanticist” wing, against the “orthodox atlanticists”, carried on such project. In early 1956 the President of the Italian Republic Giovanni Gronchi started to converse with the Soviet ambassador about the chance of finding a peaceful solution on the German matter, promoting the confederal union of the two union and their neutralization. The Soviets were interested, but the orthodox atlanticists Segni and Martino – respectively Prime minister and Ministry of foreign policy – intervened to stop, here as in other situations, the presidential diplomacy. Washington didn’t like the solution Gronchi suggested, because in 1954 it included West Germany in the NATO launching its rearmament with anti-Soviet purposes (as a response to that act, in 1955, the Warsaw Pact was made).

In February 1960 Gronchi went to visit Moscow, hoping to open the conversation on the German matter and on the relationships between the two coalitions but, surprisingly, during a reception at the embassy Nikita Chruščëv publicly humiliated him, in a further proof of how little the Soviet cared of the Italian diplomacy. Chruščëv, showing a lack of tact, blamed the Italians for the «criminal action» of the decade before and comparing the scientific Soviet achievements (the Sputnik just landed on the moon) with the unemployment of our «burgeois state». The Prime Minister Amintore Fanfani had more luck in August 1961, when he went to Moscow; although, Chruščëv didn’t acknowledge the role of Italy as a possible mediator between USA and USSR, and while Fanfani was going back to Italy, Chruščëv decided to solve the German matter with the building of the Berlin wall. As a matter of fact, since then Rome gave up on actively looking for a friendship with Moscow, focusing its autonomy expectation on the Mediterranean and showing a certain loyalty towards Washington in the confrontation with the USSR.

The end of the two-way contrast put the Italian foreign policy in crisis: without an European enemy for the USA, there is no opportunity to enhance its contribution in the alliance. The only solution is the one Italy adopted in the past: trying to counterbalance the ally’s power with a strong “friend”.

The revival of the Russian Federation with Putin clearly shows the way to the Italian diplomacy more aware of the geopolitical role that our country holds. The friendly relationships established with Moscow by the present Italian government make us hope that this requirement has been understood.

Russia as Energy provider

It can not remain unsaid that the most successful Italian visit in the communist Russia, in spite of Gronchi and Fanfani, was Enrico Mattei’s visit. During November 1957 the ENI’s executive signed the first agreements with Moscow for the Soviet oil imported to Italy, in return for digging tools and for crude oil transportation equipment.

During the 70’s, after a sudden oil price soar decided by the OPEC, the Italian government tried to hold the fright by increasing the use of natural gas in the national energetic consumption. For that reason the USSR, along with Libya and Algeria, became a privileged country, and the agreements reached with Mattei were even reinforced.

Italy in the European Union, with an energetic gross consumption of 186,1 millions of tonne of oil equivalent (mtoe)11 , comes only after Germany (349), France (273,1) and United Kingdom (229,5). In terms of gross importations12, Italy overtakes the two western countries with 164,6 mtoe getting close to Germany (215,5). In the energy dependence ranking, or rather in a ratio of importations and gross consumption, Italy 86,8% overtakes all the other big European countries, like Spain (81,4%), Germany (61,3%), France (51,4%) and UK (21,3%), ending up to be behind only small countries like Cyprus, Malta and Luxembourg (which are fully dependent) and Ireland (90,9%)13. It’s interesting to notice that the dependence datas are increasing: In 2004 it was the 84,5%14. Though Italy is the fifteenth energy consumer in the world, it’s also the ninth major energetic importer. Oil and natural gas dominate the supply of primary energy in Italy, therefore even the sight of its importations (added up to the 85% of the total): the country is the seventh major importing country of oil in the world, and the forth major importer of natural gas15.

In this perspective Russia, major energy provider, becomes fundamental in the Italian geopolitics. Rome needs to keep friendly commercial relationships with Moscow to preserve the transits of Russian hydrocarbons to our country: therefore it’s easy to explain the choice the ENI made to cooperate with Gazprom, and in particular with the construction of the South Stream gas pipeline, that bypass the unstable western Europe. This factor adds up to the need of a diplomatic counterbalance in the attempt to suggest, without any doubt, Russia as one of the necessary pillars of the Italian foreign policy in the XXI century.

(Translated by Giuliano Luiu)



1. Cfr. Nicholas V. Riasanovsky, Storia della Russia. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 200310, pp. 113-114.

2. Ibidem, p. 132.

3. See also: Ettore Lo Gatto, Gli artisti italiani in Russia, 3 voll., Ministero degli Affari Esteri, Roma 1934-1943.

4. Denis Mack Smith, Il Risorgimento italiano, il Giornale, Milano 1999, pp. 296-297.

5. Fundamental on this subject Brunello Vigezzi, L’Italia dopo l’Unità: liberalismo e politica estera in Idem, L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla

Repubblica, Unicopli, Milano 1997, pp. 1-54.

6. Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana. Da Badoglio a Berlusconi, Rizzoli, Milano 20062, p. 20.

7. Cfr. Marcello de Cecco, Gian Giacomo Migone, La collocazione internazionale dell’economia italiana, in Richard J.B. Bosworth, Sergio Romano (a cura di), La politica estera italiana / 1860-1985, Mulino, Bologna 1991, pp. 147-196.

8. Michele Rallo’s considerations partially move this way, Il coinvolgimento dell’Italia nella Prima guerra mondiale e la “Vittoria mutilata”. La politica estera italiana e lo scenario egeo-balcanico dal Patto di Londra al Patto di Roma, 1915-1924, Settimo Sigillo, Roma 2007. See also Manfredi Martelli, Mussolini e la Russia, Mursia, Milano 2007.

9. Cfr. S. Romano, Guida alla politica estera italiana, cit., pp. 26-27.

10. Cfr. S. Romano, Guida alla politica estera italiana, cit., pp. 68-69.

11. Or rather: primary productivity + importations – exportations.

12. After-tax importations of the exportations.

13. All these datas are from Europe’s Energy Portal: <http://www.energy.eu/>.

14.<http://ec.europa.eu/energy/energy_policy/doc/factsheets/country/it/mix_it_it.pdf>.

15. <http://tonto.eia.doe.gov/country/country_energy_data.cfm?fips=IT>.

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Nucleare sì, nucleare no: gli effetti delle radiazioni

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In un precedente articolo, ci siamo concentrati sui problemi del settore elettrico italiano (1); la domanda che ci siamo posti era: quale sarà il contributo dell’ energia nucleare nel farvi fronte? Per rispondere, abbiamo affrontato il lato puramente economico del problema.

Ciò che più preoccupa l’opinione pubblica, però, sembra essere il rischio che questo tipo di produzione comporta per la salute umana. Per completezza, non si poteva non dedicare un contributo a quest’intricata questione.

Le fonti ufficiali: istruzioni per l’uso

Quando si ha a che fare con un problema così controverso, e disponendo di conoscenze limitatissime, l’unica cosa da fare è rivolgersi alle fonti ufficiali: agenzie ONU, OECD, Commissione Europea.

È all’interno di quest’ultima, infatti, che è stata portata avanti una delle più accreditate e imponenti iniziative in questo senso: il progetto ExternE, Esternalità dell’Energia, uno studio che mira ad analizzare gli effetti della produzione energetica, sull’ambiente, sul surriscaldamento globale, sulla salute umana. Anche i documenti pubblicati in seno all’OECD fanno riferimento a quest’ultimo.

La figura 1 è tratta da uno studio sull’energia nucleare pubblicato dalla NEA (Nuclear Energy Agency, facente capo all’OECD). L’impatto dell’inquinamento è misurato in termini di anni di vita persi, e la generazione elettronucleare è confrontata con altri sette tipi di impianti di produzione elettrica. Questo calcolo sembra andare a favore del nucleare, nettamente meno dannoso delle altre tecnologie.

Figura 1 Mortalità associata all’attività ordinaria in Germania

Questo risultato sembra non convincere gli antinuclearisti. Per capire perché, siamo risaliti direttamente alla fonte, cercando di capire anzitutto le modalità di analisi che hanno portato a questa conclusione.

L’approccio analitico

La metodologia utilizzata nell’ambito del progetto ExternE è il risultato della combinazione di due approcci diversi: l’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA) e l’approccio del sentiero di impatto (Impact Pathway Approach).

In un’ottica di LCA, lo studio non si limita ad analizzare gli effetti prodotti dalle operazioni che avvengono all’interno dell’impianto nel momento in cui si produce elettricità; l’analisi, al contrario, tiene conto di tutte le fasi relative alla costruzione dell’impianto, alla produzione del combustibile e all’eventuale smaltimento, all’estrazione delle materie prime, e così via.

Per la catena di energia nucleare, in particolare, si tiene conto di otto fasi principali: estrazione dell’uranio; macinazione; conversione; arricchimento; fabbricazione del combustibile; produzione di elettricità; smaltimento dei rifiuti a livello di bassa e media attività; riprocessamento e smaltimento dei rifiuti ad alto livello di attività o smaltimento del combustibile esaurito. La valutazione tiene conto anche della costruzione di impianti e infrastrutture, del funzionamento e dello smantellamento, e delle fasi intermedie di trasporto delle materie radioattive e dei rifiuti.

Solo in un secondo momento, si procede ad elencare i possibili fattori di impatto sull’ambiente o sulla salute umana (“fattori di stress”), come ad esempio emissioni nell’atmosfera, produzione di rifiuti solidi, rilascio termico, uso del suolo, etc…

In generale, viene analizzato il rilascio di sostanze (ad esempio, le polveri sottili) o energia (radiazioni, rumore) nell’acqua, nell’aria, e nel suolo. Questi tre elementi sono considerati dei media, poiché le sostanze e l’energiaviaggiano” attraverso di essi, raggiungendo l’uomo sia in modo diretto (ad esempio, con l’inalazione) che indiretto, attraverso al catena alimentare. L’approccio del sentiero di impatto consiste appunto nel “seguire” il percorso di questi materiali attraverso l’ambiente, eventualmente grazie a modelli preesistenti.

Dal calcolo della concentrazione degli agenti inquinanti nella regione, quindi, si risale ad una stima del’esposizione del pubblico ai fattori di stress; infine si passa a calcolare i danni che ne conseguono.

Quest’ultimo passaggio è effettuato tramite l’utilizzo di una funzione dose-risposta, ovvero di una funzione che associa la quantità di un agente inquinante che raggiunge il recettore (la popolazione) all’impatto fisico su quest’ultimo (ad esempio, il numero di morti).

Per ottenere dei risultati affidabili, quindi, è necessario che questa funzione sia nota per tutti gli agenti inquinanti presi in considerazione. Condizione, purtroppo, non sempre vera.

Anzitutto, l’entità dei danni varia al variare di alcuni fattori specifici del sito, come ad esempio il tempo di esposizione, ma soprattutto la densità di popolazione attorno al sito.

Altre difficoltà possono riguardare la scelta della scala geografica e temporale, la scarsa quantificabilità di alcuni effetti, o i metodi utilizzabili per la stima.

Generalmente, inoltre, non è possibile effettuare un’osservazione degli effetti senza una considerevole quantità di emissioni. Sorge quindi il dubbio che esista una soglia critica, al di sotto della quale non esistano conseguenze per l’organismo, oppure che al contrario la relazione tra danno e assorbimento sia più simile ad una funzione lineare. Per il nucleare,

si utilizza un modello di relazione lineare senza soglia critica: si assume che l’effetto biologico sia perfettamente proporzionale alle radiazioni a cui si è stati esposti.

Il calcolo in pratica

All’interno del progetto ExternE, si è scelto di analizzare, per ogni fase della catena energetica, una specifica tecnologia ed uno specifico sito. Per il nucleare, in particolare, ci si è rivolti agli impianti francesi, con alcune astrazioni di fondo.

Per il calcolo dei danni, ad esempio, sono stati utilizzati i coefficienti di rischio riconosciuti dalla Commissione Internazionale per la Protezione Radiologica (International Commission on Radiological Protection, ICRP).

Per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi di alto livello, inoltre, sono state effettuate delle ipotesi generiche, in quanto nessuno di questi impianti è attualmente in funzione in Europa. Ancora, per la stima degli effetti degli incidenti che potrebbero verificarsi durante il trasporto, l’analisi è stata circoscritta al rilascio delle sostanze più pericolose.

Per i dati mancanti, infine, si è preferito ricorrere a dati generici forniti dal Comitato Scentifico sugli Effetti delle Radiazioni Atomiche delle Nazioni Unite (United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation, UNSCEAR, 1993).

Per calcolare gli effetti dell’assorbimento delle radiazioni, si tiene conto di effetti radiologici come il cancro e le patologie ereditarie. Gli indicatori utilizzati sono le morti, le giornate di lavoro perse, le disabilità permanenti.

I risultati

L’assorbimento di radiazioni da parte dell’organismo è misurato in termini di dose equivalente o di intensità di dose equivalente.

La dose equivalente è una grandezza fisica che misura gli effetti biologici e il danno provocato dall’assorbimento di radiazioni su un organismo o su un determinato organo o tessuto. Si tratta di misurare la dose assorbita e di assegnarvi un peso a seconda delle conseguenze per l’organismo, che variano a seconda del tipo di radiazione in questione.

L’intensità di dose equivalente, invece, è definita come la dose equivalente ricevuta nell’unità di tempo (o tasso di dose), ed è misurata in sievert al secondo (Sv/s). Infine, quando si utilizza un modello lineare senza soglia critica, la misura della dose collettiva di una popolazione è il man-sievert (man.Sv).

La dose collettiva totale imputata agli impianti francesi ammonta a 13 man.Sv per un TWh. Il 93% di questa dose si riversa globalmente, ovvero oltre i 1000 km, ipotizzando che la popolazione mondiale si mantenesse costante sui 10 miliardi di persone, per un periodo di 100.000 anni. Il 4% della dose è assorbita dai lavoratori, mentre il 2% colpisce il pubblico locale (a meno di 100 km di distanza) e l’1% il pubblico regionale (fra i 100 e i 1000 km di distanza).

Al netto della dose globale, l’assorbimento di radiazioni da parte del pubblico locale (25%), regionale (19%), e dei lavoratori (56%) ammonta a 0,9 man.Sv per un Twh.

In termini più pratici, questi dati si tradurrebbero, per ogni TWh prodotto, in: 0,65 tumori mortali: 1,57 tumori non fatali; 0,13 gravi effetti ereditari, registrati su tutta la popolazione mondiale. Per i lavoratori del settore nucleare, invece, si stima che la produzione di 1 TWh porterebbe a 0,02 morti, 0,96 disabilità permanenti e 296 giornate lavorative perse.

Per farsi un’idea delle dimensioni del problema, la produzione di energia nucleare nel mondo, nel 2009, ammontava a 2558 TWh, di cui 391,7 in Francia. Eseguendo dei semplici calcoli, si può concludere che, nello stesso anno, fra i lavoratori del settore nucleare francese dovrebbero essere state registrate circa 7 o 8 morti. Ma, stando ai calcoli effettuati dagli studiosi coinvolti nel progetto, l’impatto sui lavoratori sarebbe dovuto in misura maggiore a incidenti di tipo non radiologico.

Al di là della teoria: le statistiche

Per quanto rassicuranti, queste stime non convincono fino in fondo. L’approccio utilizzato richiede di effettuare numerose astrazioni, risente della mancanza di dati e di informazioni precise. Di fronte a queste difficoltà, è naturale chiedersi se non si farebbe prima ad effettuare un semplice calcolo statistico delle manifestazioni tumorali nelle popolazioni insediate intorno alle centrali. Studi di questo tipo esistono, ma finora non sono stati ritenuti statisticamente significanti.

Uno dei primi esperimenti in tal senso, ad esempio, si ebbe nel Regno Unito alla fine del 1980: questo studio rilevò un’aumentata incidenza di leucemie infantili nei pressi degli impianti nucleari. Il Comitato sugli Aspetti Medici delle Radiazioni nell’Ambiente (Committee on the Medical Aspects of Radiation in the Environment, COMARE), però, concluse che l’esposizione alle radiazioni non fosse sufficiente a produrre danni di tale portata.

Mancanza di significatività, però, non vuol dire mancanza di correlazione: significa semplicemente che la correlazione potrebbe essere dovuta (con probabilità del 5-10%) a fattori casuali.

Nel 2002, la German radiation Protection Agency, commissionò uno studio sui tumori infantili nei pressi delle centrali nucleari, lo studio KiKK (Kinderkrebs um Kernkraftwerke).

La relazione finale, presentata nel 2008, rivelò che, nei bambini che vivevano a meno di 5 Km dalle centrali, si era registrato un aumento di 1,6 volte nei tumori “solidi” (non ematici, che colpiscono organi solidi) ed un aumento di 2,2 volte nelle leucemie. Uno studio ritenuto significativo, soprattutto data l’ampiezza del campione (16 reattori e 2185 patologie).

I risultati del KiKK furono irrobustiti, inserendo nello studio i dati provenienti da 17 articoli precedenti. In questi studi venivano analizzate le popolazioni attorno a 136 siti nucleari nel Regno Unito, in Canada, in Francia, negli Stati Uniti, in Germania, in Giappone e in Spagna. Nei bambini fino a 9 anni, i tassi di mortalità per leucemia registrati erano più alti

del normale, di circa il 5-24%. Nella relazione finale del KiKK, però, quest’ultima parte dell’indagine non venne citata.

Alcune possibili spiegazioni

Alla base dell’aumento del rischio di cancro potrebbero esservi almeno quattro fattori: irraggiamento diretto (raggi gamma e neutroni) dal reattore; radiazioni elettromagnetiche provenienti dalle linee di alimentazione in prossimità delle centrali; emissione di vapori dalle torri di raffreddamento; rilascio di sostanze radioattive nell’ambiente (ad esempio, il radiocarbonio).

I risultati dello studio sono stati sottoposti ad un test statistico, in modo da confermare la relazione di causalità fra la vicinanza alle centrali e le manifestazioni tumorali. Il test ha ottenuto un risultato positivo.

Resta comunque aperto il problema della coerenza con lo conoscenze esistenti: tuttora, si ritiene che i rilasci di radioattività siano troppo bassi per causare un così alto innalzamento del rischio di cancro. È per questo motivo che, nella comunità scientifica, la questione rimane aperta.

Così facendo, però, si respinge la possibilità che le stime in questione siano semplicemente errate, incerte, o inaffidabili.

All’indomani della pubblicazione del KiKK, infatti, sono state avanzate una serie di ipotesi che ne spiegassero i risultati. Una di queste riguarda l’assorbimento delle radiazioni nel periodo della gravidanza. Le pubblicazioni ufficiali in materia di radioprotezione, infatti, non tengono in considerazione i rischi a cui sono sottoposti specifici organi e tessuti embrionali durante la gestazione.

Oltre ad un’elevata incidenza di tumori infantili, infatti, il KiKK ha rivelato un aumento dei cancri embrionali: la maggior parte delle emissioni radioattive sono costituite da radiocarbonio e trizio; queste sostanze, una volta rilasciate nell’ambiente, si combinano con gli atomi stabili di idrogeno e carbonio. L’ interazione con le cellule prodotte nella formazione degli embrioni può portare a formazioni tumorali, anche dopo qualche anno dalla nascita. È stato inoltre stimato che l’assorbimento del trizio durante la gravidanza porta ad una concentrazione di questa sostanza nel feto più alta che nel corpo della madre, di circa il 60%.

Tirando le somme…

Tutti questi elementi suggeriscono che sia necessario riconsiderare le tradizionali procedure di valutazione dei rischi. Un dibattito scientifico serio, che tenga conto delle nuove scoperte, potrebbe aiutare ad evitare arroccamenti ideologici in entrambi gli schieramenti, formando un’opinione pubblica critica e solidamente ancorata alla realtà. Allo stesso tempo, spingerebbe verso una politica energetica più responsabile, che tenga in conto tutte le variabili del caso, e che si connetta alle preferenze della popolazione.

La scelta nucleare deve basarsi su una confronto veritiero dei costi ambientali, che, viste le controversie tuttora esistenti nella comunità scientifica, non è ancora stato effettuato.

Vale la pena di ricordare che le valutazioni di politica energetica sono strettamente legate alle caratteristiche del territorio: i danni provocati da una centrale nucleare saranno ben differenti a seconda che questa venga situata vicino ad una grande città o in una zona semidisabitata.

Allo stesso tempo, una situazione di limpidezza istituzionale, di attivismo nella società civile, di controllo della corruzione, sono caratteristiche irrinunciabili per una corretta gestione dei rischi.


1) http://www.eurasia-rivista.org/7167/l’assalto-italiano-alle-centrali-nucleari-la-fiera-delle-perplessita

Bibliografia

Risks and benefits of Nuclear Energy, OECD (2007), Parigi

Nuclear Electricity Generation: What Are the External Costs? OECD (2003), Parigi

ExternE Externalities of Energy – Methodology – 2005 Update, Commissione europea, Direzione Generale per la Ricerca (2005), Lussemburgo

ExternE Externalities of Energy – Vol.5 – Nuclear, Commissione europea, Direzione Generale XII Scienza, Ricerca e Sviluppo (1995), Lussemburgo

Ian Fairlie (2009), Childhood cancer near nuclear power stations, www.ehjournal.net/content/8/1/43


*Federica Nalli è dottoressa in Scienze Politiche (Università degli studi di Firenze)


Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Verso una nuova cortina di ferro: lo scudo antimissile USA-NATO circonda l’Eurasia

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Fonte: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=22365

L’Europa occidentale attraverso la NATO e l’UE costituisce la principale testa di ponte degli USA in Eurasia.


Secondo Brzezinski: “[la NATO e l’UE costituiscono] il rapporto globale più importante dell’America. E’ il trampolino di lancio del coinvolgimento globale degli Stati Uniti, permettendo all’America di svolgere il ruolo determinante di arbitro in Eurasia – nell’arena mondiale centrale del potere – e crea una coalizione che a livello globale è dominante in tutte le principali dimensioni del potere e dell’influenza.”[1]
Le secondarie teste di ponte degli USA in Eurasia sono: (1) Giappone e Corea del Sud, (2) la penisola arabica e (3) le forze militari della NATO e degli Stati Uniti in Iraq e nell’Afghanistan occupati.
Questo è il motivo dell’espansione dello scudo antimissile degli Stati Uniti, da un progetto degli Stati Uniti e della NATO che dovrebbe compiersi, salvo sorprese. La globalizzazione della NATO è parte di questo processo. L’inserimento del progetto di scudo missilistico sotto l’egida della NATO, era già in cantiere negli anni ’90. In effetti, le dichiarazioni che la NATO ha appena adottato il progetto di scudo missilistico, nel 2010, sono abbastanza sfacciate.

La proliferazione dei missili NATO e degli Stati Uniti


Tutti i dati del sistema attivo di proliferazione missilistica della NATO sono stati cancellati nel 2006 con il programma Active Layered Theatre Ballistic Missile Defence (ALTBMD). All’interno della NATO, Stati Uniti, Gran Bretagna, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia e Repubblica Ceca hanno lavorato insieme per anni alla realizzazione di un sistema di scudo antimissile. Mentre Israele, India, Australia, Taiwan, Giappone e l’Ucraina sotto il suo precedente governo arancione erano tutti partner.
La NATO ha anche redatto un coordinamento delle politiche missilistiche nello stesso anno dell’invasione anglo-statunitense dell’Iraq, il 2003. Il progetto è stato ratificato dalla NATO l’anno successivo, nel 2004. Anche la Francia ha lavorato sul suo sistema antimissile balistico (SAMP-T), mentre olandesi, tedeschi e statunitensi insieme hanno dato il via allo sviluppo integrato dei sistemi anti-missile estesi Aereo/di Teatro tramite il Programma ‘Optic Windmill’.

“L’anello di fuoco” e la nuova cortina di ferro: I Tre Teatri del Programma dello scudo antimissile inter-continentale


Il progetto dello scudo antimissile è, in realta, la triade di tre scudi missilistici che formano un sistema globale di scudi antimissile che circonda l’Eurasia. I tre segmenti di teatro dello scudo missilistico hanno sede in Europa, Medio Oriente e Asia orientale. L’Asia orientale comprende sia l’Asia del nord-est che il sud-est asiatico. Inoltre, ci sono anche zone di sovrapposizione che collegano la triade degli scudi antimissile. Questi sono: (1) il Mediterraneo, che collega l’Europa e il Medio Oriente, (2) l’Oceano Indiano, che collega il Medio Oriente e l’Asia orientale, e (3) l’America del Nord.
Il Nord America è la profondità strategica di questo sistema d’arma e, in realtà, è il suo centro di comando. Il sistema è collegato alle difese anti-missili nordamericane degli Stati Uniti, del Canada e della Groenlandia. L’America del Nord è usata anche per potenziare i sistemi missilistici sia in Asia Orientale che in Europa.
Mentre l’Iran è citato come giustificazione per lo scudo antimissile in Europa, l’ubicazione degli impianti militari in Groenlandia dice qualcosa d’altro. Geograficamente, la Groenlandia non è un luogo adatto per monitorare ogni possibile minaccia missilistica dalla Corea del Nord e neanche è situata nel posto migliore per monitorare qualsiasi possibile minaccia missilistica iraniana. La Groenlandia è ideale per il monitoraggio dei missili russi che volano sul circolo polare artico, essendo la rotta più logica.
Il progetto missilistico europeo si rivolge principalmente alla Russia, mentre il progetto missilistico est asiatico è rivolto principalmente alla Cina, con il pretesto della difesa contro la Corea del Nord. La parte del Medio Oriente del progetto antimissile si trova in Israele e nel Golfo Persico, ospitati in paesi come Arabia Saudita, ed è volto contro Iran e Siria. La creazione di uno scudo missilistico in Turchia sarà principalmente volto contro l’Iran e la Siria, e fornirà anche la copertura per un tentativo israeliano di attaccare l’Iran. In questo contesto, molte voci in Turchia si sono opposte alla partecipazione della Turchia al progetto di scudo missilistico della NATO. Tra cui il leader del Partito della Voce del Popolo della Turchia, che ha detto che il progetto di scudo missilistico potrebbe condurre alla terza guerra mondiale. [2]

Dalla nuova cortina di ferro a Star Wars: la militarizzazione dello spazio


Per quanto riguarda il progetto missilistico asiatico, anche l’Australia ha lavorato con gli Stati Uniti e Giappone. Vi è anche una processo per creare uno scudo missilistico in Asia meridionale con l’India. Questo significa che l’Eurasia sarà circondata da un anello di sistemi missilistici.
Ecco anche perché la Russia sta lavorando a stretto contatto con i suoi alleati in Kazakistan, Bielorussia e Cina sulla difesa missilistica e la Cina ha sviluppato un sistema missilistico in grado di distruggere i satelliti USA-NATO. Il sistema globale multi-strato dello scudo anti-missile USA e NATO, è legato alla militarizzazione dello spazio.

NOTE
[1] Zbigniew Brzezinski, The Geostrategic Triad: Living with China, Europe, and Russia (Washington, DC: Center for Strategic and International Studies Press, November 3, 2000), p.29.
[2] Serkan Demirtas, “NATO shield could cause World War III, Turkish party leader says”, Hürriyet Daily News and Economic Review, November 24, 2010.

Mahdi Darius Nazemroaya è un ricercatore associato presso il Centro di Ricerca sulla Globalizzazione (CRG).

Traduzione Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/

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Henry Corbin: Eurasia como concepto espiritual

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Desde Irlanda a Japón

“Subrayar y enfatizar las conexiones, las líneas de fuerza en las que se sustenta la trama del concepto espiritual de Eurasia, desde Irlanda a Japón” (1): a esta preocupación de P. Masson Oursel, que se inspira en un programa esbozado en 1923 en la Philosophie comparée y proseguido en 1948 en La Philosophie en Orient (2), Henry Corbin (1903-1978) le atribuye un “valor especial” (3). Trascendiendo el nivel de las determinaciones geográficas e históricas, el concepto de Eurasia viene a constituir “la metáfora de la unidad espiritual y cultural que recompondrá al final de la era cristiana en vista de la superación de los resultados de ésta” (4). Estas son, al menos, las conclusiones de un estudioso que en la obra corbiniana ha descubierto las indicaciones idóneas para fundar: “aquella gran operación de hermenéutica espiritual comparada, que es la búsqueda de una filosofía – o mejor dicho: de una sabiduría – eurasiática” (5). En otras palabras, la misma categoría geofísica de “Eurasia” no es más que la proyección de una realidad geosófica vinculada a la Unidad originaria, puesto que “Eurasia” es, en la percepción interior, en el paisaje del alma o Xvarnah (“Luz de Gloria”, en el léxico mazdeo), la Cognitio Angelorum, la operación autológica del Anthropos Téleios, o incluso, por último, la unidad entre el Lumen Naturae y la Lumen Gloriae. De aquí la posibilidad de acercar a Eurasia con el conocimiento imaginal de la Tierra como un Ángel” (6).

Es el mismo Henry Corbin quien evoca la experiencia visionaria del filósofo alemán Gustav Theodor Fechner, que identificó con la figura de un Ángel el rostro de la tierra envuelta de luz gloriosa, y para citar el pasaje concordante de un ritual avéstico: “Celebramos esta liturgia en honor de la Tierra, que es un ángel ” (7). De hecho, según la doctrina mazdeísta, a la Tierra se la percibe en la “persona” de su Ángel, cuando el alma, proyectando la imagen de sí misma, crea una Imago Terrae que la refleja. La angelología mazdeísta traduce el misterio de esta proyección de la siguiente manera: Spenta Armaiti, Arcángel femenino de la existencia terrenal, es la madre de Daena, el Ángel femenino que sustancia a la Alma caelestis, el Cuerpo de Resurrección. De esta manera, “la formulación misma de la categoría geofísica de “Eurasia” pertenece al proceso de palingenesia, que es la Resurrección a la luz de la Transfiguración ” (8).

La geosofía mazdeísta, íntimamente vinculada con la esencial característica sofiánica de Spenta Armaiti , se refiere principalmente a una Tierra celeste; aplicada al espacio terrestre, se nos presenta un kyklos, un orbis, similar a lo que Homero ha simbolizado en el escudo de Aquiles y Virgilio en el de Eneas (9), es decir, para permanecer en el ámbito iránico, con ese atributo del Hombre Universal (insân-e kâmil) que es la Copa de Jamshid. En esta representación, la Tierra está rodeada del océano cósmico y dividida en siete zonas (Keshvar) (10); en el centro de la zona central, llamada Xvaniratha (“rueda luminosa”), “se encuentra Airyanem Vaejah (pahlavi Erân-Vêj), la cuna o germen de los Arios (= Iránicos). Es allí donde se crearon los Kayanidi, los héroes legendarios; es ahí donde fue fundada la religión mazdeísta, desde donde se difunden a los otros Keshvar; es allí donde nacerá el último de los Saoshyant quién reducirá a Ahriman a la impotencia y llevará a cabo la resurrección y la existencia venidera”(11).

Situado al centro de la superficie de la tierra, Irán se nos presenta por lo tanto, como “bisagra, no sólo geográfica, sino también y sobre todo espiritual” (12), de la ecúmene eurasiática.

La representación mazdeísta, posteriormente reelaborada, pasó a formar parte del legado cultural que Irán le trasmitió al Islam. En el Kitab al-Tafhîm de Abû Rayhân Mohammad ibn Ahmad Bîrûnî (362 / 973 – 421 / 1030) (13) se encuentra un esquema en el cual el círculo central, Irán, está rodeado de otros seis círculos, tangentes entre sí, que corresponden a otras tantas regiones: India, Arabia y Abisinia, Siria y Egipto, la zona bizantino-eslava, el Turquestán, China y el Tíbet.

Oriente y Occidente

Según la perspectiva islámica, el centro del mundo terrestre se encuentra en la Kaaba, el más antiguo de los templos de Dios, inicialmente construido en la época de Adán, después edificado por Abraham en su forma actual. En la planta y la estructura de este santuario primordial y central meditó Qâzî Sa‘îd Qommî (1042/1633 – 1103/1691- 92) en el primer capítulo de la Kitâb asrâr al-Hajj (“El sentido esotérico de la Peregrinación”), que constituye el objeto de un minucioso estudio de Henry Corbin (14).

“Siempre entra en juego – dice éste último – el mismo principio: las formas de luz (sowar nûrîya), las figuras superiores se imprimen en las realidades de abajo que son sus espejos (subrayemos que, geométricamente las consideraciones elaboradas aquí seguirían siendo válidas sí se tomara como objeto de meditación la forma del templo griego)” (15). Ahora, en el plano superior de las Realidades-arquetipos […] encontramos cuatro “límites metafísicos” (16), dos de las cuales (la Inteligencia Universal y el Alma Universal) se encuentran al este de la realidad ideal, mientras que las otras dos (la Naturaleza Universal y la Materia Universal) se encuentran hacia el oeste. La ley rigurosa de las correspondencias exige que en el plano de la Ka’ba terrestre, los ángulos estén igualmente dispuestos según el mismo orden de relación: “Dos de estos ángulos están hacia el oriente: el ángulo en el que está encajada la Piedra Negra (el ángulo iraquí) y el ángulo yemenita; los otros dos están al occidente: el ángulo occidental y el ángulo sirio “(17). Son estos dos orientes (mashriqayni) y los dos occidentes (maghribayni) los que alude el versículo 17 de la sura del Misericordioso, puntualmente citado por Corbin.

El versículo coránico llama a otro, el que comienza con las palabras: “A Dios pertenece el Oriente y el Occidente” (sura de la Vaca, 115). “Gottes ist der Orient! – Gottes ist der Okzident!”: es la forma en que la reconstruye Wolfgang Goethe, a quien Corbin nos muestra más de una vez la convergencia con la sabiduría islámica.

Pero la pareja “Oriente-Occidente ” retorna en el versículo de la Luz, en parte reportado en el epígrafe al primer capítulo de su estudio sobre El hombre de luz en el sufismo iranio: ”… una lámpara que arde con un aceite de olivo que no es ni de Oriente ni Occidente, inflamándose sin necesidad siquiera de que el fuego la toque… Y es luz sobre luz.

“Entre Oriente y Occidente, como entre Norte y Sur, recorren líneas ideales de las cuales dependen no sólo la orientación geográfica, sino también la categoría antropológica. En la perspectiva del simbolismo espiritual, estas direcciones horizontales asumen un sentido en base al modo en que el ser humano experimenta la dimensión vertical de su presencia en el espacio y en el tiempo; y es una orientación de este género lo que constituirá uno de los principales temas del sufismo iranio: “es la búsqueda de Oriente, pero se nos advierte, por si acaso no lo comprendamos desde el primer momento, que se trata de un Oriente que no se encuentra en nuestros mapas geográficos ni puede ser situado en ellos. Este Oriente no está incluido en ninguno de los siete climas (los keshvar); es, de hecho, el octavo clima. Y la dirección en que este “octavo clima” debe ser buscado no está en la horizontal sino en la vertical. Este Oriente místico suprasensible, lugar del Origen y el Retorno, objeto de la búsqueda eterna, está en el polo celeste; es el Polo, un extremo norte, tan extremo como el umbral de la dimensión del más allá” (18). La geografía sagrada de Irán hace corresponder a este Polo celeste a la montaña cósmica de Qâf, donde comienza aquel mundo de Hûrqalyâ que es iluminado por el sol de medianoche. Es la tierra de los Hiperbóreos (19), los cuales “simbolizan al hombre cuya alma ha alcanzado tal perfección y armonía que está libre de negatividad y de sombra; no es ni de Oriente ni de Occidente” (20).

Ishraq, nombre verbal, que en árabe significa el irradiar del sol desde el punto del cual surge, es un término peculiar de la sabiduría islámica de Irán. Ishrâqîyûn o Mashriqîyûn (“Orientales”) son los sabios de la antigua Persia, llamados así “ciertamente no sólo por su ubicación geográfica, sino porque su conocimiento era oriental, en el sentido que se fundamentaba sobre la revelación interior (kashf) y la visión mística (moshâhadat) “(21).

Sin embargo, el significado del Oriente como un Oriente iluminativo, dirección que conduce al Polo espiritual, no es un concepto que caracteriza exclusivamente al pensamiento tradicional iranio. “Esta orientación se daba ya a los mistagogos del orfismo. Se la encuentra en el poema de Parménides donde, guiado por las hijas del sol, el poeta emprende un viaje hacia Oriente. El sentido de las dos direcciones, derecha e izquierda, Oriente y Occidente del cosmos, es fundamental en la gnosis valentiniana. (…) Ibn ‘Arabi (1240) eleva a símbolo su propia partida a Oriente; del viaje que de Andalucía le lleva hacia La Meca y Jerusalén hace su Isra’, homologándolo a un ékstasis que repite la ascensión del Profeta de cielo en cielo hasta el “Loto del límite”. Aquí el Oriente geográfico, “literal”, se convierte en símbolo del Oriente “real”, el polo celeste” (22).

Umbilicus Terrae

En la geografía sagrada resultante de las exploraciones espirituales de Henry Corbin, el extremo occidental de Eurasia está representado por las Islas Británicas. Aquí los fieles de la iglesia celta primitiva fueron designados en irlandés como céle Dé: denominación que equivale a Amici Dei, “se encuentra en la gnosis islámica (Awliyâ’ Allâh) y en la mística renana (Gottesfreunde)” (23). Estos Coli Dei, “establecidos en York (Inglaterra), en Iona (Escocia), en el país de Gales y en Irlanda, su símbolo fundamental era la paloma, como símbolo femenino del Espíritu Santo.

Desde esta perspectiva, no resulta extraño encontrar el druidismo mezclado a su tradición y los poemas de Taliesin integrados a sus corpus. Igualmente, la epopeya de la Mesa Redonda y la Demanda del Santo Graal han sido también interpretadas en relación con los ritos de los Coli Dei” (24). A esta misma hermandad espiritual es reconducida la existencia del santuario de Kilwinning, sobre la montaña de Heredom, desde donde se irradió aquel Orden Real por el cual el rey Robert I Bruce se habría afiliado a los Templarios, realizando la convergencia entre el celtismo y el templarismo.

En la otra extremidad de Eurasia se extiende la China “el límite del mundo humano, del mundo que puede ser explorado por el hombre en las condiciones de la conciencia común” (25). Por otra parte, influencias taoístas se habrían ejercido sobre la hierocosmologia del sufismo centroasiático y sobre algunas técnicas de recitación del dhikr adoptadas por la escuela de Najm Kobra (26). Entre los templos que se levantan en los confines de China hay uno, descrito en el siglo X por el historiador árabe Mas‘ûdî (27), que en su estructura obedece al paradigma arquitectónico de los templos sabeos; el mismo Mas‘ûdî había visto aquel de Harrán (la antigua Carrhae), y pudo todavía leer en el umbral la inscripción de tenor platónico: “Aquél que se conoce a sí mismo es deificado” (Man ‘arafa nafsahu ta’allaha). “Inscripción de tenor platónico” (28), cierto, en el que “el término técnico árabe es el equivalente de la theosis de los místicos bizantinos” (29), pero también la explicación del precepto délfico, que finalmente será validado en el hadîth qudsî: “Quién se conoce a sí mismo conoce a su Señor ” (Man ‘arafa nafsahu ‘arafa rabbahu). Mientras tanto, los hermetistas sabeos de Harrán aportarán en dote al Islam su herencia, derivada de una antigua sabiduría siríaca o siriobabiloniense reinterpretada a la luz del neoplatonismo.
Equidistante de Escocia y China está Al-Quds, “la ciudad santa” por antonomasia. En el lugar donde inició la Asunción el Mensajero de Dios – según Corbin un verdadero Umbilicus Terrae – “asume ahí una función homóloga a la de la Piedra Negra en el templo de la Ka’ba” (30), la Cúpula de la Roca (Qubbat al-Sakhrat). Este edificio, comúnmente llamado la Mezquita de Omar, “tiene la forma de un octógono regular culminado por una cúpula; fue el prototipo de las iglesias templarias construidas en Europa, y la cúpula fue el símbolo de la Orden y figuraba en el sello del Gran Maestre” (31). Este entrelazamiento de líneas espirituales diferentes hace de Jerusalén el simbólico edificio microcósmico, en el que se refleja la multiplicidad tradicional del macrocosmos eurasiático, aquella multiplicidad de formas que Henry Corbin nos presenta en su unidad esencial.

La oposición radical entre Jerusalén y Atenas, identificadas como polos emblemáticos respectivamente del monoteísmo y el politeísmo, es el punto donde convergen entre ellos los zelotas de las supuestas “raíces judeo-cristianas” de Europa y algunos defensores de un malentendido “paganismo” griego. Sostener una posición de este tipo, queriendo reducirle a un esquema ideológico a una relación más bien profunda, compleja y articulada de cuanto no se imaginan los “judeo-cristianos” y “neopaganos”, significa ignorar cómo la más rigurosa doctrina metafísica de la Unidad (el Tawhid integral de la metafísica islámica) no excluye de hecho la multiplicidad relacionada a la jerarquía de los Nombres Divinos. Entre los que han entendido perfectamente lo anterior, está justamente Henry Corbin, quien, mediante el establecimiento de una ideal “comparación, por una parte entre Ibn ‘Arabî (…) y Proclo, por otra” (32) y recordando el comentario del jefe de escuela de Atenas al Parménides platónico, evoca el encuentro de los físicos de la escuela jónica con los metafísicos de la Escuela Itálica, unos y otros se encuentran en la ciudad-símbolo de Atenas para participar en las Panateneas. “Celebrar esta fiesta – él escribe- es encontrar en la escuela ática de Sócrates y Platón la mediación que eleva los dos extremos a un nivel superior” (33).

1. Henry Corbin, L’Iran e la filosofia, Guida, Napoli 1992, p. 62.
2. P. Masson-Oursel, La Philosophie en Orient, in Histoire de la philosophie, a cura di É. Bréhier, Paris 1948, 1° fasc. suppl.
3. Henry Corbin, L’Iran e la filosofia, cit., ibidem.
4. Glauco Giuliano, Nitartha. Saggi per un pensiero eurasiatico, La Finestra, Lavis 2004, p. 14
5. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 221
6. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 16.
7. Sîrôza, vigésimo octavo día, op. cit.: Henry Corbin, Cuerpo espiritual y Tierra Celeste. Del Irán mazdeísta al Irán chiíta, Ediciones Siruela, Madrid, 1996, p. 37.
8. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 16, n. 25.
9. Ilíada, XVIII, 478-608; Eneida, VIII, 626-728.
10. La división septenaria del espacio terrestre que se repite en otras culturas tradicionales: cf. Claudio Mutti, Gentes. Popoli, territori, miti, Effepi, Genova 2010, pp. 19-20.
11. Henry Corbin, Cuerpo espiritual y Tierra Celeste, cit., p. 51.
12. Glauco Giuliano, Nitartha, cit., p. 22.
13. Henry Corbin, Historia de la Filosofía. Del mundo romano al Islam Medieval, vol. 3. Siglo veintiuno editores, México DF, 1990, pp 307-308.
14. Henry Corbin, Templo y contemplación, Editorial Trotta, Madrid, 2003, pp. 181-257. Sobre Qâzî Sa’îd Qommî, cf. Henry Corbin, Historia de la Filosofía. La Filosofía en Oriente, vol. 11. Siglo veintiuno editores, México DF, 1990, p. 154-157
15. Henry Corbin, Templo y contemplación cit., p. 206.
16. Henry Corbin, Templo y contemplación cit., p. 207.
17. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 207.
18. Henry Corbin, El hombre de luz en el sufismo iranio, Ediciones Siruela, Madrid, 2000, p. 20.
19. Sobre la Hiperbórea y similares representaciones tradicionales de la septentrional “Tierra de luz”, cf. Claudio Mutti, op. cit., pp 15-23.
20. Henry Corbin, El hombre de luz en el sufismo iranio, cit., p. 56.
21. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, cit., p. 211.
22. Henry Corbin, El hombre de luz en el sufismo iranio, cit., págs. 73-74.
23. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 342 n. 217.
24. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 342.
25. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 132.
26. Henry Corbin, El hombre de luz en el sufismo iranio, cit., pp. 72 y 77 y ss.
27. Mas’ûdî, Les prairies d’or, ed. e trad. Barbier de Maynard, Paris 1914, vol. IV, p. 52.
28. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 133.
29. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 133, n 7.
30. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 351.
31. Henry Corbin, Templo y contemplación, cit., p. 334.
32. Henry Corbin, La paradoja del monoteísmo, Editorial Losada, Madrid, 2003, p. 22.
33. Henry Corbin, La paradoja del monoteísmo, cit., p. 30.

(traducido por Francisco de la Torre Freire)
Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici, n. 2/2010

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PLA, il barometro delle relazioni USA-Cina

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Fonte: http://www.southasiaanalysis.org/papers43/paper4258.html

1. L’Esercito di Liberazione Popolare (PLA) della Cina è il barometro delle relazioni USA-Cina. Quando succede qualcosa di negativo, si ha un maggiore impatto sulle relazioni militari tra i due paesi che sulle relazioni economiche. Mentre il PLA esclude il pericolo di un conflitto militare globale tra la Cina e gli Stati Uniti, non esclude il pericolo di conflitti regionali. Secondo il PLA, gli Stati Uniti vedono la Cina come un grande avversario strategico. Mentre ci potrebbe essere un miglioramento tattico-militare nelle relazioni militari, qualsiasi miglioramento duraturo e strategico con gli Stati Uniti, dipende dalla definitiva sospensione delle vendite di armi a Taiwan, rimuovendo le legislazioni discriminatorie che colpiscono le esportazioni sensibile dagli USA verso la Cina e la fine delle presunte intrusioni di navi e aerei della marina degli Stati Uniti nelle zone che la Cina vede come sue zone economiche esclusive. La Cina è ancora solo una potenza regionale, ma con influenza globale. Mentre le sue relazioni con gli Stati Uniti sono importanti, le sue relazioni con i paesi vicini sono altrettanto importanti. Deve migliorare le sue relazioni con essi, se vuole tenerli lontano dall’abbraccio con gli Stati Uniti. Questi sono alcuni dei punti figuranti nelle discussioni di fine anno in Cina, sul significato della prossima visita di Robert Gates, Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, che sarà seguita da una visita di Stato a Washington DC, del presidente Hu Jintao.

2. L’anno nuovo vedrà Gates in visita in Cina dal 9 al 12 gennaio e il presidente Hu in visita a Washington il 19 gennaio. Saranno queste due visite importanti a ridurre le tensioni che sono sorte nei rapporti tra Stati Uniti e Cina nel corso del 2010? Le tensioni sono iniziate a causa della decisione dell’amministrazione del presidente Barack Obama di vendere un nuovo pacchetto di armi a Taiwan e, successivamente, a causa dell’aperto interesse degli Stati Uniti nella controversia sul Mar Cinese meridionale tra la Cina e alcuni paesi dell’ASEAN, e le esercitazioni navali congiunte degli Stati Uniti e della Corea del Sud, dopo l’affondamento di una nave sudcoreana da parte della Corea del Nord, nel marzo dell’anno scorso.

3. La ritorsione di Pechino contro la decisione degli Stati Uniti di vendere armi a Taiwan è stata la sospensione del dialogo militare-militare tra i due paesi. Una serie di programmi di scambi militari, previstd da entrambe le parti, è stata cancellata, tra cui una visita in Cina di Gates, lo scambio di visite tra Chen Bingde, Capo di Stato Maggiore Generale dell’Esercito di Liberazione Popolare (PLA) e l’ammiraglio Mike G. Mullen, Presidente del US Joint Chiefs of Staff, e lo scambio di visite da parte di navi da guerra dei due paesi.

4. Tuttavia, Pechino non ha consentito che la sua irritazione per la vendita di armi a Taiwan uscisse durante la visita del presidente Hu Jintao a Washington, nell’aprile dello scorso anno, per partecipare al vertice della sicurezza nucleare. Inoltre non ha effettuato le sue minacce iniziali d’imporre sanzioni contro le aziende statunitensi che vendono attrezzature militari a Taiwan in spregio alle proteste cinesi.

5. La reazione della leadership militare cinese a questi sviluppi, però, è più forte della reazione della leadership politica. Oltre a intensificare le esercitazioni militari nel Mar Giallo e nelle zone costiere limitrofe, per contrastare le esercitazioni navali congiunte USA-Corea del Sud, il PLA è rimasto fortemente contrario a una rapida ripresa degli scambi militari. Si ritiene che ci sia una grande opposizione della leadership di PLA alla visita di Gates, che attende di compiere la sua visita in Cina da quando ha partecipato a una conferenza a Singapore (il Dialogo Shangri-La), di giugno scorso.

6. Nel mese di ottobre, vi erano indizi che la leadership del PLA ammorbidisse la sua opposizione a riprendere gli scambi militari con gli Stati Uniti. Liang Guanglie, consigliere di Stato e ministro della Difesa cinese, ha incontrato Gates ad Hanoi per la prima volta lo scorso anno, a margine della conferenza dei ministri della difesa sponsorizzata dall’ASEAN. Durante l’incontro, Liang Guanglie ha invitato Gates a visitare la Cina nei primi mesi del 2011, e Gates ha accettato. Nel mese di dicembre, Ma Xiaotian, il Sottocapo di Stato Maggiore del PLA, e Michele Flournoy, il Sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti, hanno presieduto congiuntamente l’11.ma consultazione della difesa Cina-USA, a Washington, DC.

7. E’ stato annunciato, successivamente, che su invito di Liang Guanglie, Gates andrà in visita in Cina dal 9 al 12 gennaio 2011. L’Associazione per l’amicizia con l’estero del popolo cinese e il Centro di Ricerca sulle relazioni sino-americane della Università Tsinghua, hanno congiuntamente organizzato un seminario per discutere del rapporto tra le forze armate degli Stati Uniti e della Cina. La data in cui si è tenuto questo seminario non sono note, ma il “PLA Daily” ha pubblicato un report in tre parti su questo workshop, il 29, 30 e 31 dicembre.

8. Una lettura dei punti salienti degli interventi pronunciati al Workshop, come riportato dal “PLA Daily”, indica che anche se la leadership del PLA aveva tolto la sua opposizione alla ripresa degli scambi militari con la sua controparte statunitense, ha ancora riserve mentali sulla possibilità di tali scambi. Alcuni di questi punti salienti sono i seguenti:

Contrammiraglio Yang Yi (ex direttore dell’Institute for Strategic Studies della National Defense University del PLA): “I contatti militari sono la “banderuola” delle relazioni Cina-USA. Cina e Stati Uniti detengono diversi punti di partenza negli scambi militari. Gli Stati Uniti, attraverso questi scambi, vogliono conoscere le linee nel PLA e le intenzioni dei militari cinesi, considerando che la Cina aderisce alla posizione secondo cui i legami militari devono servire la situazione generale e non dovrebbero oscillare sulle intenzioni degli Usa. La Cina non dovrebbe mai allentare i suoi sforzi per realizzare i suoi obiettivi strategici, nonostante le presunte preoccupazioni degli Stati Uniti. Tuttavia, si potrebbe mantenere la comunicazione strategica con gli USA.”

Prof. Wang Baofu (della National Defense University del PLA): “Perché le relazioni militari Cina-USA sono così fragili? La ragione è che gli affari militari sono sensibili. Quando qualcosa di sbagliato accade nelle relazioni Cina-USA, i contatti militari sono inclini a essere sospesi. Comparativamente parlando, l’impatto degli sviluppi negativi sulle relazioni militari è maggiore che sulle relazioni economiche. Le relazioni militari tra Cina e USA sono ancora in via di sviluppo, come risulta dai progressi compiuti nel contatto e negoziato sulle armi nucleari e le questioni spaziali.”

Prof. Ouyang Wei (della National Defense University del PLA): “La causa principale della mancanza di cooperazione militare tra Cina e Stati Uniti è l’assenza di fiducia strategica reciproca. Relazioni tra la Cina e gli USA sono complessi che coinvolgono sia la concorrenza che la cooperazione. Questi riguardano sia le relazioni globali che locali, che sono asimmetriche. In molti casi i rapporti locali sono conflittuali mentre quelli generale non necessariamente sono così. La Cina dovrebbe comportarsi come una potenza regionale che ha influenza globale. Ci si deve preoccupare non solo la propria sicurezza, ma anche della sicurezza di altri paesi. Abbiamo bisogno di considerare le questioni riguardanti diversi paesi dal punto di vista della strategia globale, invece di considerarli dal punto di vista bilaterale. Io propongo un concetto di “comunità economica e della sicurezza dell’Asia orientale” per rendere i paesi dell’Asia orientale dipendenti economicamente e fiduciosi nella sicurezza. Da questo punto di vista, le relazioni Cina-Giappone possono anche portare alla situazione di “cercare un terreno comune, pur conservando le differenze”. Pertanto, l’influenza dell’alleanza Giappone-Usa può essere mitigata.”

Magg. Gen. Peng Guangqian (segretario generale della National Security Policy Committee della China Association of Policy Science Study): “Il paradosso che si presenta nelle correnti relazioni militari Cina-USA è che la globalizzazione approfondisce la cointeressenza, da un lato, e aggrava l’attrito tra interessi, dall’altro. L’interesse nell’inter-dipendenza può ridurre il rischio di una guerra mondiale, in una certa misura, ma fa poco per prevenire i conflitti di piccole dimensioni, figuriamoci radice la causa di una guerra. L’equilibrio di deterrenza nucleare può ridurre il rischio di una guerra nucleare globale, ma non può impedire lo scoppio della guerra convenzionale. Gli Stati Uniti hanno già messo la Cina nella posizione strategica di importante potenziale avversario che contesterà i loro interessi in futuro. Inoltre, il movimento verso est del fulcro del dispiegamento militare strategico degli Stati Uniti dall’Europa alla regione Asia-Pacifico, e la sistemazione di Guam come nuovo polo militare strategico, sono sostanzialmente completati. Gli Stati Uniti hanno verificato la loro capacità e teoria di combattimento attraverso una serie di esercitazioni orientate al combattimento reale, tra cui le esercitazioni militari Corea del Sud-USA e le esercitazioni militari USA-Giappone.”

9.In un commento sulla visita di Gates pubblicato il 29 dicembre, il “PLA Daily” ha dichiarato: “Alcuni esperti hanno sottolineato che la visita potrebbe non essere sufficiente ad eliminare completamente i tre principali ostacoli che impediscono lo sviluppo delle relazioni militari tra le due parti. “La vendita di armi Usa a Taiwan, le rilevanti leggi approvate dal Congresso degli Stati Uniti per limitare gli scambi tra i due eserciti e le frequenti ricognizioni nelle aree economiche esclusive della Cina delle navi da guerra e aerei da guerra statunitensi, sono ostacoli che impediscono lo sforzo per stabilire la fiducia reciproca e sviluppare cooperazione tra le due forze armate”, ha detto il contrammiraglio cinese Yang Yi. Le relazioni militari sono sempre state viste come la “banderuola” o il “barometro” che riflette le relazioni tra stati. Gli esperti pensano che la visita di Gates non può che spingere in avanti la cooperazione militare tra le due parti, ma anche promuovere e integrare le relazioni Cina-Usa”.

10. In una intervista di fine anno diffusa da Xinhua, il 29 dicembre, il ministro della Difesa cinese Liang Guanglie ha detto: “Senza i più di due milioni di soldati delle forze armate… la Cina sarebbe un paese debole. Un aspetto importante della sua forte potenza nazionale, penso, è una difesa forte. Nonostante la crescente potenza nazionale e influenza globale, la situazione internazionale rimane complessa, mentre diversi fattori d’instabilità adombrano la sicurezza cinese. Una guerra che coinvolga l’intero Paese è impossibile al momento, ma vi è la possibilità che un incidente o infortunio possa infiammare dei conflitti regionali. Per migliorare la nostra potenza nazionale globale (dobbiamo fare in modo) che i nostri interessi di base non siano ostacolati. Dobbiamo mettere la sovranità e la sicurezza della nazione al vertice, nella comprensione comune di tutto il partito (Partito Comunista della Cina) e di tutto il popolo.”

11. Mentre la Cina si prepara a ricevere Gates, il PLA fa in modo che le sue opinioni e le percezioni siano considerate nelle relazioni USA-Cina. La saggezza convenzionale è che in campo militare, il partito decide e il PLA attua. In materia di relazioni con gli USA, il partito decide, ma con il concorso del PLA. Il PLA non è un semplice subordinato senza una mente propria. Ha un pensiero propria ed è pronta a esprimerlo in pubblico e non solo necessariamente entro i confini del partito o della Commissione Militare Centrale. Questo è il messaggio che è uscito.

L’autore è Segretario Aggiunto (in pensione), Segreteria del governo dell’India, Nuova Delhi e, attualmente, Direttore dell’Istituto di alti studi di Chennai, e associato al Centro Studi sulla Cina di Chennai.


Traduzione Alessandro Lattanzio
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L’asse Turchia-Siria-Iran in Medio Oriente

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Il riavvicinamento tra Turchia, Siria e Iran, sancito dalla recente visita a Istanbul dei presidenti iraniano e siriano, sta creando in Medio Oriente un nuovo asse regionale che potrebbe sostituire l’ormai debole triangolo arabo formato da Arabia Saudita, Siria ed Egitto.

Indubbiamente il nuovo trio presenta attori autorevoli, ognuno dei quali può disporre di importanti risorse strategiche: l’Iran è ricco di fonti energetiche ed ha in mano un’importante e ben nota carta nucleare; la Turchia è un’emergente potenza euro-asiatica oltre che un importante membro della NATO; la Siria, infine, esercita ancora un’influenza considerevole sul Libano ed era già presente nel vecchio triangolo siro-egiziano-saudita. Si tratta inoltre di tre Paesi che hanno promosso una politica di apertura delle frontiere che potrebbe dar vita ad un mercato di oltre 150 milioni di persone.

Il triangolo arabo

La mancata intesa tra Siria ed Egitto sulla questione palestinese e le tensioni tra Damasco e l’Arabia Saudita per quanto concerne la questione iraniana hanno contribuito negli ultimi anni a ridimensionare l’influenza del cosiddetto triangolo arabo. Un triangolo che, nato alla vigilia della guerra del 1973 contro Israele (Guerra del Kippur) per recuperare le terre occupate dagli israeliani nel 1967, è stato in grado di dar luogo a grandi cambiamenti nel mondo arabo, come testimoniano la cooperazione fra i tre Paesi nella stipulazione dell’accordo di Taif del 1989 (che pose fine alla guerra civile libanese) e il loro sostegno alla guerra degli Stati Uniti per la liberazione del Kuwait dall’occupazione irachena.

Il trio, pur non trasformandosi mai in un’alleanza formale, ha rappresentato uno strumento efficace per promuovere gli interessi dei tre Paesi arabi: l’Egitto, ad esempio, sfruttò la guerra del Kippur per raggiungere un’intesa “separata” con Israele; la Siria usufruì dell’accordo di Taif per aumentare la sua influenza sul Libano; l’Arabia Saudita, infine, approfittò della debolezza irachena per accrescere, sotto il controllo degli Stati Uniti, il proprio potere nella regione mediorientale.

Negli ultimi anni, tuttavia, gli interventi statunitensi nell’area dopo l’11 settembre, l’incapacità del trio arabo di dare risposte congiunte e condivise alla questione palestinese, le loro divergenze su come trattare con Hezbollah e Hamas, nonchè l’intricata vicenda relativa al nucleare iraniano e la perdita di terreno degli Stati Uniti hanno contribuito ad indebolire il triangolo creando scompiglio nell’intera regione.

Le prospettive del nuovo asse siro-turco-iraniano: la posizione statunitense

Fino a qualche tempo fa le relazioni turco-siriane e quelle turco-iraniane erano caratterizzate da ostilità e freddezza alla luce del legame turco con Israele e con la Nato, della questione curda e delle diverse esperienze storiche. L’ascesa al potere in Turchia del partito “Giustizia e Sviluppo” (AKP) ha però innescato un importante cambiamento politico che ha prodotto un immediato rafforzamento delle relazioni turche con i Paesi vicini. Tale rafforzamento è stato possibile grazie alla volontà di Ankara di aprire le sue frontiere e condurre ampie consultazioni con i suoi vicini musulmani in merito a rilevanti questioni regionali. Inoltre l’importante ruolo di mediazione tra Siria e Israele e tra Iran e Occidente svolto dalla Turchia ha consentito a quest’ultima di ottenere consensi nel mondo arabo. Di pari passo si è però assistito al deterioramento dei rapporti tra Ankara e Israele dovuto prima alla decisione di quest’ultimo di scatenare la guerra a Gaza alla fine del 2008 e poi al recente attacco israeliano ai danni della flottiglia umanitaria turca in acque internazionali.

A molti arabi sembra che la Turchia stia cercando di esercitare nella regione la stessa influenza che in passato fu dell’Arabia Saudita. L’Iran, dal canto suo, sta tentando di assumere il ruolo che per anni ha ricoperto l’Egitto nei confronti di Israele e dell’Occidente. Per quanto concerne invece la Siria il nuovo triangolo si adatta meglio alle sue ambizioni e può fornire ad essa la necessaria sicurezza e influenza.

Ovviamente è lecito chiedersi fino a quando potrà durare il nuovo trio con il crescere delle pressioni americane/occidentali; pressioni che, secondo taluni,  potrebbero spingere Ankara e Teheran a rompere con la Siria allo scopo di incrementare il proprio peso strategico. In tale ottica appare lapalissiano come il futuro dell’asse Turchia-Siria-Iran dipenda molto dall’atteggiamento statunitense. Barack Obama è sicuramente un leader più pragmatico che ideologico, come ha dimostrato la sua attenzione alle relazioni con la Cina piuttosto che a quelle con la Gran Bretagna, o alle relazioni con l’India e il Brasile piuttosto che a quelle con la Francia. Egli potrebbe quindi approfittare della nuova influenza turca nei confronti della Siria, della Palestina e dell’Iran per promuovere gli interessi americani nella regione, invece di rivolgersi all’Egitto, all’Arabia Saudita, o anche ad Israele, Paesi che accusano tutti enormi anomalie politiche.

Le prospettive del nuovo asse siro-turco-iraniano: la posizione russa

Una volta preso atto del sostanziale insuccesso del “rimodellamento” statunitense dell’area mediorientale, Mosca si è riaffacciata nella regione in occasione della recente visita del presidente Dmitry Medvedev a Damasco ed Ankara.

La Russia sostiene l’avvicinamento in corso tra Iran, Siria e Turchia, Paesi che sono entrati in una fase di intensa cooperazione che ha consentito alle loro economie di godere di una ventata d’aria improvvisa. Mosca non intende assolutamente restare lontano da questa nuova zona di prosperità come dimostra l’iniziativa congiunta di Russia e Turchia che ha abrogato la necessità di visti per i loro cittadini residenti all’estero: un turco può ora entrare senza formalità in Russia, mentre paradossalmente non è sempre autorizzato ad entrare né negli USA, né nell’Unione Europea, sebbene Ankara sia membro della NATO e candidato ad entrare nell’Ue.

Sul piano militare, poi, la Russia ha preso consegna della sua nuova base navale in Siria che permetterà ai russi di ristabilire l’equilibrio nel Mediterraneo. Mosca ha inoltre confermato la ormai imminente consegna di missili S-300 a Teheran per proteggere l’Iran delle minacce statunitensi ed israeliane; i vertici russi hanno infatti più volte affermato di non credere alle accuse occidentali a proposito dei programmi nucleari iraniani o siriani ed hanno a più riprese cercato di dissuadere gli Stati Uniti dall’eventualità di intraprendere una guerra in Iran, paventando il pericolo che questa possa degenerare in terza guerra mondiale. Hanno inoltre portato il loro sostegno al progetto di denuclearizzazione della regione, incentrato sullo smantellamento dell’arsenale nucleare israeliano.

Sul piano energetico, invece, ribaltando la strategia americana nel Mar Nero e nel Caspio, Ankara ha accettato un considerevole investimento russo destinato alla creazione di un oleodotto collegante Samsun a Ceyhan, che dovrebbe consentire di instradare il petrolio russo del Mar Nero verso il Mediterraneo senza dover ricorrere allo stretto, onde evitare il transito in quest’ultimo di materie inquinanti. Nello stesso tempo Ankara si è detta disponibile a partecipare al progetto relativo alla realizzazione del gasdotto russo South Stream, che, se confermato, renderebbe inutile il progetto concorrente degli Stati Uniti e dell’Unione europea che prevede la costruzione del gasdotto Nabucco.

In definitiva, il sostegno russo sembra al momento garantire la persistenza del  triangolo Turchia-Siria-Iran, in opposizione all’attuale diffidenza statunitense ed europea. Ciò che è certo è che l’equilibrio geostrategico nella regione mediorientale sta drasticamente mutando e potrebbe avere effetti la cui onda d’urto non esiterebbe a estendersi anche al delicato scacchiere caucasico.

Note

Per ulteriori approfondimenti si consiglia la lettura dell’articolo di Richard Javad Heydarian Iran-Turkey-Syria: An Alliance of Convenience” pubblicato da FPIF – Foreign Policy In Focus.

Riferimenti bibliografici

Frankel, Giorgio S. L’Iran e la bomba. I futuri assetti del Medio Oriente e la competizione globale. DeriveApprodi: 2010.

Campanini, Massimo. Storia del Medio Oriente. Il Mulino: 2009.

Salt, Jeremy. La disfatta del Medio Oriente. Due secoli di interventi occidentali nei Paesi islamici. Elliot: 2009.

Chomsky, Noam. Potere pericoloso. Il Medio Oriente e la politica estera statunitense. Palomar: 2007.

Halliday, Fred. Il Medio Oriente. Potenza, politica e ideologia. Vita e Pensiero: 2007.

Fiorani Piacentini, Valeria. Turchia e Mediterraneo allargato. Democrazia e democrazie. Franco Angeli: 2006.

Kassir, Samir. Primavere. Per una Siria democratica e un Libano indipendente. Mesogea: 2006.

Tremul, Francesco. La Turchia nel mutato contesto geopolitico. UNI Service: 2006.

Owen, Roger. Stato, potere e politica nella formazione del Medio Oriente moderno. Il Ponte Editrice: 2005.

* Alessandro Daniele è dottore in Relazioni e Politiche Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)

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Convegno CNR: Obiettivo ‘migrazioni’. Di alfabeti

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Obiettivo ‘migrazioni’. Di alfabeti

Una linea di ricerca condotta dall’Iliesi Cnr in collaborazione con Unesco e Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie mira alla traduzione sincronizzata dei testi filosofici mediante l’allineamento nelle lingue di alfabeto non romano, come ebraico, arabo, farsi e cirillico. L’innovativo programma sarà presentato a Roma, il prossimo 10 gennaio

Nella società della globalizzazione a migrare non solo le persone, ma anche le lingue e i saperi, questa l’idea di fondo di ‘Migrazioni di alfabeti’, linea di ricerca dell’Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee del Consiglio nazionale delle ricerche (Iliesi-Cnr).
Il programma, che si inserisce nell’ambito del più vasto progetto interdisciplinare ‘Migrazioni’, al quale prendono parte 13 Istituti del Cnr, sarà presentato a Roma, il prossimo 10 gennaio (Aula Marconi-Cnr, piazzale Aldo Moro 7, ore 9:30), durante un convegno organizzato da Maria Eugenia Cadeddu e Riccardo Pozzo dell’Iliesi-Cnr e introdotto da Tullio Gregory e Giovanni Puglisi (Commissione italiana per l’Unesco), con la partecipazione di Istituto di informatica e telematica (Iit-Cnr) e Istituto di scienze e tecnologie della cognizione (Istc-Cnr).

L’innovativa linea di ricerca, che mira ad ampliare nell’era del Web 2.0 l’accesso alle opere filosofiche più significative di tutti i tempi e culture, mediante l’allineamento semantico di corpora filosofici nelle lingue di alfabeto non romano come l’ebraico, l’arabo, il farsi e il cirillico, coinvolge altri 2 Istituti del Cnr ed è realizzata in collaborazione con Unesco e Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie (Fisp).

L’obiettivo del nostro progetto è rendere accessibili in rete i testi filosofici nelle lingue originali e in traduzione sincronizzata”, spiega Riccardo Pozzo. “Oggi studenti e studiosi si documentano molto sui testi on line e grazie ai motori di ricerca possono trovare facilmente citazioni e corrispondenze fra ipertesti in romano, arabo e greco. Con il nostro progetto estenderemo questa possibilità anche alle altre lingue di alfabeto non latino”.

Dal punto di vista tecnologico, ‘Migrazioni di alfabeti’ “rende necessarie importanti sinergie di e-science, che permettano di trovare le matrici per traslitterare da qualunque alfabeto in entrata a qualunque alfabeto in uscita, e che realizzeremo grazie alle diverse competenze disciplinari dei ricercatori Cnr coinvolti”, prosegue il direttore dell’Iliesi-Cnr. Dal punto di vista culturale, “la filosofia si presta particolarmente a questo esperimento di allineamento semantico multilingue per via del suo lessico limitato e codificato. Ad esempio, una stringa testuale in alfabeto greco antico come ‘conosci te stesso’ (gnōthi seautón) oggi traslitterata in maniera pressoché univoca in alfabeto romano, in futuro produrrà altre traslitterazioni. Una volta raggiunto questo traguardo, avremo ipertesti e libri elettronici in alfabeti diversi ma legati da comuni motori di ricerca che permetteranno l’individuazione sempre più precisa di citazioni in originale e in traduzione nonché l’elaborazione di confronti lessicali. Per il cinese si lavorerà sulle corrispondenze tra lemmi e ideogrammi”.

La posta in gioco è non solo la comprensione linguistica ma lo scambio dialogico tra le diverse identità culturali grazie alle soluzioni informatiche sempre più raffinate. “L’Italia vanta un’antica tradizione di eccellenza nelle scienze umane”, conclude Pozzo, “nel XXI secolo diventa però strategico coniugare la filologia con la rivoluzione tecnologica della lettura. La migrazione degli alfabeti, dunque, rappresenta un banco di prova importante”.

Al convegno parteciperanno tra gli altri: Gholamreza Aavani (Iranian Institute of Philosophy), Enrico Berti (Iliesi-Cnr), Marcelo Dascal (Tel-Aviv University), Hans Poser (Technische Universität Berlin), Evandro Agazzi (Universidad Autónoma Metropolitana de México), Gino Roncaglia (Università della Tuscia), Sandro Schipani ed Emanuele Raini (La Sapienza-Cnr), Aldo Gangemi (Istc-Cnr) e Domenico Laforenza (Iit-Cnr).

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