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Putin, Medvedev ed il futuro della Russia

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Introduzione

Dal 2008 in poi, uno dei temi più discussi ed analizzati della politica russa, con eccessi che spesso hanno rasentato il gossip, è stato quello dei rapporti che intercorrono tra l’attuale Presidente Dmitry Medvedev ed il Premier Vladimir Putin. Sul cosidetto tandem russo sono state realizzate una moltitudine di analisi che hanno cercato, ognuna dal suo punto di vista, di mettere in luce la vera essenza dei rapporti tra presidente e premier. Alcuni analisti hanno ravvisato una certa disparità in tali relazioni al punto da definire Medvedev come una marionetta nelle mani di un Putin cinico e calcolatore mentre altri tendono ad interpretare il tandem in modo meno sbilanciato. Inoltre, all’affermazione di chi pensa che la conflittualità tra i due sia marcata ed in aumento si contrappone la visione di chi sostiene che, al di là di qualche piccola differenza di vedute, l’armonia regni sovrana.

È dunque chiaro che le posizioni su un tema così delicato ed importante siano varie e spesso discordanti. Tuttavia, al di là delle differenze di vedute spesso inconciliabili tra loro, molte di queste analisi offrono degli spunti davvero interessanti per comprendere il funzionamento del sistema politico russo.

Ciò che ci proponiamo di fare in questa nostra breve analisi è cercare di offrire una chiave di lettura dei rapporti tra Medvedev e Putin che vada, fin dove possibile, oltre le semplicistiche dicotomie ed i vecchi stereotipi utilizzati per analizzare l’essenza ed i rapporti di forza all’interno del tandem russo.

Dopo la rimozione del sindaco di Mosca, Yuri Luzkov, vero e proprio peso massimo della politica russa e le sempre più frequenti discussioni sulle elezioni presidenziali del 2012 riteniamo che focalizzare la nostra analisi sul tandem Medvedev-Putin sia necessario per tentare di carpire le dinamiche future che caratterizzeranno la Russia.


I rapporti tra Putin e Medvedev

L’amicizia tra Medvedev e Putin dura ormai da circa 20 anni. Entrambi di San Pietroburgo, si incontrarono per la prima volta nel 1991 grazie Anatoly Sobchak, professore presso la Facoltà di giurisprudenza, che decise di candidarsi, con successo, alla carica di sindaco della città. Medvedev, dottorato in diritto civile ed assistente presso la stessa Facoltà, grazie alle sue qualità attirò l’attenzione di Sobchak che lo invitò a far parte della nuova amministrazione comunale. Putin, ex agente del KGB, fu chiamato dal neo sindaco a gestire il comitato per gli affari esterni della città. Forse qui è presente la differenza più grande tra Medvedev e Putin, vale a dire il loro passato: il primo proviene dal mondo giurisprudenziale ed accademico, il secondo da quello dei servizi segreti. Come si può facilmente intuire, ciò ha creato ampie differenze nelle loro reti di contatti personali.

Tra i due nacque un’amicizia fraterna e sincera in cui però Putin ha giocato, grazie ai suoi 13 anni in più di vita e soprattutto di esperienza nei serivizi segreti sovietici, il ruolo di fratello maggiore. Questa amicizia è, con molta probabilità, un fattore di primo piano di cui non si può non tenere conto soprattutto per la sua utilità nell’appianare le frizioni tra i due.

Quando Putin, trasferitosi a Mosca nel 1996 per guidare l’FSB, fu nominato prima premier (aprile 2009) e poi delfino del presidente Eltsin (dicembre 2009) con successiva vittoria alle elezioni presidenziali del 2000, Medvedev era al suo fianco durante la campagna elettorale che avrebbe permesso a Putin di arrivare al vertice politico della Russia divenendo poi capo del suo staff. Di li a poco Medvedev sarebbe stato nominato presidente di Gazprom, la società gassifera monopolista russa di cui lo Stato detiene la quota azionaria di maggioranza.

Verso la conclusione del secondo mandato presidenziale, Putin, rispettando il dettato costituzionale che vieta alla stessa persona di occupare la carica per più di 2 mandati consecutivi (articolo 81 della Costituzione della Federazione Russa), scelse Medvedev come proprio successore. Nelle elezioni del 2008 egli divenne presidente ed in maggio la nuova presidenza Medvedev fu inaugurata. Il giorno successivo fu la volta di Putin in qualità di nuovo primo ministro (le elezioni parlamentari della primavera avevano consegnato la maggioranza al partito Russia Unita di cui Putin era ed è leader). Quello fu l’inizio ufficiale del tandem che ancora oggi guida la Russia.

Prima di passare ad analizzare i risvolti costituzionali e politici del tandem ci preme attirare l’attenzione sul fatto che dalla nostra brevissima descrizione del rapporto tra i due emerge chiaramente quanto ampio sia il debito di Medvedev nei confronti di Putin: senza di lui la scalata al vertice del potere politico russo probabilmente non sarebbe mai avvenuta. Questo è un elemento che, nel momento in cui analizziamo il tandem, deve essere tenuto a mente.


Medvedev-Putin o Putin-Medvedev? Cambiando l’ordine degli addendi il risultato cambia…

Cerchiamo adesso di comprendere un po’ meglio il significato politico ed istituzionale di questo tandem.

È interessante notare che fin dal principio la nuova configurazione del potere, dopo il trasferimento di Putin dal Cremlino alla ‘Casa Bianca’, ha portato molti esperti ad interrogarsi su quale sia stato il reale impatto sull’assetto costituzionale interno: sebbene sotto il profilo formale la Costituzione non abbia subito mutamenti degni di nota (se si fa eccezione per la riforma di Medvedev del dicembre 2008 che ha prolungato il mandato presidenziale a 6 anni e quello del Parlamento a 5) e la forma di governo sia, di conseguenza, rimasta quella semi-presidenziale è fuori discussione che sotto il profilo sostanziale il trasferimento di Putin alla guida del consiglio dei ministri abbia provocato uno spostamento del potere reale verso quella carica a detrimento di quella presidenziale.

Senza alcuna ombra di dubbio, nella Costituzione e nel sistema politico russo fino all’arrivo di Medvedev la figura dominante era quella del presidente della repubblica con il primo ministro collocato in posizione subordinata, mentre adesso siamo in presenza di un sistema in cui il premier, forte della legittimità di cui gode agli occhi della gente, del partito Russia Unita e delle elìte che lo circondano e che costituiscono la sua base di potere, svolge un ruolo centrale che pone in secondo piano, o comunque indebolisce, la statura del presidende russo ed i poteri di cui costituzionalmente gode.

Potremmo dunque affermare che sebbene il dettato costituzionale sia rimasto invariato si è verficato un mutamento dell’ordine costituzionale del Paese verso una forma tendenzialmente più parlamentare, in cui il motore politico del Paese è rappresentato dal governo e dalla sua maggioranza parlamentare. Chiaramente, si tratterà di vedere se tale assetto sia stabile o se si tratti solo di una fase passeggera in attesa del ritorno di Putin al Cremlino nel 2012, da cui ne scaturirà il ritorno ad un assetto politico più in linea con il dettato costituzionale.

Per onestà intellettuale, è bene chiarire fin dal principio che la Costituzione russa, una Costituzione a ‘maglie larghe’ (che evita cioè una descrizione dettagliata e stringente di quello che il Paese dovrebbe essere sotto il profilo politico-istituzionale e lascia, sebbene entro certi limiti, alla politica la possibilità di intepretare il dettato costituzionale), nonostante delinei i compiti più importanti che spettano a ciascuna carica (con una supremazia del presidente abbastanza evidente), crea volutamente delle aree di sovrapposizione sia negli affari politici interni che esteri (si veda, nello specifico, gli articoli 80, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 113, 114, 115 della Costituzione russa). L’arrivo di Putin alla carica di primo ministro ha ridotto, se non proprio invertito, la supremazia del presidente sul premier e delineato delle cesure nella divisione dei compiti molto più nette e sbilanciate a favore del premier. Recentemente Putin ha affermato di non essere interessato alla gestione della politica estera, compito di cui quindi deve occuparsi Medvedev, perchè troppo impegnato con la politica interna, a cominciare da quella economica (affermazione a cui hanno fatto eco le parole del Ministro delle Finanze Alexei Kudrin secondo cui le decisioni sulle politiche di natura economica sono prese solo dal premier).

Questo ha reso il ruolo del presidente Medvedev nella politica interna russa molto più debole di quanto in realtà dovrebbe essere. Non solo, l’affermazione di Putin sulla divisione dei compiti che abbiamo riportato sopra apparentemente limita il ruolo che il governo deve svolgere nella politica estera. In realtà molti, e non a torto, dubitano del fatto che Putin abbia veramente abdicato al ruolo che spetta al premier russo nell’arena internazionale e molti suoi gesti (alcuni anche abbastanza teatrali, come la sua presenza sul teatro di guerra durante il conflitto con la Georgia nell’agosto 2008) e dichiarazioni sembrano sostenere ciò.

Tutto questo ci mostra come si sia verificata una compressione dei poteri presidenziali che va in direzione opposta a quanto affermato dalla Costituzione semi-presidenziale russa.

È chiaro dunque che ogni qual volta cerchiamo di capire il funzionamento del sistema politico russo non ci possiamo limitare alla semplice lettura della Costituzione ma dobbiamo indagare anche la prassi politica.

A tal proposito, uno degli elementi su cui gli analisti politici pongono l’accento è la disparità tra Medvedev e Putin in termini di base di potere: sebbene abbia favorito l’ascesa di nuove leve con una preparazione tecnica e a lui fedeli, quella del primo è relativamente debole e ad uno stato embrionale mentre quella del secondo, basata soprattutto sui siloviki, è estesa e solida, almeno fino ad oggi. Molti ritengono che questo sia uno degli elementi più importanti che rendono il rapporto tra il presidente ed il primo ministro sbilanciato a favore del secondo.

È probabile che entrambi siano consapevoli di questo stato di cose e non ci sia la reale volontà da parte di Medvedev di intraprendere i passi necessari per poter sfidare l’amico Putin tentando di creare una base di potere più solida mentre da parte di Putin sembra non esserci la volontà di drammatizzare la disparità esistente delegittimando così un presidente che lui stesso ha scelto come suo successore e che nel corso degli anni si è rivelato un amico ed un alleato fedele.

Inoltre, molti esperti mettono in discussione l’idea, diffusa in certi ambienti occidentali ma anche russi, secondo cui le differenze tra Putin e Medvedev siano così profonde ed insanabili da mettere in ombra la convergenza di valori ed interessi. A tal proposito è molto interessante quanto affermato da Putin qualche tempo fa durante il meeting con il Valdai International Discussion Club: parlando del suo rapporto con il presidente disse che non esisteva alcuna tensione politica come accade invece in altri Paesi. Fino ad oggi sembra proprio che l’affermazione sia sostanzialmente corretta, questo però non significa che tra i due non esistano delle differenze di vedute, anzi. Si prenda ad esempio le differenze esistenti sulle seguenti cinque questioni che hanno un’importanza assoluta nella politica russa.

1. Economia: Medvedev, ragionando sulla crisi economica mondiale, ha definito l’economia russa come primitiva, non equilibrata, eccessivamente dipendente dall’esportazione di materie prime ed incapace di venire incontro ai bisogni delle persone. Serve dunque un cambiamento ed una modernizzazione. Al contrario Putin ha sostenuto che sotto il profilo economico la Russia è sulla giusta strada e la crisi economica, che è arrivata dall’esterno e non era connessa con l’economia del Paese, ha solo rallentato la marcia della Russia;

2. Corruzione: Medvedev ha condannato la corruzione cronica che affligge il Paese, a cominciare dalla macchina burocratica statale, e ne blocca lo sviluppo economico e politico. Per parte sua Putin ha anch’egli affermato che la corruzione in Russia esiste ma ha ricordato che tale problema è presente in molti altri Stati e stabilire se la Russia potrebbe fare di più contro la corruzione non è così facile da dimostrare;

3. Caucaso del Nord: a causa dei problemi politici, economici e sociali irrisolti, Medvedev ha definito il Caucaso russo il problema politico interno più serio del Paese ed ha indirettamente condannato il modo con cui il problema è stato gestito fino ad ora. Putin, cercando di smorzare i toni, ha sostenuto che ciò che sta accadendo in Caucaso del Nord non è terrorismo nel vero senso del termine ma piuttosto una lotta tra clan per la redistribuzione delle proprietà e che Ramzan Kadyrov (attuale presidente della Repubblica federata di Cecenia) non è solo un guerriero decisivo ma anche un grande leader economico ed un bravo ragazzo.

4. Libertà civili: Medvedev ha denunciato con forza l’arbitrarietà del potere che minaccia le libertà dei cittadini russi e li rende inermi di fronte ad esso. Il rimedio a tale stato di cose è l’edificazione di una cultura della libertà e dello spirito critico nelle persone. Al contrario Putin, fedele al suo stile schietto, ha ribadito poco tempo fa durante un’intervista che chi protesta scegliendo di ignorare il divieto di manifestare su Piazza del Trionfo a Mosca deve aspettarsi una manganellata in testa da parte della polizia;

5. Reset nelle relazioni con gli USA: Medvedev ha puntato molto sul reset politico e strategico con gli USA e da ciò ne è scaturito un risultato importante come il nuovo accordo START firmato lo scorso aprile. Molto resta da fare. Putin dice che vorrebbe tanto credere nel reset ma di fronte al riarmo georgiano da parte degli USA e del progetto di scudo antimissile americano da collocare in Europa Orientale nutre qualche dubbio.

Al momento, riteniamo che a tali differenze di vedute non si debba dare un’importanza svincolata dal contesto della normale dialettica tra due cariche istituzionali che si trovano a condividere (sebbene come abbiamo detto le differenze in termini di potere reale sono evidenti) il potere esecutivo.

Certo, potenzialmente, su tali differenze potrebbero sorgere spaccature e tensioni tra i due in grado di destabilizzare il sistema politico russo. Tuttavia, fino ad oggi, non possiamo non prendere atto del fatto che le possibilità che tale evento si verifichi siano quasi inesistenti. Ad oggi, per vari motivi che spaziano dall’amicizia alla consapevolezza di Medvedev di trovarsi in una posizione molto meno salda di quella di Putin, cosa che rende la fruizione dei poteri costituzionali di cui il presidente gode alquanto problematica, passando per una condivisione di valori ed obiettivi, a prevalere è stata un’atmosfera di generale cooperazione in cui però non sono mancati, e del resto bisognerebbe stupirsi del contrario, prese di posizioni differenti e volontà di portare avanti singoli progetti che non incontravano la piena approvazione dell’altro.

Last but not least, non dimentichiamo che uno dei più importanti fattori che fa pendere il piatto della bilancia verso la concordia e la collaborazione all’interno del tandem è il fatto che entrambi condividano l’obiettivo di rendere la Russia un Paese politicamente stabile, economicamente sviluppato e dinamico, più democratico (sebbene seguendo la via russa alla democrazia), attivo e determinante nell’arena internazionale in generale e nello spazio post sovietico in particolare.


Riflessioni conclusive

Dopo aver attentamente vagliato tutta una serie di fattori (sia personali, sia ‘pubblici’) siamo giunti alla conclusione che la caratteristica saliente del tandem Putin-Medvedev sia la prevalenza del primo sul secondo. È dunque corretta la visione di coloro che sostengono, senza esagerarne i contorni, che il presidente Medvedev sia una sorta di junior partner del primo ministro Putin. In un certo senso, questa è la più grande anomalia della politica interna russa: grazie al suo peso politico, Putin, in qualità di premier ha assunto quella centralità che spetterebbe al presidente. Mentre Medvedev, in modo speculare, è rilegato a quel ruolo relativamente secondario che normalmente spetta ai primi ministri russi. Ora, che le personalità e le capacità delle persone possano determinare dei mutamenti degli equilibri politici è cosa risaputa: durante gli anni novanta la statura morale e le qualità del premier Primakov (che fu primo ministro dal settembre 1998 al maggio 1999) misero sotto pressione il decadente Eltsin. Tuttavia, la preminenza che il primo ministro Putin detiene nella politica russa a discapito del presidente è un caso un pò differente rispetto al rapporto Eltsin-Primakov: attualmente non esistono le tensioni che si verificarono allora ed il presidente non accettò supinamente o con qualche distinguo il ‘protagonismo’ e l’autonomia di cui il premier godeva. Anzi, Eltsin diede il ben servito a Primakov nel maggio 1999.

La verità è che il tandem in Russia è un’anomalia che viene tenuta in piedi per coprire il fatto evidente di una disparità tra le due più alte cariche dello Stato a favore del premier che ha determinato un cambiamento dell’ordine costituzionale pur mantenendo inalterato il dettato costituzionale. Come più volte ribadito, il rapporto che dovrebbe intercorrere tra presidente e premier è quello tra due cariche in cui il primo si erge su un piano superiore rispetto al secondo e dove, nel caso di tensioni o differenze di vedute, il secondo rassegna le dimissioni ed il primo resta al suo posto.

Ora, tale anomalia può essere risolta, come sostengono molti a cominciare da certi esponenti del partito Russia Unita, riportando Putin alla presidenza e relegando, forse, Medvedev alla carica di primo ministro. Tale soluzione può funzionare nel breve periodo mentre per il lungo periodo è necessario che si trovino soluzioni razionali e funzionali che rafforzino il sistema politico nel suo insieme e lo rendano meno dipendente dal singolo politico e dalle reti di interessi che lo sostengono.

La scadenza del 2012 è più vicina di quanto si possa immaginare e sempre più spesso il tema delle prossime elezioni presidenziali irrompe sulla scena politica russa. Mentre Putin non ha ancora scoperto le sue carte (o almeno non tutte) ed ha più volte affermato che la scelta di chi sarà il candidato verrà presa di comune accordo con Medvedev, escludendo quindi in modo implicito che possa verificarsi una competizione elettorale tra i due, il presidente ha fatto sapere che se la gente lo sosterrà e se esisteranno le condizioni per poter portare avanti il suo programma potrebbe ricandidarsi per un secondo mandato. Tale eventualità sembra alquanto remota e, salvo colpi di scena, è molto probabile che sarà Vladimir Putin il vincitore delle prossime elezioni presidenziali che si terranno nel 2012. Quando ciò accadrà il tandem sarà archiviato e ricordato come una fase istituzionale passeggera prima del ritorno di Putin alla presidenza. È probabile (ed anche auspicabile viste le sue capacità e senso delle istituzioni) che Medveved possa trovare spazio nella futura compagine governativa in quanto Putin ha veramente bisogno di persone fedeli e con le idee chiare sul futuro della Russia sia a livello domestico che internazionale. Come dicevamo, l’archiviazione del tandem che seguirà al ritorno di Putin metterà sicuramente fine all’anomalia politico-istituzionale di cui abbiamo parlato, ma per fronteggiare le sfide che attendono il Paese servono riforme strutturali del sistema politico, economico e sociale di cui la Russia ha urgente bisogno e che persone come Medvedev possono aiutare a realizzare.


* Alessio Bini, dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna), collabora con “Eurasia”


Dilma Roussef è diventata la prima donna presidente del Brasile

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Con il trionfo di Dilma Rousseff s’impedisce la possibilità di rottura di un processo d’integrazione indipendente e autonomo che capeggia la locomotiva economica dell’America del Sud – il Brasile-, che non è solo economica, ma anche politica come ben lo indica il professor Luiz Moniz Bandeira, uno che conta a Itamaratí, quando afferma: “Lei continuerà a cercare di promuovere l’unione dell’America meridionale non solo come un blocco economico, il cui epicentro lo costituisce il MERCOSUR, ma anche come uno spazio geopolitico, capace di raggiungere un inserimento più proficuo a livello internazionale, concorrendo con altre masse geografiche, demografiche ed economiche, tali come la Cina, gli Stati Uniti, la Russia e l’India”. Per tale motivo è importante rileggere le dichiarazioni del cancelliere brasiliano, Celso Amorim, che segna una strategia geopolitica per il continente di fronte al nuovo mondo in formazione, vi invito ad ascoltare l’analisi che abbiamo eseguito lo scorso sabato nel programma “Il Club della Penna”, sul processo elettorale di domenica 31 ottobre in Brasile, con il Dr. Marcello Gullo e il sottoscritto”. – (http://www.hotshare.net/es/audio/324798-5015318c9e.html)

Carlos Pereyra Mele

Una nuova carta del mondo

Celso Amorim*

Ottobre 2010

Sette anni fa, quando si parlava della necessità di cambi nella geografia economica mondiale o si diceva che il Brasile e gli altri paesi avrebbero dovuto svolgere un ruolo più rilevante nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) o integrarsi in modo permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, molti reagivano con scetticismo.

Da allora, il mondo e, con esso, il Brasile, è cambiato a una velocità accelerata, e alcune presunte “verità” del passato si stanno arrendendo davanti all’evidenza dei fatti. Le differenze nel ritmo della loro crescita economica riguardo ai paesi sviluppati hanno trasformato i paesi in via di sviluppo in attori centrali dell’economia mondiale.

La maggiore capacità di articolazione Sud-Sud – nell’OMC, nel FMI, nell’ONU e nelle nuove alleanze, come il BRIC, – eleva la voce di paesi che prima si trovavano relegati in una posizione di secondo ordine. Quanto più dialogano e cooperano tra di loro i paesi in sviluppo, sono sempre più ascoltati dai ricchi. La recente crisi finanziaria ha reso manifesto in forma ancora più evidente il fatto che il mondo non può essere più governato da un consorzio di pochi.

Il Brasile ha tentato di osare svolgere il suo ruolo in questo nuovo scenario. Dopo sette anni e mezzo di governo del presidente Lula, la percezione che si ha del paese all’estero è un’altra. È innegabile il peso sempre maggiore che il Brasile, così come un gruppo di nuovi paesi, abbia oggi per quanto concerne il dibattito dei principali temi dell’agenda internazionale, dal cambio climatico al commercio, dalle finanze alla pace e alla sicurezza. Questi paesi contribuiscono con il dare un nuovo modo di osservare i problemi del mondo e concorrono a un nuovo equilibrio internazionale.

Nel caso del Brasile, quel cambiamento di percezione è stato dovuto, in primo luogo, alla trasformazione della realtà economica, sociale e politica del paese. Avanzamenti nelle voci più variegate, dall’equilibrio macroeconomico fino al riscatto del debito sociale, hanno fatto del Brasile un paese più stabile e meno ingiusto. Le qualità personali e il compromesso diretto del presidente Lula su argomenti internazionali hanno concorso per portare avanti il contributo brasiliano verso i principali dibattiti internazionali.

Il Brasile sta sviluppando una politica estera inclusiva e proattiva. Ci sforziamo per costruire coalizioni che vadano oltre le alleanze e i rapporti tradizionali, che cerchiamo, tuttavia, di mantenere e approfondire, come la formalizzazione della Relazione Strategica con l’Unione Europea e del Dialogo Globale con gli Stati Uniti.

L’eloquente crescita delle nostre esportazioni verso i paesi in vie di sviluppo e la creazione di meccanismi di dialogo e concertazione, come l’UNASUR, il G-20 nell’OMC, il Forum IBAS (India, Brasile e Africa del Sud) e il gruppo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) hanno rispecchiato quella politica estera universalista e libera da piccole visioni di ciò che può e deve essere il comportamento di un paese con le caratteristiche del Brasile.

La base di quella nuova politica è stato l’approfondimento dell’integrazione sudamericana. Uno dei principali punti attivi di cui dispone il Brasile sullo scenario internazionale è quello dell’armoniosa convivenza con i suoi vicini, cominciando dall’intensa relazione che abbiamo con l’Argentina. Il governo del presidente Lula si è impegnato, sin dal primo giorno, d’integrare il continente sudamericano mediante il commercio, l’infrastruttura e il dialogo politico.

L’accordo MERCOSUR – Comunità Andina ha dato origine, nella pratica, una zona di libero commercio che abbraccia tutta l’America meridionale. L’integrazione fisica del continente ha avnzato notevolmente, compreso il collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico. I nostri sforzi per la creazione di una comunità sudamericana hanno dato luogo alla creazione di una nuova entità: l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR).

Sulle basi di un’America del Sud più integrata, il Brasile ha contribuito nella creazione di meccanismi di dialogo e di cooperazione con i paesi delle altre regioni, fondati sulla percezione che la realtà internazionale non permette più la marginalizzazione del mondo in via di sviluppo. La formazione del G-20 dell’OMC, nella Riunione Ministeriale di Cancun del 2003, ha segnato la maturità dei paesi del Sud, cambiando definitivamente il modello della presa di decisioni nei negoziati commerciali.

L’IBAS ha risposto agli aneliti di concertazione fra tre grandi democrazie multietniche e multiculturali che hanno molto da dire al mondo per quanto concerne l’affermazione della tolleranza e della conciliazione tra sviluppo e democrazia. Oltre alla concertazione politica e la cooperazione tra i tre paesi, l’IBAS è diventato un modello per i progetti favorevoli alle nazioni più povere, dimostrando, nella pratica, che la solidarietà non è una caratteristica esclusiva dei paesi ricchi.

Abbiamo lanciato anche i summit dei paesi sudamericani insieme ai paesi africani (ASA) e ai paesi arabi (ASPA). Abbiamo costruito ponti e politiche tra regioni fino adesso distanti le une dalle altre, nonostante le loro specifiche caratteristiche naturali. Questo avvicinamento politico ha sfociato in notevoli progressi nell’area dei rapporti economici. Il commercio del Brasile con i paesi arabi si è quadruplicato in sette anni. Con l’Africa si è moltiplicato per cinque ed è arrivato a più di 26.000 milioni di dollari, cifra superiore a quella dello scambio con i soci tradizionali come la Germania e il Giappone.

Questi nuovi accordi aiutano a cambiare il mondo. Sul versante economico, la sostituzione del G-7 con il G-20 come principale richiesta di deliberazione sui percorsi della produzione e delle finanze internazionali, è un riconoscimento delle decisioni concernenti l’economia mondiale, prive di legittimazione ed efficacia senza l’intervento dei paesi emergenti.

Anche sul versante della sicurezza internazionale, quando il Brasile e la Turchia convinsero l’Iran affinché assumesse i compromessi previsti nella Dichiarazione di Teheran, si dimostrò che nuove visioni e forme di agire sono necessarie per lottare con temi fino allora trattati in forma esclusiva dagli attuali membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Nonostante le resistenze che si sono verificate in un primo momento nei confronti di un’iniziativa che è nata fuori dallo stretto club delle potenze nucleari, siamo sicuri che il cammino del dialogo lì indicato servirà di base per i futuri negoziati e per un’eventuale soluzione della questione.

Una buona politica estera richiede prudenza. Ma esige anche coraggio. Non si può svolgere nella timidezza o nel complesso d’inferiorità. Spesso si sente dire che i paesi devono agire d’accordo ai loro mezzi, il che rappresenta quasi una ovvietà. Ma il maggiore errore è di sottostimarli.

Lungo questi quasi otto anni il Brasile ha agito con coraggio e, al pari di altri paesi in sviluppo, ha cambiato il suo posto nel mondo. Quei paesi sono visti oggi, persino dagli eventuali critici, come attori che gli spettano sempre maggiori responsabilità e un ruolo sempre più importante nelle decisioni che interessano i destini del pianeta.

*Celso Amorim è ministro dei Rapporti Esteri del Brasile.

(Traduzione di V. Paglione)

La autonomía de la India y el contexto multipolar

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India, a raíz de la considerable heterogeneidad climática y geomorfológica, de la abigarrada variedad étinica, de de la amplia variedad de culturas y religiones y de la falta de homogeneidad socioeconómica que la caracterizan, parece haber alcanzado con suceso una regla que hizo que los grandes imperios lograran ser grandes: es decir, aquella del mantenimento de la unidad en la diversidad. El “milagro” de la unidad nacional de la India no se debe solamente a la ordenación constitucional y a la forma de gobierno federal que la populosa península eurasiática se ha dado después de la independencia de 1947, y tampoco porque la Unión pueda ser considerada la “más grande democracia del mundo”, según recitaba un trillado eslogan de hace algún tiempo.

La conservación de la unidad en un sistema nacional así compuesto y denso de tensiones se podría explicar, sin embargo, con mayor eficacia, además que por medio de una específica cultura de gobierno, bien sedimentada entre las élites intelectuales y políticas del país, también por el equilibrio que se ha instaurado en las líneas de fuerza que determinan el cuadro geopolítico asiático y aquellas relativas a la expansión occidental en la masa eurasiática.

Por lo que concierne la peculiar cultura de gobierno, con frecuencia definida como “laica” y “secular” en virtud del carácter tolerante por ella manifestada “ y a pesar de la “corrección”aportada en la Constitución de 1976 que define la India como república democrática y soberana), es necesario referirse a las grandes, diversas y duraderas tradiciones –desde la hinduista, a la budista y a la islámica- que han caracterizado a toda la historia de India, más bien que a la concepción democrática importada por Occidente.

Este tipo de orientación, fundamentalmente basado en un original principio del equilibrio de potencia eurasiático, ha permitido a India salvaguardar, aún entre muchas dificultades económicas y sociales y empujes centrífugos, la unidad del país, además de expresar un cierto nivel de independencia en las elecciones estratégicas de fondo, como, por ejemplo, aquellas que conciernen la energía nuclear, los armamentos, la industria aerospacial y la potenciación de la marina civil y militar. Durante su joven existencia, la Unión ha atravesado con mucha capacidad de adaptación los diversos contextos geopolíticos, logrando siemppre captar los márgenes de maniobra útiles para confirmar su propia autonomía. Durante la fase bipolar, considerada por la clase dirigente de la India como la larga era de la descolonización, Nueva Delhi, no obstante constituía junto con Moscú un sólido eje motivado por la percepción terrestre de la amenaza, particularmente representada por Pequín y Islamabad, destacó su propia independencia de la lógica de los dos bloques, simbólica y prácticamente, sea adhiriendo al movimento de los países no alineados, sea renunciando al Tratado de no proliferación nuclear. Durante el transcurso del “momento unipolar”, la India adoptó la doctrina de los círculos concéntricos propuesta por el ministro Gujral. Esta propuesta, basada en la cooperación regional sobre la valoración de la propia autonomía y sobre el vigoroso crecimiento económico e industrial de aquellos años, le permite a la India sobresalir como actor hegemónico en Asia meridional. Actualmente, en un contexto decididamente multipolar o, según la definición de algunos analistas, policéntrico, la percepción terrestre de la amenaza y la dimensión oceánica todavía parecen constituir las coordenadas dentro de las cuales Nueva Delhi actúa una propia geopolítica. Esta última, que aproximadamente incluye la doctrina Gujral, aspira dotar a la India de un status de potencia no sólo regional, sino sobre todo global. Esta doctrina se expresa en por lo menos cuatro ámbitos principales que respectivamente conciernen el tablero regional, el sureste y Oriente, el área del Golfo y las directrices sur-sur que interesan, además de India, también África y América del Sur. Además de estos cuatro ámbitos que se han bosquejado, sinérgicamente encaminados a ratificar la autonomía de la India en el escenario mundial, hay que añadir también las alianzas estratégicas que Nueva Delhi está estrechando con Moscú y, últimamente, también con Pequín, para el conseguimento de la estabilidad en Asia central.

Por lo que respecta el tablero regional, y a pesar de la guerra en Afghanistán y las difíciles relaciones con Pakistán y Bangladesh, India, mediante una visión política de negociación bilateral con los países del área, reunidos en la Asociación de Asia meridional para la Cooperación Regional ( Bangladesh, Bhutan, Maldivas, Nepal, Pakistán, Sri Lanka, Afganistán), en pocos años ha cobrado un rol importante que la muestra como candidato para desempeñar la función de eje en toda la zona. Para la consolidación del propio potencial geopolítico, India tiende a asegurarse amistades a Oriente y en el sureste asiático que sean estables y estratégicas, fundadas en la recíproca conveniencia. Los países hacia los cuales Nueva Delhi dirige su atención son, en particular, Indonesia y Japón. Su amistad con Jakarta y con Tokyo que, como todos saben, respectivamente respaldan los programas espaciales y el desarrollo industrial de la Unión, para Nueva Delhi constituye una especie de dispositivo geopolítico con respecto a las fluctuantes relaciones que mantiene con Pequín.

Hacia el oeste, sin embargo, India parece querer jugar la carta de la cooperación. India, necesitada de suministros energéticos útiles para el desarrollo y la potenciación de su industria, mantiene relaciones importantes con el Consejo de Cooperación del Golfo, el cual reúne a Arabia Saudita, Oman, Kuwait, Bahrain, Qatar y los Emiratos Árabes Unidos, y con la República islámica de Irán. Presentándose como un candidato interlocutor indispensabile y un buen cliente para los países del Golfo, se ha garantizado una vía de expansión hacia occidente. Vale la pena hacer notar que si la relación entre Nueva Delhi y Teherán asume un significado geopolítico de importancia fundamental en el marco de la estrategia de contención de Pakistán, lo mismo se podría revelar, en el medio plazo, problemático para las relaciones con Tel Aviv y, además, podría ser instrumentalizada por Washington, en el caso de que India asumiera posiciones proeurasiáticas con respecto a la cuestión nuclear iraní.

En el ámbito de la Cooperación sur-sur, Nueva Delhi en los últimos diez años ha construído sólidas relaciones con Brasilia y Pretoria, entrando en competición, bajo algunos aspectos, también con China. Considerando las estrechas relaciones indoaustralianas y la importancia de la península de la India en el homónimo océano, los acuerdos con Brasil y Suráfrica, en la que India es también socio del Forum IBSA (India, Brasil, Suráfrica), parecen asumir una específica geopolítica, útil para la consolidación del sistema multipolar, el surgimiento de Australia como nuevo actor regional y, finalmente, la consolidación de Nueva Delhi en el escenario mundial.

Los esfuerzos que en la actualidad India lleva adelante para el mantenimiento de su propia autonomía y su propia unidad, además del desarrollo económico industrial, serán en el medio y largo plazo, recompensados sólo si Nueva Delhi basará sus propios intereses geopolíticos en el ámbito de una perspectiva eurasiática y multipolar; esta perspectiva, de hecho, resolvería su elección entre ser una simple potencia regional con aspiraciones internacionales, o bien una potencia mundial con intereses regionales.


* Director de Eurasia – Rivista di studi geopolitici (www.eurasia-rivista.org ) y de la colección Quaderni di geopolitica (Edizioni all’insegna del Veltro), Parma, Italia. Cofundador del Istituto Enrico Mattei di Alti Studi per il Vicino e Medio Oriente, Ha dictado cursos y seminarios de geopolítica en universidades y centros de investigación y análisis. Docente del Istituto per il Commercio Estero (Ministerio de Asuntos Exteriores italiano), dictando cursos en distintos países, como Uzbekistán, Argentina, India, China, Libia.

(Traducido por V. Paglione)

Indian Autonomy and Multipolar Context

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In spite of its great climatic and geo-morphologic heterogeneity, of its diverse ethnic groups, of its large variety of cultures and religions, and of the consequent lack in socioeconomic homogeneity, India seems to have successfully followed the rule that made the ancient Empires great, i.e. the preservation of unity in diversity. However, the “miracle” of the Indian national unity is due not only to the constitutional law or to the form of federal government that the densely-populated Euro-Asiatic peninsula has adopted following the Independence of 1947, and not even to the fact that the Union would be, according to a worn-out slogan enjoying great favour until recently, the “greatest democracy in the world”. The preservation of unity in such a diversified national system, moreover marked by conflicts, could be more clearly explained both by a widespread specific political culture among the intellectual and political élite in the country, and by the balance between two power systems: one operating within the frame of Asian geopolitics, the other represented by the western expansionism in the Euro-Asian landmass.

The peculiar political culture of India has often been referred to as “laical” and “secular” by virtue of its patent tolerance, and indeed in 1976 the terms “socialist” and “secular” have been added to the Constitution in the definition of India as democratic sovereign Republic.

However, it is more appropriate to consider it as resulting from the great, diversified and long lasting traditions present in the entire history of India – either the Hindu, or the Buddhist, or the Islamic traditions – rather than to the modern concept of democracy imported from the West. In fact, this last doesn’t fit well with the management of such a complex system moreover organized on different communities, as the Indian one is.

As for the geopolitics, it should be pointed out that the presence in Asia of two additional great entities, such as China and Russia, as well as the uninterrupted pressure from the western countries under the leadership of the USA, have pushed India to establish distinct relationships with Beijing and Moscow, however sharing with them the contrast towards the western political, economical and military expansionism.

Such political trends basically based on the balance between Euro-Asian power and western power, has enabled India to maintain the unity of the Country, even if among many economic and social difficulties and centrifugal forces. Furthermore India has been able to chooce with a certain degree of independence its own energy strategy (the nuclear choice), and industrial strategy, including both civil and military industry (ballistic arms, aerospace, Navy and merchant navy).

In the space of its short existence, the Union has obtained good results operating in different geopolitical contexts the right choices, always asserting its own autonomy.

During the bipolar period, that Indian leaders felt as the long era of de-colonization, New Delhi, despite the solid axis with Moscow, motivated by the perceived threat potentially coming from the land (terrestrial threat) and constituted especially by Beijing and Islamabad, stressed its independence from the logic of two blocks, symbolically and practically, joining the Non-Aligned Movement and waiving the nuclear Non-Proliferation Treaty.

In the context of the “unipolar moment”, India adopted the doctrine of concentric circles proposed by Minister Gujral. This particular geopolitical doctrine basically focused on the three following elements: regional cooperation policy; enhancement of its geopolitical autonomy; and massive economic and industrial growth that occurred during those years, allowed India to emerge as the dominant player in South Asian area.

Today, in the frame of a decidedly emerging multipolar or, according to the definition of some analysts, polycentric system, the perception of the terrestrial threat and the oceanic dimension still seem to be the coordinates within which New Delhi implements its own geopolitics. This latter one (which more or less includes the Gujral Doctrine items) aims to provide India the status of regional and, under some aspects, global power. India’s today geopolitics is articulated in at least four main areas which concern respectively the regional chessboard, the South East and East, the Gulf and South-South vector interests, which involves India, Africa and South America.

To the four areas outlined above, synergistically aimed to reaffirm the independence of India on the world stage, we have to add some strategic alliances that New Delhi is cultivating with Moscow and, most recently, with China in order to achieve stability in Central Asia.

Regarding the regional arena, despite the war in Afghanistan and difficult relations with Pakistan and Bangladesh, India, through a deliberate and bilateral policy of negotiation with the countries of the area, joined in the Association for South Asian Regional Cooperation (Bangladesh, Bhutan, Maldives, Nepal, Pakistan, Sri Lanka, Afghanistan), in the space of few years, has reached an important role which candidates New Delhi to act as a pivot of the whole area.

In view of consolidating its geopolitical potential, India seeks to ensure strategic and enduring friendships in East and Asian Southeast, based on mutual convenience. The countries where New Delhi focuses its attention are, in particular, Indonesia and Japan. Friendship with Jakarta and Tokyo, which, as is well known, support respectively the Union’s space programs and industrial development, is, for New Delhi, also a kind of geopolitical device in relation to the up and down relationship with Beijing.

Regarding West, however, India seems to play the card of cooperation. India, in need of energy supplies useful for developing and enhancing its industry, maintains important relationships with the Gulf Cooperation Council, which includes Saudi Arabia, Oman, Kuwait, Bahrain, Qatar and United Arab Emirates and the Islamic Republic of Iran.

Nominating itself as an indispensable interlocutor and a good customer for the Gulf countries, India has secured a way of westward expansion. It should be noted that if the relationship between New Delhi and Tehran plays a vital geo-political significance within the containment strategy of Pakistan, the same could become, in the medium term, problematic with regard to the relations with Tel Aviv and also be manipulated by Washington, whenever India should take pro-Eurasian positions on the Iranian nuclear issue.

In the context of South-South Cooperation, New Delhi has built over the past ten years, very strong relationships with Brasilia and Pretoria, competing in some respects, even with China. Considering the close relations between India and Australia and the centrality of the Indian peninsula in the homonymous Ocean, the agreements with Brazil and South Africa, which India is also associated within the IBSA Forum (India, Brazil, South Africa), seem to take a geopolitical specificity useful to consolidate the multipolar system, the emergence of Australia as a new regional player and finally the strengthening of New Delhi on the global arena.

The efforts currently led by India to maintain its independence, its unity and economic and industrial development will be winning, in the medium and long term, only if New Delhi will focus its geopolitical interests on the framework of a Eurasian and multipolar perspective. Such perspective, in fact, would solve its choice between being a mere regional power with international aspirations or a global power with regional interests.


*Tiberio Graziani is director of Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici and president of IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie)

L’autonomia indiana e il contesto multipolare

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Prefazione a “La sfida dell’India” di Vincenzo Mungo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2010

L’India, a fronte della grande eterogeneità climatica e geo-morfologica, del variegato assortimento etnico, dell’ampia varietà di culture e religioni e della disomogeneità socio-economica che la contraddistinguono, sembra aver perseguito con successo una regola che ha reso grandi gli antichi imperi: quella del mantenimento dell’unità nella diversità. Il “miracolo” dell’unità nazionale indiana non è però soltanto dovuto all’assetto costituzionale ed alla forma di governo federale che la popolosa penisola eurasiatica si è data dopo l’indipendenza del 1947, e neanche al fatto che l’Unione sarebbe la “più grande democrazia al mondo”, secondo un frusto slogan di qualche tempo fa.

La conservazione dell’unità in un sistema nazionale così composito e fitto di tensioni potrebbe essere spiegata, invece, più efficacemente, oltre che da una specifica cultura di governo, ben sedimentata tra le élites intellettuali e politiche del Paese, dall’equilibrio instauratosi tra le linee di forza determinanti il quadro geopolitico asiatico e quelle relative all’espansione occidentale nella massa eurasiatica.

Per quanto concerne la peculiare cultura di governo, sovente definita come “laica” e “secolare” in virtù del carattere tollerante che essa manifesta (e nonostante la “correzione” del 1976 apportata alla Costituzione per aggiungere gli aggettivi “laico” e socialista” alla definizione dell’India come repubblica democratica e sovrana), occorre invece riferirsi alle grandi, varie e durevoli tradizioni – da quella indù, a quella buddista, a quella islamica – che hanno caratterizzano l’intera storia dell’India, piuttosto che alla concezione democratica importata dall’Occidente. Quest’ultima, infatti, incardinata sull’ideologia dei diritti dell’individuo e dello stato-nazione, male si accorda alla gestione di un sistema complesso articolato su comunità differenziate, quale è quello indiano

In riferimento alla questione geopolitica, va rilevato che la presenza, in Asia, di altre due grandi entità, come la Cina e la Russia, e la continua pressione dell’Occidente a guida statunitense sulla massa eurasiatica hanno costretto l’ex perla dell’Impero britannico per un verso a instaurare rapporti diversificati con Pechino e Mosca, per un altro a fare fronte comune con i due giganti eurasiatici contro l’espansionismo politico, economico e militare dell’Occidente.

Tale orientamento, sostanzialmente basato su un originale principio dell’equilibrio di potenza eurasiatico, ha permesso all’India di salvaguardare, pur fra tante difficoltà economico-sociali e spinte centrifughe, l’unità del Paese, nonché di esprimere un certo grado di indipendenza nelle scelte strategiche di fondo, quali, ad esempio, quelle relative al nucleare, agli armamenti balistici, all’industria aerospaziale ed al potenziamento della marina civile e militare. Nell’arco della sua giovane esistenza, l’Unione ha attraversato con grande capacità di adattamento i diversi contesti geopolitici, riuscendo sempre a cogliere in essi i margini di manovra utili per confermare la propria autonomia.

Durante la fase bipolare, avvertita dalla classe dirigente indiana come la lunga era della decolonizzazione, Nuova Delhi, pur costituendo con Mosca un solido asse, motivato dalla percezione terrestre della minaccia, costituita in particolare da Pechino e Islamabad, sottolineò la propria indipendenza dalla logica dei due blocchi, simbolicamente e praticamente, sia aderendo al movimento dei Paesi non allineati sia rinunciando al Trattato di non proliferazione nucleare.

Nel corso del “momento unipolare”, l’India adotta la dottrina dei cerchi concentrici proposta dal ministro Gujral. Questa, imperniata sulla cooperazione regionale, sulla valorizzazione della propria autonomia e sulla poderosa crescita economica ed industriale di quegli anni, permette all’India di emergere quale attore egemone in Asia meridionale.

Oggi, in un contesto decisamente multipolare o, secondo la definizione di alcuni analisti, policentrico, la percezione terrestre della minaccia e la dimensione oceanica paiono costituire ancora le coordinate entro cui Nuova Delhi attua una propria geopolitica. Quest’ultima, che include a grandi linee la dottrina Gujral, mira a dotare l’India di uno status di potenza non solo regionale, ma soprattutto globale.

Essa si esprime in almeno quattro ambiti principali che riguardano rispettivamente lo scacchiere regionale, il Sud Est e l’Oriente, l’area del Golfo e la direttrice Sud-Sud che interessa, oltre l’India, l’Africa e l’America meridionale.

A questi quattro ambiti sopra delineati, tesi sinergicamente a ribadire l’autonomia indiana nello scenario mondiale, occorre aggiungere anche le intese strategiche che Nuova Delhi coltiva con Mosca e, ultimamente, anche con Pechino, ai fini della stabilità in Asia centrale.

Per quanto riguarda lo scacchiere regionale, nonostante la guerra in Afghanistan e le difficili relazioni con il Pakistan e il Bangladesh, l’India, attraverso una mirata politica di negoziazione bilaterale con i Paesi dell’area, riuniti nell’Associazione dell’Asia meridionale per la cooperazione regionale (Bangladesh, Bhutan, Maldive, Nepal, Pakistan, Sri Lanka, Afghanistan), ha assunto in pochi anni un importante ruolo che la candida a svolgere la funzione di stato perno dell’intera zona.
Ai fini del consolidamento del proprio potenziale geopolitico, l’India tende ad assicurarsi a Oriente e nel Sud Est asiatico amicizie stabili e strategiche, basate sulla reciproca convenienza.

I Paesi verso cui Nuova Delhi rivolge la propria attenzione sono, in particolare, l’Indonesia e il Giappone. L’amicizia con Giacarta e Tokyo, che, come noto, sostengono rispettivamente i programmi spaziali e lo sviluppo industriale dell’Unione, costituisce per Nuova Delhi anche una sorta di dispositivo geopolitico in relazione agli altalenanti rapporti che intrattiene con Pechino.

Verso Ovest, invece, l’India sembra giocare la carta della cooperazione. L’India, bisognosa di forniture energetiche utili per lo sviluppo e il potenziamento della propria industria, mantiene importanti relazioni con il Consiglio di cooperazione del Golfo, che riunisce l’Arabia Saudita, l’Oman, il Kuwait, il Bahrain, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, e con la Repubblica Islamica dell’Iran. Candidandosi come un interlocutore indispensabile e un buon cliente per i Paesi del Golfo, l’India si è garantita una via di espansione verso occidente. Occorre rilevare che se il rapporto tra Nuova Delhi e Teheran assume un significato geopolitico di fondamentale importanza nel quadro della strategia di contenimento del Pakistan, lo stesso potrebbe rivelarsi, nel medio periodo, problematico per le relazioni con Tel Aviv ed inoltre essere strumentalizzato da Washington, qualora l’India assumesse posizioni proeurasiatiche sulla questione del nucleare iraniano.

Nell’ambito della Cooperazione Sud-Sud, Nuova Delhi ha costruito, negli ultimi dieci anni, solide relazioni con Brasilia e Pretoria, entrando in competizione, per alcuni aspetti, anche con la Cina. Considerando gli stretti rapporti indo-australiani e la centralità della penisola indiana nell’omonimo oceano, le intese con il Brasile e il Sud Africa, cui l’India è associata anche nel Forum IBSA (India, Brasile, Sud Africa), paiono assumere una specificità geopolitica utile al consolidamento del sistema multipolare, all’emersione dell’Australia quale nuovo attore regionale ed infine al rafforzamento di Nuova Delhi sullo scacchiere globale.

Gli sforzi che attualmente l’India conduce per il mantenimento della propria autonomia e della propria unità nonché per lo sviluppo economico industriale saranno, nel medio e lungo periodo, premiati soltanto se Nuova Delhi impernierà i propri interessi geopolitici nel quadro di una prospettiva eurasiatica e multipolare; tale prospettiva, infatti, risolverebbe la sua scelta tra l’essere una semplice potenza regionale con aspirazioni internazionali oppure una potenza mondiale con interessi regionali.

Edizioni all’insegna del Veltro

Il BRIC al Consiglio di sicurezza dell’ONU

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Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2010/10/31/bric-at-unsc.html 31.10.2010


La scelta dell’India, questo mese, a membro non permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC), ha catapultato il Brasile – Russia – India – Cina (BRIC) al più alto organismo internazionale come forza con cui fare i conti. È un argomento di dibattito in che misura e in quali principi comuni in queste nazioni porrà un fronte comune su varie questioni internazionali in un mondo pieno di molteplici sfide. Certo, la posta è alta in questa politica in continua evoluzione dell’era post-guerra fredda, e altrettanto certamente le prospettive non sono mai apparse più luminoso con queste nazioni che coordinano le loro strategie su diverse questioni, che vanno dal sistema degli stati in evoluzione, alla questione Iran, alla riforma degli organismi internazionali e così via.
Pur esprimendo giubilo per la scelta dell’India, gli affari esteri indiani hanno fatto una dichiarazione cauta, nel senso che l’India avrà un ruolo responsabile durante la gestione delle questioni che sorgeranno nel Consiglio di Sicurezza. Non può essere una pura coincidenza che i prossimi mesi di questo anno, si avranno in India le visite dei più importanti giocatori mondiali. Mentre novembre sarà testimone della visita del Presidente degli Stati Uniti e del presidente francese, il mese di dicembre vedrà la visita del presidente russo e del Premier cinese. Infatti, la complessa rete di relazioni ha reso gli allineamenti emergenti più importanti, in cui il ruolo del BRIC  certamente conterà di più nei prossimi anni. E in questo scenario emergente, il Consiglio di sicurezza sarà certamente un campo da gioco per le varie potenze con obiettivi complessi.
Con i conflitti in tutto il mondo che ruotano attorno alle divisioni religiose, etniche, geografiche e altre identità distinte, o una qualsiasi combinazione di queste divisioni; il ruolo degli Stati nazionali è certamente divenuto evidente, mentre nel nuovo ordine mondiale emergente gli Stati nazionali multietnici e dal quadro pluralistico, non hanno accettato l’idea della separazione o della secessione. Lo sviluppo curioso è che, mentre una nazione o gruppo di nazioni sono pronte a indebolire le altre nazioni attraverso la promozione  in vari modi di gruppi secessionisti, esse condannano veemente le stesse cose nei loro territori. La logica sembra essere spiegabile, nel gioco politico delle nazioni, ma questi giochi subdoli hanno causato danni incalcolabili al concetto stesso di Stato-nazione.
Due casi spiegano questa complessità. Mentre il caso del Kosovo è stato perseguito con vigore da alcune potenze occidentali, vivisezionando lo stato nazionale della Serbia, il caso apparente di Sud Ossezia e Abkhazia sembrava essere stato classificato come un caso di avventurismo, in particolare da alcuni paesi occidentali. Qui, l’argomento da parte di alcuni altri paesi, sembra plausibile, se il Kosovo, con una chiara identità, ha il diritto di secessione dalla Serbia, lo stesso diritto deve essere concesso alle regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, dalla Georgia. La recente legge del governo georgiano di permettere a persone del Caucaso settentrionale della Russia, senza visto, di soggiornare fino a 90 giorni può, tra l’altro, infiammare le tendenze separatiste della federazione russa. In realtà, le aspirazioni alla sovranità di identità distinte in tutto mondo, sono infinite e minacciano il nucleo dello stesso sistema Stato-nazione. La domanda sorge spontanea: il BRIC può giocare un ruolo determinante nell’arrestare questa tendenza, che gli stati nazionali sono ansiosi di giocare subdolamente l’uno contro l’altro? Può il BRIC, come gruppo, avere un ruolo in seno alle Nazioni Unite, e con la loro crescente influenza, poter svolgere un ruolo efficace per ristabilire la credibilità del sistema degli esistenti stati-nazione?
Certamente la questione iraniana sarà predominanti nelle Nazioni Unite, nei prossimi mesi, nonostante le sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza. Le nazioni BRIC possono coordinare le loro politiche adottando un approccio comune sulla questione Iran. l’Iran, il 25 ottobre, ha dichiarato di aver iniziato il caricamento del combustibile nel nocciolo del suo impianto nucleare di Bushehr.  Anche se il vice presidente dell’Iran ha dichiarato che lo scopo del reattore è ‘produrre energia elettrica da metà febbraio (2011),’ il programma può essere visto con sospetto da molti paesi, in particolare da parte dell’Occidente. Il BRIC può svolgere un ruolo efficace nel dare trasparenza all’intero processo. Su una scala più ampia, i paesi BRIC possono estendere la loro agenda sviluppando il consenso sul disarmo nucleare mondiale. Questa può essere una questione spinosa, per i differenti approcci che i membri sostengono. L’India può regolare nuovi incontri nel club nucleare, per favorire il processo di disarmo, ma certamente ancora vi è un ruolo che il BRIC può svolgere efficacemente nel processo di disarmo, in particolare, quando la rappresentanza di questi paesi, nel più alto corpo decisionale, appare più plausibile.
Altre questioni spinose come le riforme delle istituzioni globali, quale il Consiglio di sicurezza stesso e la riforma degli organismi finanziari globali, come la Banca Mondiale e FMI, emergeranno prepotentemente nei prossimi mesi. Il BRIC come gruppo, ha già enfatizzato questo processo di riforma in molte occasioni. La sua piena rappresentanza nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, le fornirà l’influenza intesa ad accelerare ulteriormente il processo di riforma. Su molte altre questioni controverse, come il cambiamento climatico, le tensioni Af-Pak, la questione Myanmar e la crisi in Nepal, o su questioni come il terrorismo globale, il BRIC è in grado di fornire la direzione e l’impulso alle deliberazioni del Consiglio di sicurezza, in modo che i problemi possano essere affrontate non sotto l’egida di una potenza o di un gruppo di potenze, ma secondo le leggi e le norme internazionali.
I politici indiani hanno punti di vista simili per quanto riguarda il profilo emergente dell’India e le sue relazioni con gli altri membri del BRIC, e su come questo gruppo possa svolgere un ruolo efficace nel Consiglio di sicurezza. Nei prossimi giorni si assisterà probabilmente a una maggiore introspezione da parte della dirigenze politica indiana, per quanto riguarda il modo di esplorare questo nuovo sviluppo. Shyam Saran, che era il Segretario agli Esteri del governo indiano e rappresentante del primo ministro Manmohan Singh in molti eventi internazionali diplomatici, ha un punto di vista simile su come l’India debba coordinarsi con gli altri paesi allineati, come il BRIC, per avere un’influenza determinante sul processo decisionale al Consiglio di Sicurezza.  Secondo lui, potrebbe essere necessario istituzionalizzare le nostre consultazioni con i nostri partner del BRIC “
in modo da avere una gamma di opzioni a nostra disposizione, nello svolgere il nostro ruolo come membri del Consiglio.” Allo stesso modo, Shashi Tharoor, che è stato fino a poco tempo fa, ministro di Stato per gli Affari Esteri indiani e attualmente delegato generale indiano alle Nazioni Unite, ha sostenuto, in un articolo del quotidiano indiano Deccan Herald, il 29 ottobre 2010, che l’India deve esplorare le opzioni con gruppi come il BRIC, per fornire orientamenti e forme decisionali al Consiglio di sicurezza dell’ONU. Secondo lui, molte associazioni internazionali tra cui il BRIC, di cui l’India è un membro, saranno rappresentati al Consiglio di sicurezza dell’ONU e la situazione offre una leva a questi paesi, per influenzare il processo decisionale su varie questioni, tra cui il cambiamento climatico. Un altro noto studioso di origine indiana, Kishore Mehbubani, ha sostenuto sul quotidiano Indian Express, il 30 ottobre 2010, che anche se l’ingresso dell’India nel Consiglio di sicurezza dell’ONU non potesse avere un grande impatto sul processo decisionale del supremo organo,  tuttavia essa fornirà alle potenze emergenti, tra cui l’India, una occasione per svolgere un ruolo cruciale in questo corpo. Ci si possono aspettare maggiori dichiarazioni simili da studiosi e responsabili politici indiani, nei prossimi giorni.
Le Nazioni Unite che sono emerse dalle macerie della seconda guerra mondiale, non possono essere realmente governate dalle equazioni fondate più di sessant’anni fa. Nell’ordine mondiale emergente, che non è né bipolare, né unipolare, e che è anche disposto a cambiare per accogliere le realtà emergenti delle situazioni post-guerra fredda, il Consiglio di Sicurezza deve adattarsi alle realtà emergenti. In questo mutato scenario, il BRIC può svolgere un ruolo positivo, e la sua presenza come gruppo nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, ha certamente migliorato la sua posizione contrattuale e potere.


* Il Dr. Debidatta Aurobinda Mahapatra fa parte della facoltà di ricerca presso il Centro per gli Studi Eurasiatici, Università degli Studi di Mumbai, in India.


Copyright 2010 © Strategic Culture Foundation

E’ gradita la ripubblicazione dell’articolo a condizione del collegamento ipertestuale diretto al giornale on-line “Strategic Culture Foundation” (www.strategic-culture.org).

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
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Iraq: la guerra sui numeri delle vittime

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Il giorno 1 maggio 2003, un George W. Bush visibilmente commosso annunciò dal ponte della portaerei USS Abraham Lincoln, rientrata poco prima da una missione sul Golfo, la fine delle “principali operazioni di combattimento”, e dichiarò che gli Stati Uniti e i loro alleati avevano prevalso nella battaglia in Iraq.

La guerra, iniziata nel marzo dello stesso anno, aveva visto la “Coalizione dei Volonterosi”, nome dato da Bush stesso al gruppo di paesi che avevano inviato le proprie truppe a supporto di quelle statunitensi, abbattere il regime di Saddam Hussein in soli 21 giorni di combattimenti, e occupare l’Iraq in poco più di 40.

Alle spalle di Bush, era visibile un enorme striscione appeso alla cabina di controllo della portaerei, su cui figurava, su sfondo a stelle e strisce, la scritta “Mission Accomplished”, Missione Compiuta.

Più di sette anni dopo, quasi alla fine del 2010, l’esercito statunitense e alcuni suoi alleati sono ancora in Iraq, impantanati in una sanguinosa guerra civile il cui numero di vittime, pur essendo argomento di controversia, è stimato in parecchie decine di migliaia.

Nel frattempo, diversi rappresentanti della Casa Bianca si sono peritati di chiarire come lo striscione Mission accomplished fosse riferito non tanto alle operazioni dei “Volonterosi” in Iraq, quanto piuttosto alla singola missione appena terminata dalle truppe della USS Abraham Lincoln.

La guerra dei numeri

La pubblicazione su Wikileaks, il sito Internet dove anonimi giornalisti, programmatori, ingegneri e matematici indipendenti pubblicano notizie e informazioni “riservate”, dei cosiddetti Iraq War Logs, lo scorso 22 ottobre, ha scatenato una serie di reazioni contrastanti a livello internazionale.

I diari sulla guerra irachena, infatti, consistono in circa 391.000 documenti prodotti dalle Forze Statunitensi in Iraq e classificati dalle stesse con l’acronimo di SIGACT, Significant Action in the war (“Azioni significative nella guerra”): si tratta dunque di rapporti ufficiali di fatti visti o uditi tra il 2004 e il 2009 dalle truppe impegnate direttamente in territorio iracheno.

L’analisi di tali documenti rivela come nel periodo tra il 2004 e il 2009 siano state registrate ufficialmente 109.032 vittime in Iraq, tra i quali sarebbero compresi 66.081 civili, 23.984 “insorgenti”, 15.196 membri delle forze governative irachene e 3.771 membri delle forze della coalizione. Lo stesso Wikileaks spiega come nello stesso periodo in Afghanistan, a parità di popolazione, il bilancio delle vittime ammonti a 20.000, con il risultato che la guerra irachena risulta 5 volte più letale del conflitto in suolo afghano.

Tuttavia, il dato che più colpisce l’attenzione è la predominanza delle vittime civili sulle forze combattenti di ogni tipo (militari iracheni e internazionali, insorgenti). A tale proposito, i diari sulla guerra in Iraq danno notizia di circa 15.000 vittime civili che precedentemente non erano mai state registrate.

Sulla questione dei numeri delle vittime civili in Iraq una voce importante è il progetto Iraq Body Count (IBC), fondato nel gennaio del 2003 da volontari statunitensi e britannici che si occupano di fornire un costante aggiornamento dei decessi dei soli civili in Iraq, sulla base del confronto delle notizie riportate dai media sulla morte di civili o sul ritrovamento di cadaveri, e sui dati forniti da ospedali e obitori locali, Organizzazioni non Governative e altre figure ufficiali.

I dati raccolti finora da IBC sono stati integrati da quelli forniti dai War Logs: ne risulta la scoperta dell’esistenza di 15.000 vittime civili che precedentemente non erano state registrate. Tra questi, IBC spiega come circa 12.000 nuove vittime sono catalogate dai War Logs sotto la voce “civili”, e si riferiscono a cittadini iracheni e ad altri civili, inclusi i contractors stranieri; altre 15.000 nuove vittime sono fornite dalla categoria “Nazione Ospitante”, riferita nei War Logs alle forze governative irachene di qualsiasi tipo, dalla polizia locale, alla Guardia Nazionale all’esercito: IBC assume da questa categoria circa 2.700 vittime e le inserisce tra quelle civili, poiché o facenti parte della polizia locale o uccise in seguito alla cattura e non durante operazioni. Ne risulta, appunto, un totale di circa 15.000 nuove vittime da inserire nel conteggio di IBC dei civili. Se ne desume pertanto che, basandosi IBC sui dati riportati dai media, di queste 15.000 vittime i media non abbiamo mai parlato. Una più approfondita analisi spiega come tendenzialmente queste 15.000 morti siano avvenute in seguito a piccoli attacchi, sparatorie o esecuzioni che hanno coinvolto da una a tre persone, piuttosto che in seguito a grandi esplosioni o bombardamenti. Questi fatti risultano da un lato di difficile registrazione da parte dei media e dall’altro “meno interessanti” per il pubblico rispetto ai grandi attacchi di massa. D’altra parte, tali omicidi di piccoli numeri si dimostrano innanzitutto frequenti, alla luce dell’elevata cifra di morti non registrati, e in secondo luogo danno un’idea dello stillicidio quotidiano a cui la popolazione irachena sia stata sottoposta negli ultimi sette anni.

Il bilancio di IBC sui morti in Iraq dal 2003 ad oggi, arricchito dalle nuove 15.000 vittime civili rivelate dai War Logs, arriva ad ipotizzare la cifra di circa 150.000 morti violente, di cui più di 122.000 (circa l’80%) sarebbero civili.

Altri dati sul numero delle vittime discordano pesantemente da quelli offerti da Wikileaks e IBC.

Secondo il Comando Centrale delle Forze Armate americane nel Golfo, tra il 2004 e il 2008 i morti civili iracheni ammonterebbero a 63.185, mentre gli agenti e gli ufficiali delle forze di sicurezza deceduti sarebbero 13.574. Nello stesso periodo sarebbero morti 3.952 soldati statunitensi e di altri paesi. Da notare che i dati non comprendono le vittime civili del 2003, l’anno dell’invasione dell’Iraq, che secondo lo IBC si aggirano sui 12.000 morti.

Nel 2008, il Ministero Iracheno dei Diritti dell’Uomo aveva emesso un bilancio di 85.694 vittime, tra civili e militari iracheni, sempre riguardo al periodo tra il 2004 e ottobre 2008.

Ancora nel 2008 erano state calcolate circa 150.000 vittime, tra marzo 2003 e luglio 2006, da parte dell’organizzazione Iraq Family Health Survey Study Group, nata dalla collaborazione dell’Organizzazione Mondiale della Salute con altre cinque tra organizzazioni e ministeri iracheni locali. Tuttavia, l’analisi è stata giudicata da molti alquanto debole, in quanto si basa unicamente su interviste effettuate su un campione di circa 10.000 famiglie irachene riguardo alle perdite riportate nel periodo analizzato.

Nell’ottobre 2006, la rivista britannica di medicina The Lancet aveva ipotizzato la morte di 655.000 iracheni. Tale cifra era stata ottenuta dal confronto del tasso di mortalità nelle famiglie interrogate nel 2006 con il tasso ufficiale iracheno del 2003. Anche una tale metodologia ha suscitato diversi dubbi, soprattutto a causa della mancanza di pertinenza del campione intervistato: la maggior parte delle famiglie intervistate risiedeva infatti nei pressi delle vie principali del paese, zone molto colpite da attacchi e da attentati.

Uno studio condotto nel 2006 dalla scuola medica Bloomberg dell’Università statunitense Johns Hopkins, stimava, sulla base di una media tra un minimo di 426.369 decessi e un massimo di 793.663, che dal marzo 2003 a luglio 2006 fossero morti 601.027 civili iracheni.

La cifra più elevata, infine, era stata proposta nel 2007 dall’istituto britannico di sondaggi Opinion Research Business, che era giunto a parlare di più di un milione di morti tra marzo 2003 e agosto 2007.

Le profonde differenze sulle stime dei decessi finora proposte non permettono di ottenere un bilancio chiaro e attendibile sulle vittime della guerra in Iraq. Troppo spesso differiscono, più che le cifre finali, le modalità di indagine o i parametri utilizzati nella catalogazione delle vittime, sia a livello temporale sia di categorie utilizzate.

Sebbene le due fonti finora più attendibili risultino essere i bilanci di IBC e Wikileaks, entrambi indipendenti e basati su dati reali riportati e registrati da media e da istituzioni ufficiali, il fiorire di indagini e ricerche sul numero delle vittime in Iraq dimostra come tale cifra susciti un accorato dibattito. La causa di ciò è sicuramente individuabile nei valori alti di queste cifre, che nella più ottimistica delle ipotesi parlano di 60-70.000 vittime civili, di gran lunga al di sopra delle previsioni iniziali da parte di chi pianificò l’invasione dell’Iraq.

Tuttavia, l’esatta identificazione del numero delle vittime civili o militari, irachene o internazionali, non sembra essere l’unico spunto di ragionamento per stilare un bilancio della guerra in Iraq. Altri fattori, a questo proposito, scaturiscono dall’analisi del numero delle vittime e contribuiscono in pari misura alla delineazione di un quadro d’insieme che permetta di valutare i risultati ottenuti dalla presenza delle forze della coalizione in Iraq.

Oltre la guerra dei numeri.

I War Logs di Wikileaks, così come tutte le altre analisi e le raccolte di dati sulla guerra, costituiscono uno strumento utile non soltanto per conteggiare il numero delle vittime in Iraq, ma anche per analizzare altri aspetti riguardanti le Significant Actions in the war.

Innanzitutto le modalità di uccisione delle vittime.

Come è già stato sottolineato, un buon numero di civili tra i 122.000 denunciati da IBC sarebbe stato ucciso al di fuori di grandi operazioni di bombardamento da parte dell’esercito della coalizione o da pesanti attacchi degli insorgenti: molti sarebbero deceduti in seguito a piccole tragedie multiple, come assassini mirati, esecuzioni o uccisioni ai checkpoints.

Inoltre, dall’analisi dei rapporti ufficiali dei War Logs risultano centinaia di casi di abusi, torture, violenze e omicidi da parte delle forze di polizia e dell’esercito iracheni.

Questo fatto è importante, poiché ha delle conseguenze dirette sulla condotta statunitense: infatti, il giorno successivo alla pubblicazione dei War Logs, Barak Obama è stato richiamato dall’attuale Commissario Speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura, Manfred Nowak, ad iniziare immediatamente delle indagini sui casi di abuso dei diritti umani da parte delle forze irachene, sulla base degli obblighi internazionali assunti dagli Stati Uniti stessi al momento della firma della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura. Tale Convenzione impone agli Stati firmatari non soltanto l’obbligo di astensione da tortura e trattamenti disumani nei confronti di qualsiasi prigioniero o persona sotto custodia, ma anche l’obbligo di prevenzione di atti di tortura nel territorio dello Stato e in “ogni territorio sotto la giurisdizione dello Stato”, ossia “tutte le aree in cui lo Stato firmatario esercita una qualche forma di controllo, direttamente o indirettamente, in toto o in parte, de jure o de facto”1.

In secondo luogo, risulta opportuno dedicare grande attenzione non soltanto al numero e alla modalità dei decessi in Iraq, ma anche alla frequenza con cui questi sarebbero avvenuti.

I dati di IBC, aggiornati al 10 ottobre 2010, mostrano come a partire dal 10 marzo 2003 gli eventi di morte violenta di civili abbiano avuto cadenza quotidiana. I decessi di civili a causa della guerra hanno avuto nei diversi anni medie impressionanti. Le vittime di attacchi suicidi oscillerebbero tra una media di 1,4 morti giornalieri nel 2003 ai 21 del 2007, per poi scendere gradualmente negli anni fino ai 7,4 del 2010. Inoltre, le vittime giornaliere medie a causa di sparatorie ed esecuzioni sarebbero aumentate da 15 nel 2003 a 56 nel 2007, per poi giungere nel 2010 a 3,9.

Sebbene nel corso dei sette anni di guerra sia evidente una costante crescita del numero delle vittime a partire dal 2003 fino al un picco massimo nel biennio 2006 – 2007, altrettanto evidente risulta il costante abbassamento, negli ultimi tre anni, del numero delle vittime civili in Iraq.

Tuttavia, malgrado la presente tendenza al ribasso del numero di vittime, non

Sembra essere calata la frequenza degli omicidi, che colpiscono ancora quotidianamente il territorio iracheno. Ne risulta un quadro fosco di martellante presenza di atti violenti che dall’inizio di marzo 2003 stanno martoriando il territorio iracheno, la sua popolazione e chiunque vi si trovi ad operare a qualsiasi titolo.

Alcune conclusioni

I dati fin qui brevemente esposti, assieme agli altri risultanti dalle analisi dei più attendibili progetti di monitoraggio delle operazioni in Iraq, contribuiscono a dimostrare come lo striscione Mission Accomplished dell’1 maggio 2003 si sia rivelato oltremodo ottimistico e come la cosiddetta “guerra simmetrica” tradizionale, che vede contrapposti due eserciti in lotta fra loro, non risulti essere la soluzione ideale nel contesto di guerra “asimmetrica” stabilitosi in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein.

Dal 2003 al 2010 molte cose sono cambiate, in Iraq e nel mondo. Da un lato, gli eventi della guerra hanno portato in Iraq ad un cambio di governo, alla presenza di una maggioranza al potere composta da rappresentanti di gruppi che negli ultimi 25 anni erano rimasti ai margini, allo scoppio di una vera e propria guerra civile all’interno del paese, all’ingresso in Iraq di gruppi legati ad al-Qaeda ed al terrorismo internazionale. D’altra parte, anche gli Stati Uniti del 2010 sono profondamente diversi dagli Stati Uniti del 2003, allora scossi da un attacco terroristico epocale, quello dell’11 settembre 2001, che per la prima volta aveva messo in dubbio i sistemi di sicurezza del paese più potente del mondo, oggi turbati e indeboliti da una crisi economica e finanziaria che per la prima volta ha messo in dubbio anche la loro predominanza in campo economico. In secondo luogo, il cambio di presidenza alla guida della Casa Bianca, e le prospettive nuove con cui l’attuale presidente Barak Obama ha inteso affrontare la questione irachena. L’amministrazione Obama si è trovata fin dall’inizio della propria attività a dover gestire una situazione, quella irachena, creata e perseguita da altri e giunta ad un livello di parossismo tale da rendere estremamente difficile la previsione delle conseguenze di qualsiasi azione si intenda intraprendere. Tuttavia, l’amministrazione Obama ha ereditato la responsabilità dell’esito della guerra in Iraq e da un tale esito, probabilmente, dipenderà gran parte della credibilità e della saldezza dell’amministrazione stessa.

Gli importanti dati resi pubblici da Wikileaks, così come le più autorevoli analisi e i tentativi di bilancio dei sette anni di guerra non devono spaventare l’amministrazione Obama, né devono essere considerati come un elemento da nascondere o insabbiare. Piuttosto, i dati contenuti in tali analisi dovrebbero essere considerati dall’attuale Governo statunitense come un punto di partenza per analizzare l’andamento della missione irachena fin dal suo inizio, evidenziandone gli errori e le mancanze, e su cui porre le basi di un nuovo orientamento delle attività statunitensi e del governo iracheno nei prossimi anni, in modo tale da evitare i medesimi errori nella nuova politica del paese dei due fiumi.

* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)

1 Art. 16, United Nations Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, General Comment No.2.

Elezioni in Bosnia Erzegovina: Intervista a Renzo Daviddi

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Lo scorso 3 ottobre circa tre milioni di elettori sono stati chiamati alle urne in Bosnia Erzegovina. Si è votato per gli organi politici delle entità cantonali e statali del piccolo e turbolento stato balcanico. Si è trattata della quinta chiamata alle urne dalla fine del cruento conflitto che ha segnato l’indipendenza della Bosnia Erzegovina dalla Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia. Vi è stata grande attesa sui risultati di queste elezioni,  considerate un momento decisivo per verificare la normalizzazione del paese, oppure il persistente prolungamento dello stato di transizione istituzionale che si protrae ormai da 15 anni. Intervista a Renzo Daviddi, Direttore del Liason Office Kosovo-UE.

L’attuale assetto della Bosnia Erzegovina è il frutto del processo di ingegneria costituzionale post bellica (si veda Belloni 2007), che intendeva dare uguale rappresentanza alle tre principali etnie della BiH (serbi, croati e musulmani-bosniacchi) salvaguardandone gli “interessi vitali”, ovvero la garanzia del controllo territoriale e politico, conquistata durante la guerra. Gli accordi di pace siglati a Dayton (21 novembre 1995), che racchiudono la Carta Costituzionale della Bosnia Erzegovina, avevano configurato così uno Stato diviso lungo la linea etnica (si veda Chandler, 2008). La Costituzione ha, quindi, dato vita a un debole Stato centrale e a due Entità politiche dotate di ampissima autonomia: la Republika Srpska, a maggioranza serba, e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, composta da serbi e croati. Nel 2000 è stata creata una terza entità, il Distretto Autonomo di Brcko, una piccola area multiculturale, sotto la giurisdizione della Federazione della Bosnia Erzegovina.

Mentre la Republika Srpska è fortemente centralizzata, la Federazione di BiH è divisa in dieci cantoni, dotati di ampia autonomia e caratterizzati anch’essi su base etnica.

Lo Stato Centrale è responsabile per la politica ed il commercio estero, per la politica monetaria, per  le comunicazioni e per l’attuazione della legge inter-entità. Solo nel 2008 è stato costituito un corpo di polizia statale. Le due Entità sono responsabili di tutte le altre funzioni e poteri di governo, anche di quelli non espressamente assegnati dalla Costituzione, come l’educazione e le politiche sociali. Tutte le istituzioni dello Stato Centrale sono organizzate sulla base della chiave etnica.  La stessa Presidenza è ripartita su tre membri eletti a votazione diretta: un croato e un bosniaco, eletti nella Federazione di Bosnia ed Herzegovina, un serbo eletto nella Republika Srpska. Il Parlamento è composto da due Camere, la Camera dei Rappresentati, formata da 42 membri eletti su base proporzionale – ventotto membri eletti nelle Federazione e 13 nella Republika Srpska – e la Camera dei Popoli, composta da 15 membri – 5 croati, 5 serbi e 5 bosniacchi -  nominati dai Parlamenti delle due Entità costituenti.

Tale assetto istitituzionale e amministrativo ha appesantito oltremodo l’apparato Statale – che da solo assorbe il 60% del PIL- e reso pressocchè ingovernabile il Paese. Le tensioni interetniche hanno, infatti, in questi quindici anni, prevalicato su qualsiasi altro tema ed il dibattito politico è stato caratterizzato da temi i nazionali e da posizioni nazionalistiche.

Di fatti, sino ad oggi, la Bosnia Erzegovina è stata una sorta di protettorato internazionale. In particolare, un ruolo centrale hanno assunto il Peace Implementation Council, un organo formato da 55 Stati, che ha il mandato di guidare il processo di pace, e la figura dell’Alto Rappresentante per la BiH, la più alta autorità civile del paese, instituita dagli accordi di Dayton con il compito di sorvegliare sull’attuazione degli stessi (art. 2, annesso 10 degli accordi di Dayton). All’Alto Rappresentante per la BiH sono stati conferiti ampi poteri, estensivamente utilizzati in questi 15 anni, che gli hanno permesso di agire di fatto come legislatore. Nel 2000, al mandato dell’Alto Rappresentante, è stato affiancato quello di Alto Rappresentante per l’Unione Europea.

L’UE ha assunto un ruolo di guida nel processo di pacificazione del paese. La Bosnia Erzegovina è entrata, così,  a pieno titolo nelle politiche di avvicinamento all’UE: politiche che hanno coinvolto tutti gli Stati dei Balcani Occidentali (si veda Luca Gori, 2007). Nel 2003 la Bosnia Erzegovina ha ottenuto lo status di paese “potenziale candidato”; nel 2008 ha firmato gli Accordi di Stablizzazione ed Associazione, ed ha potuto così avviare la negoziazione per l’approvazione del regime di liberalizzazione dei visti: risoluzione molto attesa dai cittadini della BiH.

Alle elezioni del 3 ottobre si sono confrontati 39 partiti, 11 coalizioni, 13 candidati indipendenti (si veda Bosnia Election Monitor, east journal).  Essi  hanno concorso all’elezione dei membri della Presidenza bosniaca e delle presidenze delle due entità, la Republija Srpska e la Federazione BiH, dei deputati del Parlamento nazionale, dei Parlamenti delle entità e dei rappresentanti dei dieci consigli cantonali della Federazione della Bosnia ed Erzegovina. I partiti, configurati preminentemente su base etnica, nonostante la presenza di alcuni partiti che si definiscono “multiculturali”, che hanno predominato anche in queste elezioni sono: il partito multiculturale Socijaldemokratska partija Bosne i Hercegovine, SDP (Partito social democratico della Bosnia ed Erzegovina) legato al Partito Sociale Europeo e guidato da  Zeljko Komsić, membro croato della Presidenza della BiH, membro croato della Presidenza della BiH; il partito nazionalista, conservatore bosniacco Stranka Demokratske Akcije, SDA (Partito di Azione Democratica), fondato dall’ex Presidente protagonista della guerra 1992-‘95 Alija Iztebegović; il partito nazionalista Serbo Savez nezavisnih socijaldemokrata, SNSD (Alleanza dei social democratici indipendenti), guidato dal Presidente uscente della Republika Srpska Milorad Dodik e dal Membro della Presidenza, riconfermato, Nebojša Radmanović; l’ultra nazionalista partito serbo  Srpska demokratska stranka, SDS (Partito Democratico Serbo) guidato da  Mladen Bosić; il partito nazionalista, cattolico e conservatore croato Hrvatska demokratska zajednica, HDZ (Unione Croata Democratica della Bosnia Erzegovina) guidato da   Borjana Kristo .

Nonostante le alte aspettative nutrite su queste elezioni del 3 ottobre, i risultati non hanno dimostrato forti segnali di cambiamento, anche se ci sono alcune pur timide ma interessanti novità. Ne abbiamo parlato con Renzo Daviddi, direttore del Liaison Office EU – Kosovo, che ha un profonda conoscenza dei Balcani Occidentali e della Bosnia Erzegovina in particolare.

La stampa ed i commentatori internazionali hanno salutato, come la  sorpresa di queste elezioni, la vittoria di Bakir Iztebegović (SDA)– figlio del presidente degli anni di guerra, Alija Iztebegović- che ha ottenuto il 35% dei suffragi, spodestando Haris Silajdžić (25%)- del Stanka za Bosniu i Herzegovinu SBIH (Partito per la Bosnia Erzegovina)-  dal ruolo di rappresentante musulmano alla Presidenza. Da molti commentatori Iztebegović è stato acclamato come l’uomo del dialogo che renderà effettivamente possibile l’avvio di  quelle riforme necessarie alla BiH per superare l’Impasse politico – istituzionale e per avvicinarsi all’UE. Lei concorda con questo punto di vista?

In parte dissento sul fatto che l’ elezione di Bakir Iztebegović sia stata la sorpresa di queste elezioni. Sorprendente è stato piuttosto il risultato ottenuto dall’ SDP che, sia dal punto di vista dei suffragi che dei seggi ottenuti nel Parlamento, risulta molto rafforzato da queste elezioni. Il dato è ulteriormente rafforzato dal fatto che Zeljko Komsić è stato convintamente confermato membro croato della Presidenza (59,50%). L’elezione di Bakir Iztebegović è comunque un segnale positivo. Le prime dichiarazioni che ha rilasciato, sicuramente non ricalcano le dichiarazioni del rappresentante uscente Haris Silajdžić, che ha spesso utilizzato una retorica fortemente nazionalistica. Da diversi punti di vista, dunque, c’è una composizione del quadro politico interessante e diversa. Se la complessità del quadro politico lo permetterà ci sono, per la prima volta, i presupposti per formare una compagine governativa diversa e non accentuata sulla retorica nazionalistica.

Republica Srpska: vincitore il Presidente uscente Milorad Dodik che ha assestato la sua precedente legislatura ed ha condotto la propria campagna elettorale su posizioni estremamente nazionalistiche. In particolare, ha ribadito l’ipotesi secessionista, attraverso la via referendaria. Uno scenario verosimile?

Per il momento è difficile da capire. Durante la campagna elettorale c’è stato un inasprimento dei toni. Dodik si è presentato come un campione di nazionalismo, allo stesso tempo ha fatto ripetutamente riferimento al supporto di Tadić. La politica di Tadić in Serbia è basata su dei principi europeisti, ed è tutto sommato una politica progressista e di dialogo.  Vedremo come in maniera pratica Dodik si porrà come leader della Republika Srpska. I meccanismi di formazione delle differenti compagini governative sono talmente complessi che bisognerà capire quali tipi di coalizioni prevarranno e su quali posizioni politiche tali compagini si formeranno.

Quanto tempo ci vorrà prima che il Governo sia formato?

Le esperienze precedenti indicano che ci vogliono parecchi mesi. I governi si formano a cascata, si comincia dai livelli delle entità cantonali fino a quello statale. Ci vogliono almeno tre quattro mesi prima che questo processo si concluda. Dipende anche da come i vari leader politici si porranno rispetto all’esigenza di dare una “quinta” all’esecuitivo.  Bisognerà inoltre vedere se alla fine prevarranno argomentazioni di natura politica, rispetto a conflitti di personalità. Mi riferisco principalmete al conflito fra i due partiti social democratici, quello della Federazione BiH, l’SDP, e quello della Republika Srpska, l’ SNSD.

Queste elezioni hanno visto l’esordio nel panorama politico di alcuni nuovi partiti che hanno suscitato forte interesse. In particolare quello del partito del Savez za bolju budućnost BiH, SBBBiH (Unione per un Futuro migliore per la Bosnia), fondato da Fahrudin Radončić- proprietario di uno dei principali quotidiani del paese, Avaz- e quello del  Naša Stranka (Nostro Partito), fondato dal regista Danis Tanovic. Secondo lei potrebbero davvero rappresentare una alternativa politica interessante nel panorama Bosniaco? Come interpreta il buon successo del primo (32% dei suffragi, a 3 punti percentuali da Iztebegović) e lo scarso successo elettorale del secondo?

Il risultato negativo di Naša Stranka è un risultato anche un pò atteso, perchè è più un movimento di opinione che un partito politico. Inoltre, l’elettorato che fa riferimento a Naša Stranka (Naša Stranka si configura come un partito multietnico, guidato da Bojan Bajić, i suoi principali obiettivi politici sono lo sviluppo di una società aperta e solidale, un economia sociale di mercato e l’autonomia locale, ndr) è lo stesso elettorato che fa riferimento all’SDP, il fatto che quest’ultimo abbia avuto dei risultati positivi in parte spiega i risultati negativi del primo.  È  difficile che questi due partiti possano crescere insieme, in  quanto raccolgono entrambi il sostegno di intellettuali legati in particolare a certi circoli di Sarajevo.

Per quanto riguarda Radočić è un fenomeno interessante. Ha fatto una campagna elettorale su un programma basato sull’efficienza e su diversi aspetti di rilancio dell’economia. Ovviamente, ha aiutato molto il risultato il fatto che, come lei ha sottolineato, ha una notevole quantità di mezzi di comunicazione a diposizione ed anche un’ampia disponibilità finanziaria da poter giustificare una campagna elettorale molto dispendiosa. Ed è comunque, a mio avviso, un ingresso interessante nel panorama politico della Bosnia.

Clima elettorale: quanto ha prevalso la dialettica nazionalista? Quali i temi più dibattuti? Quanto si è parlato di Europa?

No, non credo che si sia parlato di Europa. Ed effettivamente gran parte dei partiti classici hanno fatto una campagna basata su questioni di tipo nazionale e nazionalistiche. Alcuni slogan erano diettamente o indirettamente orietati a questioni nazionali. Le faccio alcuni esempi: l’ SDA   faceva riferimento allo slogan “il popolo sa” che cercava di far leva ai fatti che hanno portato alla guerra. Nella Republika Srpska Dodik ha fatto campagna elettorale sullo slogan “la Repubblika Srpska per sempre” un chiaro, sottile, messaggio nazionalista. Questi temi hanno dominato la campagna elettorale. Solo in parte sono stati affrontati temi relativi allo sviluppo sociale ed economico, ma non certo come sarebbe stato auspicabile in un paese che stenta a metterli al centro del dibattito.

L’Alto Rapresentante Valentin Inzko ha affermato, prima delle elezioni: “gli 80.000 giovani che voteranno per la prima volta il 3 ottobre, potrebbero rivoluzionare il panorama politico in BiH”. A elezioni fatte, Lei pensa che questo sia avvenuto?

Non ho visto analisi che facciano riferimento alle fasce del voto. Sulla base delle mie personali impressioni, però, noto che emerge il tema della disaffezione per la politica. C’è un senso di frustrazione, che se emerge in età più avanzata può essere comprensibile, ma quando arriva a 18 anni é piuttosto preoccupante. Credo che, nonostante i timori, non ci sia stata una massiccia astensione dal voto dei giovani. Il tasso di affluenza alle urne è stato piuttosto elevato ed è stato il più alto dalla fine della guerra. Certo si pone il problema di come dare voce a questi giovani e come avvicinarli alla politica.

Lo scorso 7 ottobre il Parlamento Europeo (PE) ha dato il suo “sì” al regime Visa Free per l’Albania e la Bosnia Erzegovina. In Novembre si aspetta il pronunciamento del Consiglio. Secondo Lei é ragionevole attendere un parere favorevole?

La Commissione ha indicato in maniera ufficiale che la BiH ha assicurato il necessario per poter procedere al processo di liberalizzazione. Il messaggio politico che é venuto dal PE é molto importante. Gli Stati Membri non credo possano ignorare questi due messaggi ed opporsi a questo processo.  Spero che nelle prossime settimane si possa arrivare ad una conclusione.

Una sintesi finale…

Credo oggettivamente che ci siano delle opportunità in questa situazione. È ancora difficile capire se sono delle novità che ci porteranno lontano o no. Le manovre sono ancora in corso, vedremo cosa uscirà da questi negoziati. Bisogna poi porsi necessariamente il problema di come porre l’Europa di nuovo al centro del dibattito politico.

* Sara Bagnato è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)


Intervista a Daniele Scalea autore di La sfida totale

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Fonte: http://www.centrostudilarcoelaclava.it/sito/?p=1168


Il Centro Studi L’Arco e La Clava ha avuto il piacere di intervistare Daniele Scalea, autore del libro La sfida totale, scritto di notevole fattura e di estremo interesse che consigliamo di leggere il prima possibile. Cogliamo l’occasione per ringraziare Daniele della sua disponibilità e gentilezza nel rispondere alle nostre domande e per il tempo dedicatoci.


E’ sempre un piacere leggere trattati di geopolitica scritti da italiani. Come mai la disciplina della geopolitica, con i suoi studi accorti che legano indissolubilmente aspetti culturali, economici, politici e geografici ha avuto così poco successo in Italia?

La ringrazio di considerare il mio libro un “trattato di geopolitica”: io più modestamente lo definirei una riflessione sul panorama politico internazionale odierno. Al suo stesso termine ha però ricorso anche il generale Mini, e ciò deriva forse proprio da quella carenza di testi del genere scritti da nostri connazionali, come lei ha rilevato.

Tuttavia, la disciplina geopolitica non è oggi molto più negletta in Italia di quanto lo sia nella maggior parte degli altri paesi. La geopolitica, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, ha goduto di cattiva fama, perché considerata a torto una parte integrante dell’ideologia nazista. Inoltre, non ha aiutato il fatto che ponesse al centro della propria analisi la geografia, quando le due ideologie imperanti del dopoguerra – liberalismo e marxismo-leninismo – erano decisamente economiciste. Molti di questi pregiudizi sono stati abbattuti dall’inizio degli anni ’90. La fine dello scontro bipolare, il cui carattere principale era apparentemente ideologico-economico, ha riportato in auge vecchie chiavi interpretative della politica internazionale. Certo permangono le critiche, secondo cui la geopolitica sarebbe pseudo-scientifica o determinista, ma non sono più invalidanti come un tempo.

Il successo o insuccesso della geopolitica si può osservare attraverso un triplice prisma. Innanzi tutto, va considerata l’opinione pubblica. Pur tenendo presente che in Italia c’è scarso interesse per informazione e cultura, e men che meno per la politica internazionale, l’attività di riviste come “Limes” o “Eurasia” ha certamente diffuso la conoscienza e l’interesse per la geopolitica nel pubblico colto italiano. A livello pubblicistico – rapportandosi allo stato complessivo dell’editoria e del giornalismo italiani – credo che la geopolitica italiana sia in uno stato di salute accettabile.

A livello accademico, la geopolitica sconta ovunque il fatto di avere spesso privilegiato la pratica alla teoria, l’applicazione alla speculazione, tanto che ancora oggi manca d’una definizione univoca ed universalmente accettata. Malgrado ciò, nei paesi anglosassoni e in Francia è riuscita a farsi spazio anche nelle università. Le università italiane sono note per il loro conservatorismo, e ciò non facilita l’accettazione della geopolitica come approccio analitico ed interpretativo utile alle scienze storiche e politiche. Esistono alcuni insegnamenti di geopolitica, ma in genere trattano molto più di politica che di geografia. La geopolitica discende anche dalla geografia, e tale progenitrice è tra le materie più bistrattate in Italia: quasi non ve ne si trova più traccia nei curricula scolastici del nostro paese, e quel poco che resta è spesso all’insegna del vetusto elenco di nomi da mandare a memoria

Il terzo ed ultimo ambito in cui si può osservare la geopolitica è quello dell’azione statale. La geopolitica è anche strategia («coscienza geografica dello Stato» se si vuol accettare la controversa definizione di Karl Haushofer). È in questo campo che l’Italia paga lo scotto maggiore. Fin dal Risorgimento i dirigenti del nostro paese hanno creduto che l’idealismo e la volontà fossero più importanti dei nudi fatti – quali ad esempio i dati di fatto geografici. Si può poi aggiungere che, come scrisse Ernesto Massi, «la geopolitica è prassi prima di essere dottrina, e per questo i paesi che la praticano impediscono agli altri di studiarla». Lo stato di soggezione politico-culturale dell’Italia, dunque, non aiuta.


Nel suo libro parla in termini classici dello scontro tra Terra e Mare. Ci può spiegare questo concetto e questo contrasto tra i due diversi modi di concepire il mondo politico, economico e culturale?

Fino all’invenzione e diffusione dell’aereo, la potenza era di due tipi: terrestre e marittima. Non si è ancora scritta la parola fine sul dibattito circa la potenza aerea: ossia se faccia parte a sé, o piuttosto costituisca un’estensione delle altre due. Ad ogni modo, i due tipi classici di potenza si definiscono in base al “supporto geografico” in cui operano: la terra o il mare. La conformazione geografica del globo si trova dunque ad avere una posizione di primo piano nell’analisi strategica e geopolitica.

Alcuni pensatori hanno esteso la dicotomia terra-mare anche all’etnografia e antropologia, ipotizzando che tale tratto geografico influisca sul carattere dei popoli. Halford Mackinder toccò marginalmente il tema, che fu approfondito da Carl Schmitt; oggi è centrale nella speculazione di Aleksandr Dugin. Grosso modo, si tende a ritenere che i popoli “tellurici” siano più collettivisti e tradizionalisti; i popoli marinari maggiormente individualisti e dinamici.


La Cina ha una storia tutta particolare che troppe volte è stata ignorata dall’Occidente. Anzi molte volte è proprio la libera informazione occidentale che contribuisce a formare un immaginario collettivo distorto della moderna realtà cinese. Come si sente di descrivere in breve la storia della Cina moderna? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della sua ascesa per gli stati europei?

In effetti, la storia della Cina è pressoché ignota agli “occidentali” – intesi come popoli europei o d’origine europea – perché l’insegnamento storico in questi paesi continua ad essere fortemente etnocentrico. Eppure, una conoscenza almeno sommaria della storia e della cultura cinesi permetterebbe di guardare nella giusta ottica all’attualità di quel paese.

Prendiamo in considerazione la questione del Cristianesimo in Cina. È facile scandalizzarsi per la sospettosità con cui le autorità di Pechino guardano ai cristiani nel loro paese, ma diventa assai più comprensibile se si tengono in conto i circa 20 milioni di vittime con cui, appena un secolo e mezzo fa, il paese pagò la rivolta cristiana dei Taiping. Questo è un esempio di come l’ignoranza storica dia una percezione distorta degli eventi attuali.

Nemmeno l’ascesa della Cina è un fatto storico così “sconvolgente”: di sicuro lo è meno della sua recente decadenza, dal momento che la Cina è sempre stata la maggiore potenza del globo, se si eccettua la parentesi moderna. La storia moderna della Cina, dunque, in estrema sintesi consiste in ciò: il ritorno al posto che le compete nella gerarchia internazionale, sfruttando alcuni elementi tecnici, organizzativi e culturali tratti dall’Occidente.

La fase di decadenza della Cina è coincisa con quella di massimo splendore – o almeno di massima forza – della civiltà europea. La resurrezione cinese comincia con la decadenza dell’Europa. Anche se le due tendenze sono solo marginalmente collegate, la coincidenza ci fa vivere con una certa inquietudine l’ascesa cinese. Inoltre, la gerarchia internazionale è un gioco a somma zero: se qualcuno sale qualcun altro scende. In ogni caso è inutile stracciarsi le vesti, o tapparsi occhi ed orecchi per non vedere la realtà. L’ascesa della Cina è un fatto, e bisogna tenerne conto cercando di volgerla a proprio favore. Oggi si preferisce quasi sempre guardare il lato negativo, ma può essere un errore. Ad esempio: le merci cinesi altamente competitive hanno estromesso dal mercato taluni settori produttivi italiani. È pure vero che questi prodotti a basso costo stanno sorreggendo lo stile di vita d’una popolazione che va impoverendosi, e più per colpa nostra che per “merito” cinese.


Rimaniamo ancora in Oriente. La Cina non è la sola potenza in ascesa; vi è anche la nuova potenza indiana e una nuova Russia che sembra essersi ripresa dopo la caduta del muro di Berlino. In particolare riguardo a Cina ed India lei ha dedicato un intero capitolo. Quale sarà il destino di queste due potenze? Che legame si stà formando tra il dragone cinese e il sub-continente indiano? Appare infatti evidente che gli Stati Uniti d’America vorrebbero ridimensionare la potenza cinese con l’aiuto di Tokio e New Delhi. India e Giappone sono disposte ad affiancare la politica americana?

Questa è una delle grandi incognite della nostra epoca. Cosa sarebbe successo nel secolo scorso se Russia e Germania, anziché combattersi, avessero unito le forze contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America? Molto probabilmente vivremmo in un mondo diverso. E così cambierà il futuro, a seconda che le tre potenze asiatiche si uniscano in una “sfera di co-prosperità”, oppure si battano per la supremazia regionale. Una delle grandi fortune degli USA è di non avere alcuna grande potenza vicina: la loro espansione non è stata rallentata precocemente dall’attrito di rivali geograficamente prossimi. La Germania, incassata tra la Francia, la Gran Bretagna e la Russia, è stata sconfitta nel Novecento pur essendo la nazione più colta, organizzata, coesa e potente che vi fosse nel mondo. La Cina vive una situazione simile, perché circondata da Russia, India e Giappone. Il Reich tedesco fu sconfitto principalmente per la propria imperizia diplomatica, ossia l’abilità con cui si fece nemici tutti i vicini contemporaneamente. La Repubblica Popolare cinese dovrà sforzarsi di non ripetere lo stesso errore, o potrebbe ripercorrerne le sorti.


E’ importante spendere due parole anche sulla Russia. Per prima cosa la formazione geografica della Russia è riconducibile alla teoria del Heartland: gli Usa come hanno saputo colpire anche questa zona? La Russia però sembra vivere una seconda giovinezza grazie alla politica estera ed interna di Putin. Cosa ha fatto il primo ministro russo? E quali saranno le prossime mosse della “dottrina Putin”?

Come spiego dettagliatamente nel mio libro, dalla caduta dell’URSS ad oggi gli USA seguono quattro direttrici offensive verso la “Terra-cuore” di mackinderiana memoria, e dunque contro la Federazione Russa: 1) orchestrano “rivoluzioni colorate” per impedire a Mosca d’esercitare un’egemonia regionale; 2) allargano la NATO per penetrare militarmente nell’area ex sovietica; 3) cercano di sottrarre alla Russia il controllo dei giacimenti di petrolio e gas dell’Asia Centrale, per minare il rapporto d’interdipendenza Europa-Russia-Asia Centrale; 4) sviluppano uno scudo antimissili balistici nella speranza di raggiungere la supremazia nucleare. Rimando alle pagine de La sfida totale per i particolari relativi ad ognuna di queste “direttrici d’attacco”.

I Russi ovviamente non sono rimasti a guardare. Putin ha ristabilito l’autorità statale e rilanciato l’economia russa. Ciò gli ha permesso di essere più assertivo in politica estera, ed ha risposto punto per punto agli USA: anche questo è spiegato dettagliatamente nel mio libro.

Le prossime mosse di Putin sono più difficili da prevedere, innanzi tutto perché passano per il rapporto con Medvedev. Da anni esistono due scuole di pensiero: una che vede in Medvedev il prestanome di Putin, l’altra che individua una contesa per il potere. Inizialmente la prima corrente era nettamente maggioritaria, ma oggi la seconda acquista nuovi sostenitori. Ad esempio, Thierry Meyssan legge gli eventi russi secondo l’ottica d’uno scontro al vertice. Assumendo tale prospettiva “conflittuale”, potremmo concludere che Medvedev spinga per una svolta “atlantista” in politica estera, mentre Putin rappresenterebbe lo zoccolo duro “nazionalista”. A quel punto bisognerà aspettare di conoscere chi avrà la meglio per prevedere come si muoverà la Russia in futuro.

Personalmente, ritengo che al di là di comprensibili divergenze il tandem alla guida della Russia continui a funzionare. E che Putin rimanga il vero padrone a Mosca. L’accondiscendenza di Medvedev verso gli USA potrebbe essere un modo per abbassare i toni dello scontro, in un momento in cui la Russia non si sente ancora pronta a sfidare apertamente gli USA.


Che significato ha avuto il crollo del muro di Berlino per lei? E’ venuto a crollare un sistema geopolitico o ha simboleggiato anche la fine di una rivoluzione politica, culturale e filosofica? Non crede che sia ora di far capire agli europei che l’abbattimento di quel muro non è stato il semplice crollo del comunismo, ma molto di più?

Secondo François Furet la caduta del Muro ha rappresentato “la fine di un’illusione” – ossia di quel che restava del comunismo, per l’appunto una semplice “illusione”. Furet scriveva con l’asprezza d’un vecchio ex comunista deluso, ma qualche ragione l’aveva. L’URSS aveva perduto la sua spinta rivoluzionaria già da decenni – quanto meno da quando era fallito il progetto di Chruščëv di lanciare una versione “destalinizzata” del bolscevismo. Con la morte di Stalin l’URSS ha cominciato a decadere come potenza, e col XX Congresso del PCUS anche come faro ideologico.

Non è qui la sede per discutere di meriti e demeriti del marxismo-leninismo come ideologia. Si possono avere tutte le buoni ragioni del mondo, ma la storia è il grande giudice che emana verdetti inappellabili. Come diceva Marx stesso, ciò che si ripete nella storia passa da tragedia a farsa. Ecco perché i nuovi “rivoluzionari” cercano di trovare soluzioni originali, come il “socialismo del XXI secolo” di Chávez. Attraverso questi nuovi esperimenti, qualcosa di quella “illusione” continua a sopravvivere. Sono quegli elementi ideologici, quei valori e quelle aspettative che sono indipendenti dalla manifestazione storica del marxismo-leninismo, e spesso sono indipendenti anche dall’idea stessa del marxismo-leninismo.

Ma allora che cosa crollò in quegli anni? A crollare fu una costruzione geopolitica, l’area di egemonia moscovita. Putin ha definito la disgregazione dell’URSS come “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. È un fatto che il crollo sovietico lasciò la superpotenza statunitense senza il suo kathecon, libera di coltivare i propri sogni di dominio universale. Purtroppo per Washington, il momento unipolare è durato molto meno di quanto s’aspettassero i profeti della “fine della storia” come Fukuyama.


Sul finire del suo libro afferma che la sfida per un mondo multipolare è impresa difficile. Che cosa può fare la politica europea che ormai da decenni vive una crisi d’identità e di valori, preferendo un ruolo succube della politica occidentale e americana? Se la politica dei parlamenti è incapace davanti alle sfide della nostra modernità, cosa resta da fare ai popoli ormai nauseati dal sistema monopolare?

La vostra domanda presuppone che ci sia una “politica europea”, ossia una volontà comune tra i paesi dell’Unione. Presuppone anche che l’Unione Europea abbia un futuro assicurato.

Storicamente, le nazioni si sono unite tra loro o per forza o per paura. La parabola europea ricorda quella delle colonie nordamericane: non a caso molti europeisti hanno fissato quale proprio obiettivo la creazione di “Stati Uniti d’Europa”. Le colonie si unirono per combattere un nemico comune, che era il Parlamento di Londra. I paesi dell’Europa Occidentale si unirono per difendersi da una comune minaccia, quella rappresentata dall’Unione Sovietica. Le colonie nordamericane, vinta la guerra per l’indipendenza, decisero di unirsi – e solo dopo un intenso dibattito – perché avevano paura che, divise, non sarebbero riuscite a ritagliarsi un posto degno nella politica e nella divisione del lavoro internazionale. Oggi, i paesi europei insistono nell’integrazione europea perché percepiscono la difficoltà di affrontare separati la sfida dei “paesi in via di sviluppo”. Ma le colonie nordamericane avevano una stessa lingua, una stessa etnia, una storia comune. Eppure, meno d’un secolo dopo, la metà di loro cercò di secedere e l’unità si salvò solo grazie ad una sanguinosa guerra fratricida. I paesi europei hanno lingue ed etnie differenti, ed una storia di guerre, inimicizie e tradimenti reciproci.

Rimane la via della forza. Personalmente, credo che l’Unione Europea potrà diventare un reale soggetto politico solo qualora al suo interno prevalga un singolo paese. Basti osservare i fatti di questi giorni, con l’asse franco-tedesco che cerca di dettare le proprie regole, ed imporre un sistema di punizioni per gli altri Stati dell’Unione. La Germania è il principale candidato all’egemonia continentale. Il mercato comune ha già fatto di Berlino l’arbitro della politica monetaria europea ed il centro produttivo che inonda con le proprie merci tutti gli Stati consociati. Si parla sempre della Cina, ma la Germania esporta più o meno quanto la Repubblica Popolare – con meno d’un sedicesimo della sua popolazione – e più degli USA; esporta più del doppio della Francia e quasi il triplo dell’Olanda, che pure sono il secondo ed il terzo maggiore esportatore europeo. L’integrazione economica ha rafforzato le manifatture tedesche, spesso a discapito di quelle degli altri paesi europei.

Sarebbe così strano che proprio la Germania, entrata quasi come un pariah nella comunità europea, da grande nemico sconfitto, ne diventi la padrona? La storia c’insegna di no. Nella Grecia antica la Macedonia era a malapena considerata parte della famiglia ellenica, eppure fu proprio quel lontano regno di zotici montanari, ai margini del “mondo civilizzato”, che alfine conquistò l’egemonia tra gli Elleni.

I Tedeschi potrebbero ottenere col commercio, la moneta e la pacifica integrazione ciò che non ottennero con milioni di morti in due guerre mondiali.


I giornali e i Tg sono tutti concentrati sulla “situazione islamica”, tanto che sono già molte le voci islamofobe che gridano alla nuova Lepanto. Qual’è il ruolo che ha l’Oriente islamico nello scacchiere mondiale? Quanto la religione islamica influisce sulla politica internazionale dei singoli stati? In quest’ottica come si sente di descrivere il comportamento tanto screditato dell’Iran?

“L’Oriente islamico” non è ovviamente un soggetto unitario, per quanto possa talore apparire tale all’esterno. Esso è diviso in una gran quantità di paesi, alcuni dei quali con minoranze abbastanza considerevoli, considerando che si tratta di comunità autoctone e saldamente radicate: il riferimento va ovviamente ai cristiani d’Egitto, Palestina, Siria, Libano, Iràq ed altri paesi a maggioranza musulmana. L’Islàm non è una religione monolitica: al di là della ben nota distinzione tra sunniti e sciiti, va ricordato che non esiste un “Papa musulmano”, e dunque un riferimento istituzionale condiviso da tutti i credenti. Inoltre, alle differenze religiose vanno sommate quelle politiche – sebbene i due piani tendano a sovrapporsi nei paesi islamici. Ci sono regimi squisitamente “laici”, altri confessionali, altri ancora misti. Egualmente variabile è il sentire comune delle varie popolazioni musulmane. Ci sono popoli con un più forte senso nazionale, poiché questo è pre-esistente all’Islàm (Egitto o Iràn), ed altri che vivono in Stati costruiti a tavolino dai colonialisti (pensiamo al Kuwait). C’è infine la differenza etnico-razziale, con paesi arabi, indoeuropei, indiani o mongoli, uniti solo dalla comune religione musulmana. Per quanto tutti i popoli musulmani condividano alcuni interessi – come la questione ebraico-palestinese – le differenze paiono prevalere sulle similitudini.

L’area islamica è oggi principalmente un teatro di scontro tra le grandi potenze, che non potendo o non volendo scontrarsi direttamente tra di loro, si combattono indirettamente in quest’area particolarmente frammentata – e dunque debole – e prossima alle sfere d’influenza di ciascuna di loro – USA, Europa, Russia, Cina, India, Giappone. Vari paesi musulmani cercano di volgere la situazione a proprio vantaggio, sfruttando le rivalità tra potenze esterne per attirare su di sé attenzioni positive, ma pochi cercano d’avere un ruolo realmente attivo, di potenza regionale: si tratta di Turchia, Iràn e Arabia Saudita, ed entro certi limiti anche Egitto e Pakistan.

Il discorso dell’islamofobia è più complesso. È stato affrontato, tra gli altri, da Enrico Galoppini in un’opera abbastanza recente. Tra i vari fattori che stanno dietro all’islamofobia, ritengo che uno dei principali sia l’azione di Israele e dei centri di propaganda sionista disseminati per il mondo: aizzando gli altri popoli contro l’Islàm, cercano di farli identificare con la loro causa.


Per creare un mondo multipolare occorre intervenire anche in Africa, terra in cui l’operato degli stessi Stati Nazionali è gestito dallo strapotere economico delle grandi multinazionali. Come è possibile risvegliare un sentimento africano calpestato dalla colonizzazione economica occidentale e dai contrasti etnico-religiosi? E quanto è importante permettere uno sviluppo africano per creare un asse Sud – Sud?

Se è destino, sarà la storia a risvegliare l’Africa. È successo spesso che una civiltà si risvegliasse su impulso ricevuto dall’esterno: l’esempio più recente è quello di molti paesi decolonizzati, che hanno adottato lo spirito nazionalista, lo Stato moderno e le tecnologie degli ex padroni stranieri. Però, prima di fare ciò, hanno dovuto subire secoli di dominazione, saccheggio e talvolta persino schiavitù. L’Africa stessa ha subito il colonialismo ed ha cercato di rialzarsi sulla base del nazionalismo d’ascendenza giacobina, ma il processo storico non è andato a buon fine – un po’ come successo ai paesi arabi, molti dei quali infatti cercano oggi di aprirsi una nuova strada nel mondo tramite ideologie d’ispirazione religiosa. Un simile passaggio da un’opzione occidentalista ad una indigenista difficilmente, in Africa, potrà basarsi sull’elemento confessionale. In Africa convivono molti culti, l’Islàm è troppo poco diffuso, il Cristianesimo è la religione dei colonialisti e l’Animismo consiste in realtà in una miriade di religioni differenti. Un tentativo indigenista, ma non basato sulla religione, potrebbe forse essere quello di Mugabe in Zimbabwe, dove la maggioranza nera cerca di conquistare anche la sovranità economica espropriando i latifondisti bianchi. Si tratta però di un esperimento isolato, e Mugabe è molto anziano.


L’Unione Europea ha dato davvero vita ad un’Europa unita? Se ciò non è accaduto cosa rappresenta il parlamento europeo? E come poter creare un sentimento europeo capace di colpire il qualunquismo moderno e il fasullo nazionalismo contemporaneo che tanto sembra favorire il sistema liberale e liberoscambista?

Ho già spiegato prima il mio punto di vista sull’Unione Europea: essa è nata dall’idealismo di pochi e dall’opportunismo di molti. Questi ultimi hanno colto la necessità che i “piccoli” paesi europei operassero tutti assieme per riacquistare peso nell’agone internazionale. Oggi è possibile che per alcuni paesi l’appartenenza all’UE si traduca in un freno, perché uno Stato che non può condurre una propria politica monetaria (controllata da Berlino per tutta l’Europa) ha sovranità limitata. Se dovesse venire meno “l’opportunità”, vedremo quant’è forte, salda e radicata “l’idea”.


Quanto sono cambiate le scelte politiche americane dopo l’elezione di Obama? Si tratta di una svolta reale o solamente di un diverso modo d’agire per raggiungere i medesimi risultati?

In politica estera, la differenza con Bush, come mi è più volte capitato di sostenere, consiste in ciò: che Bush abbaiava prima di mordere, mentre Obama morde e basta. Obama sanziona l’Iràn senza minacciare di bombardarlo un giorno sì e l’altro pure. Obama organizza colpi di stato in Ecuador e Honduras mentre stringe la mano sorridente anche ai più radicali statisti latino-americani. Per il resto, non ravviso molte differenze. Forse, sul piano interno Obama vorrebbe spostare la politica di disavanzo dalle spese militari a quelle sociali, ma i nudi dati dimostrano che durante la sua amministrazione sono state le prime che hanno continuato a crescere.


Eurasia: utopia o realtà?

Una politica di distensione e cooperazione a livello pan-eurasiatico è necessaria per sfuggire all’egemonia statunitense, ma l’idea di una completa unificazione politica a livello eurasiatico è utopia, né più né meno del “super-Stato mondiale” o altri progetti similari. La tendenza è semmai quella all’integrazione regionale nel quadro d’un sistema internazionale pienamente multipolare.


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L’alba dell’Era Rousseff

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Fonte: Strategic Culture Foundation

La maggior parte dei sondaggi indicavano Dilma Rousseff i vantaggio alla vigilia del ballottaggio presidenziale in Brasile. Il presidente uscente del Brasile, Luiz Inacio “Lula” da Silva, leader iper-popolare il cui rating nella fase finale del mandato, ha superato l’80%, ha rafforzato la posizione della Rousseff alla presidenza, ribadendo che il voto per Dilma è nei fatti, uno votare per lui. Le espressioni di sostegno del presidente da Silva, ovviamente, hanno contribuito a influenzare l’elettorato brasiliano, e il 31 ottobre Dilma Rousseff è stata votata come primo presidente donna del Brasile, con un voto del 56%, 11% in più rispetto al suo rivale José Serra.
Tra le altre cose, Lula deve essere accreditato della soluzione del problema della continuità politica: il suo ex braccio destro, donna, Dilma Rousseff è sicura di prendere in consegna la lista delle priorità strategiche del suo predecessore, che comporta armonizzazione sociale, sviluppo economico sostenibile, sovranità nazionale e fare del Brasile un centro di potere nel mondo d’oggi. Senza dubbio, Rousseff ha le credenziali necessarie per guidare il paese emergente come peso massimo globale. Economista di formazione, è stata presidente di
Petrobras, gigante energetico statale brasiliano e ha già ricoperto incarichi nell’amministrazione da Silva. Tra i successi della Rousseff vi è la realizzazione di un programma di costruzione di alloggi a prezzi accessibili, cosa che ha premiato la sua posizione politica. Inoltre, la nuova presidentessa del Brasile gode della reputazione di una persona generalmente aperta al dialogo, ma assolutamente intransigente quando si tratta di questioni di principio.
Il presidente da Silva ha spazzato via il mito dei media che un “
posto ombra” lo attendeva nell’amministrazione Rousseff, e che avrebbe mantenuto un ruolo decisionale sotto la nuova presidenza. Ha sottolineato l’indipendenza politica do Dilma e ha detto che avrebbe formato il governo da politica autonoma.
Nel suo primo discorso da presidentessa, Rousseff ha dichiarato che la sua priorità sarò quella di elevare il tenore di vita brasiliano, raggiungendo il livello comune tra i paesi industrializzati. Ha chiamato la comunità brasiliana del business a sostenere le prossime iniziative del governo, in particolare quelle volte a eliminare la povertà e la fame dal paese, e ha invocato la parità di genere, la libertà di parola, i diritti umani e la libertà di religione come elementi essenziali del suo programma. Rousseff, inoltre, ha sottolineato che non ci dovrebbero essere bambini abbandonati in Brasile.
Rousseff promette di perseguire politiche economiche e finanziarie indipendenti, allargando i mercati per la produzione industriale e agraria del Brasile, prevenire il ripetersi dell’inflazione e combattere la speculazione. Nella sua agenda nei i prossimi quattro anni, figurano in una posizione forte la sicurezza nazionale, la lotta contro il narcotraffico, la corruzione e altri tipi di reato. Ammettendo che il ruolo di successore di Lula – “
il genio Lula“, come dice Rousseff – ha imposto un ulteriore misura di responsabilità, la neoeletta presidentessa del Brasile s’è impegnata a fare del suo meglio per vincere la sfida.
Il leader venezuelano Hugo Chavez è stato il primo a congratularsi con la Rousseff. Aveva detto nel suo discorso settimanale televisivo, nel periodo che precedeva il voto in Brasile, che la vittoria di Rousseff era imminente e aveva anche generosamente previsto che avrebbe raccolto il 60% dei voti. Chavez non sta tentando di nascondere la sua contentezza: il risultato delle elezioni in Brasile ha segnato la fine della rimonta della destra in America Latina. I soldi di Washington, il sostegno dei media e, occasionalmente, le operazioni sotto copertura per sostenere i candidati pro-USA nelle presidenze in Messico, Honduras, Panama, Cile e Costa Rica, spingendo i commentatori a far circolare previsioni secondo cui la marcia populista in America Latina era finita, o anche che la scomparsa dei regimi sfidanti in Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Ecuador si profilava all’orizzonte. L’avvento della Rousseff, almeno ripristina lo status quo, garantendo che i regimi orientati verso il socialismo del XXI secolo continueranno a beneficiare del sostegno del Brasile.
In diplomazia, ci si può aspettare che la Rousseff si attenga alla strategia pragmatica di da Silva, nel selezionare i partner sulla base degli interessi del Brasile, a prescindere da come Washington definisca quei paesi. Ci sono informazioni che la squadra dei consulenti che da Silva ha usato per aiutarsi a tracciare il futuro corso della politica estera del Brasile, sono rimasti per la maggior parte, e che la nuova amministrazione si concentrerà sul rafforzamento del BRIC, il gruppo dei paesi dalle economie in continua espansione che comprende Brasile, Russia India e la Cina. Il Brasile inviterà le imprese russe ad assumere un ruolo più importante nel suo settore energetico, soprattutto per esplorare e sviluppare congiuntamente con
Petrobras, i campi scoperti di recente sul fondale oceanico del Paese. Impressionanti opportunità esistono anche nel settore della costruzione di oleodotti. Il presidente da Silva ha fatto seri sforzi per espandere il commercio di armi tra il Brasile e la Russia e, considerando che il Brasile sta attivamente modernizzando le sue forze armate, i piani per il futuro non sono così lontano dall’essere ancora più ambiziosi. L’esperienza del Brasile nella cooperazione tecnico-militare con la Russia è positivo. Nel marzo scorso il paese ha ricevuto i primi 3 dei 12 elicotteri Mi-35 russi, del valore di 150m di dollari. L’accordo prevede, inoltre, la corrispondente formazione dei piloti brasiliani, la manutenzione e il trasferimento tecnologico. L’azienda aerospaziale brasiliana Embraer, una società annoverata tra i leader mondiali nel settore, prevede di fare investimenti congiuntamente con la Russia, nel settore delle tecnologie aerospaziali di prossima generazione. L’industria e la ricerca aerospaziale sono i settori in cui la cooperazione tra il Brasile e la Russia sarà probabilmente più feconda.
I piani per il partenariato strategico Russia-Brasile si completerà nei decenni futuri, il che significa che molto deve essere fatto nel “
era Rousseff“.
Copyright 2010 © Strategic Culture Foundation
E’ gradita la ripubblicazione dell’articolo a condizione del collegamento ipertestuale diretto al giornale on-line “Strategic Culture Foundation” (www.strategic-culture.org).

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/

La mentalità dei russi e dei bielorussi

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Fonte: Fondsk

La Bielorussia, oggi, si trova di fronte ad un bivio storico… Dove andare? Con chi andare? Quale relazione stabilire con i Paesi vicini? Integrarsi con l’Unione Europea, continuare a costruire un edificio precario di pseudo unione statale con la Russia, oppure lottare per l’indipendenza? La società bielorussa non ha alcuna opinione su quale percorso scegliere in futuro. Alcuni considerano sé stessi parte integrante del mondo slavo, altri percepiscono il percorso filorusso come un modo per uscire da un passato oscuro ed altri ancora, guardano all’Europa come strada per raggiungere un futuro luminoso.

L’opposizione nazionalista bielorussa ritiene che l’identificazione dei bielorussi con gli europei abbia trovato la sua manifestazione nella diffusione dell’ideale del “litvinizmo”. I lituani indipendenti considerano, infatti, “secolo d’oro” il periodo di reggenza bielorussa, cioè la fase in cui l’attuale territorio bielorusso apparteneva al regno della Lituania, dimostrando un’originaria appartenenza della Bielorussia allo spazio liberale europeo.

Secondo l’opinione di alcuni studiosi, l’esistenza di una parentela slava tra questi due popoli, è quasi un mito, visto che il “substrato bielorusso non s’è praticamente mai incrociato con quello russo”. Se andiamo a leggere anche altri storici, il principato di Polotsk non apparteneva alla Rus’ di Kiev, ma i russi ed i bielorussi, perfino, furono nemici tra di loro per molti secoli. In questo contesto, Napoleone ha rappresentato quasi un liberatore del popolo bielorusso dal giogo imperiale russo.

E’ necessario, però, anche parlare dell’opposizione filo-occidentale, nonostante il governo veda la Bielorussia come il “ponte tra Oriente ed Occidente”, vale a dire il centro dell’Europa (non da meno nell’aspetto geografico, almeno in quello culturale), storia che imperversa decisamente nella retorica anti-russa.

Oggi, per ragioni opportunistiche qualcuno vuole vedere la Bielorussia più vicino all’Europa, ma più lontano dalla Russia. Tuttavia, come dimostrano anche le ricerche scientifiche ed un’esperienza di vita secolare, i bielorussi sono più vicini ai russi che agli europei.

Ad avvicinare i bielorussi ai russi, ed a ritenere gli europei come dissimili, sono, soprattutto, gli specialisti dell’Istituto Bielorusso di ricerche strategiche (BISS), ed il laboratorio di ricerche asiometriche Novak, dopo aver sottoposto ad un sondaggio più di mille persone abitanti nelle diverse regioni della Repubblica. Sommando i risultati del sondaggio, sono arrivati alla conclusione che l’uomo tipico bielorusso è vicino ai russi per qualità morali (bontà e spiritualità), ma con gli europei per quelle di natura lavorativa (autodisciplina e diligenza). Gli Europei ritengono i bielorussi come “spilorci lavoratori”.

Gli studiosi russi dicono che, in Occidente dominano la razionalità, la parsimonia ed il mercantilismo, mentre in Russia la passione e l’amore.

Il filosofo sovietico A. Zinov’ev, emigrato nel 1978 in Germania, sottolineava che la differenza fondamentale tra la civiltà russa e quella occidentale è inclusa nella combinazione tra l’aspetto individuale (“Io”) e quello sociale (“Noi”) che ha avuto inizio nell’essere comunità della società. Tra gli europei la dominazione dell’”Io” sul “Noi”, ha contribuito allo sviluppo di una serie di qualità, come la prudenza, la praticità, la propensione per l’integrità negli affari, la sensazione di superiorità sopra gli altri popoli, la capacità di autodisciplina ed autoidentificazione.

Rispetto alla mentalità del popolo russo hanno influito fortemente le complesse condizioni climatiche e geopolitiche, rispetto alle quali vivere è possibile soltanto in armonia con gli altri, visto che il carattere comunitario tipico dei russi. Il filosofo russo Trofimov ritiene: “Se l’attività del popolo russo si regolano su istituti sociali, realizzanti il principio “noi”, cioè la psicologia (famiglia, comunità, chiesa, stato), questo equivale a manifestare gentilezza, compassione, dedizione e disciplina.”

Le condizioni climatiche e geografiche, l’influenza della cultura orientale ed occidentale, le intense relazioni reciproche con i popoli vicini ed altri fattori hanno influito sulla mentalità del popolo bielorusso. Secondo l’opinione del prorettore P.O Such dell’Università Politecnica Statale di Gomel, in base a diversi studi del direttore del laboratorio sociologico V. Chiriennko, tra i bielorussi “tutto deriva dal cuore”. Il prorettore sottolinea, in particolare, che la parsimonia, l’operosità e la determinazione siano qualità popolari tra i bielorussi.

I sociologi dell’Università di Gomel’, confrontando la mentalità dei tre popoli (bielorusso, ucraino e russo), a differenza di alcuni politici, ritengono che i bielorussi per abituarsi alle nuove condizioni economiche, dovrebbero legarsi con i fratelli slavi, i quali seppure si distinguono dagli ucraini e dai russi, sono “simili per base caratteriale”, cosa che offre loro la percezione di comfort e di stabilità.

Tra le altre Nazioni, diverse da quelle già nominate, i bielorussi, per modello ideale di natura economica, sono definiti tedeschi. Essi simpatizzano con i vicini occidentali per comuni qualità mentali, come la parsimonia, l’operosità, l’accortezza, la puntalità, l’impegno, la fedeltà alla parola data, il rispetto della legge, il modo in cui sanno introdurre le riforme e l’autonomia. Da parte loro, i bielorussi offrono ai tedeschi di acquisire l’arte dell’ospitalità, il calore e la cordialità. Secondo la nostra opinione, esiste il dubbio che i bielorussi potessero imparare dai tedeschi la pignoleria e la parsimonia, mentre i tedeschi dai bielorussi la cordialità e l’ospitalità. (“Quello che per un russo è bene, per un tedesco è morte”). Noi ci distinguiamo decisamente l’uno dall’altro.

Nel corso dei secoli, la formazione della mentalità del popolo russo ( ed in qualche misura anche di quello bielorusso) ed occidentale è avvenuta in condizioni diverse. La vita della gente nei paesi europei era legata alla proprietà, al diritto ed al mercato, noi invece al potere appartenente alle diverse autorità presenti a tutti i livelli con le tante conseguenze che ne derivano. Per questo gli europei erano abituati a tendere verso il mercato, la democrazia, i propri diritti e la libertà, mentre noi allo stato. Ciò è evidenziabile, in particolare, nei tentativi delle elites di alcune repubbliche di riprodurre in Unione Sovietica “un paradiso occidentale”, secondo un eufemismo, i quali però non hanno avuto alcun successo. In particolare, la riproposizione in Russia del capitalismo in modo spericolato ha condotto ad un trasferimento della proprietà statale senza regole, alla diseguaglianza sociale, all’impoverimento della maggioranza della popolazione, alla riduzione della produzione industriale, alla rovina dell’agricoltura, alla corruzione ecc.

Il cambio di potere, ma anche di ideologia, ha introdotto una serie di anomalie, in precedenza tenute sotto controllo dallo stato. Questi difetti si aggiungono agli ulteriori colpi delle riforme di alcuni politici e scienziati che pensavano di riprodurre il modello di vita occidentale per ricostruire lo stile di vita russo. Naturalmente, già è stato detto molto in merito all’inopportunità di un allineamento della Russia all’Europa a causa di un’incompatibilità mentale. (“Ciò che per l’inglese è bene, per il russo non è valido”).

Il professor A. T. Stepanishev, uno storico russo, sottolineando il grande ruolo del governo nella società, ha scritto: “In base al ruolo direzionale dello stato, i russi sono abituati a pretendere quasi tutto da esso, i suoi meccanismi amministrativi regolari, ma non il mercato, che da lungo tempo ha le radici nei paesi occidentali…Per l’uomo russo lo stato ha rappresentato fonte di ordine, iniziatore e fautore di qualsiasi riforma, portatore e difensore di male”. “ Il popolo russo nella sua storia ha provato diversi regimi politici, ma alla fine ha scelto quello autoritario”… “la feticizzazione dello stato appare uno tra i fattori dominanti della vita politica della Russia nel passato e nei giorni nostri. La cosa è visibile nella votazione unanime alle elezioni per il partito al potere, accanto ad un’assenza di chiari risultati per i partiti che sono agli ultimi posti; un leader di alto livello, una chiara apatia politica della stragrande maggioranza dei cittadini ed un’autarchia di una vera opposizione e dibattito politico.

Poniamo l’attenzione al fatto che oggi in Bielorussia si verifica che il risultato delle votazioni è unanime, il leader del paese gode di grande popolarità, manca una reale opposizione al governo, la maggior parte dei cittadini sono apatici politicamente, … tutti elementi che testimoniano come in generale la maggioranza dei bielorussi, ma anche dei russi, sono abituarti ad affidarsi al ruolo fondamentale dello stato, il quale anche se assogetta a sé la popolazione, comunque risolve tutti i problemi.

Gli imperi russi, e dopo anche l’Unione Sovietica, anche se non hanno rappresentato degli stati ideali, sono riusciti, però, a raccogliere il potenziale intellettuale dei bielorussi, cosa che ha aiutato a realizzarsi nelle diverse sfere, oltre il criterio di nazionalità. Nel periodo sovietico, i bielorussi rappresentavano un’unica nazione compresa nell’Impero Sovietico.

In verità, è opportuno ricordare che per circa vent’anni la Bielorussia Occidentale ha fatto parte della Polonia  tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. La cosa è evidenziabile nel fatto che nonostante siano passati oltre settant’anni dall’unità del popolo russo, esiste ancora una differenza tra la mentalità degli abitanti delle regioni occidentali ed orientali.

Dopo la guerra, la Bielorussia è riuscita ad integrarsi nel sistema unico economico dell’Unione Sovietica. Era l’ultimo anello del “reparto di montaggio” del paese, ma godeva di grande fama nel settore dell’economia, la formazione e le scienze. Il livello di vita della popolazione appariva stabilmente alto. I bielorussi non avevano alcun stimolo verso l’indipendenza, visto che in occasione del referendum del 1991 l’82,7% dei cittadini ha votato a favore della conservazione dell’Unione Sovietica. Eppure la sorte non ha preso proprio in considerazione l’opinione dei bielorussi. L’indipendenza della Bielorussia per il popolo e le istituzioni è apparsa, infatti, come un fattore piovuto dal cielo, è stata considerata il risultato di eventi e fattori esterni.

A seguito della caduta dell’URSS, i bielorussi con una certa prudenza hanno riallacciato i rapporti economici con la Russia e non si sono lanciati all’impazzata verso il capitalismo.

Le idee liberali scaturite nelle mente di alcuni bielorussi non hanno trovato ampio sostegno tra la popolazione, tanto che si sono dimostrate essere estranee per la mentalità collettività e comunitaria dei bielorussi.

All’inizio del periodo di indipendenza nel paese salì al potere un uomo, che promise di assumersi la responsabilità delle sorti del paese e dei cittadini. Si interessò dei pensionati e delle persone che abitavano nei paesi dell’entroterra, aventi un basso livello di istruzione e di reddito. Puntò, in particolare, a quegli strati della popolazione che si consideravano dipendenti dal sostegno statale.

In Bielorussia, concretamente, è stata fondata un’economia mista con elementi sia del socialismo sia del liberalismo. Diverse sono state le opinioni di questo esperimento, ma si preferisce far riferimento al parere competente di alcuni esperti delle Nazioni Unite, i quali studiano il livello di sviluppo umano in ciascun paese del mondo. La Repubblica Bielorussa per livello della qualità della vita è davanti a tutti i paesi del CSI, compresa la Federazione Russa. Nel 1998 la Bielorussia occupava il 68^ posto ( RF 72^, Ucraina 102^), nel 2000 il 57^, nel 2002 il 56^, nel 2003 il 53^ tra 175 paesi del mondo. La Russia era ancora dietro (63^ posto), l’Ucraina al 75^ posto e la Georgia all’88^ posto.

Se la maggior parte della popolazione è soddisfatta di tale situazione, la parte istruita della società sempre di più rivolge uno sguardo verso l’Europa, paese avente il più alto livello di indice di sviluppo del potenziale umano. Come si suol dire, sogna di vivere in una condizione di civiltà. A questo gruppo, in particolare, si associa il desiderio di una parte della società bielorussa che si identifica con gli europei, intenzionata ad entrare in Unione Europea, dove, secondo l’opinione di alcuni, “tutto è di cioccolato”.

La Russia con i suoi scandali di corruzione, terrorismo, oligarchi ed altri aspetti negativi suscita presso i bielorussi almeno qualche riserva. Un blogger ha scritto: “Quello che oggi accade in Russia – non è gradito al nemico. Nello stesso tempo non consiglio al popolo di inserirsi senza indugio tra i russi. E’ meglio restare in disparte, è meglio aspettare il momento in cui si rendano conto della situazione e possono chiedere aiuto”. Tra i bielorussi che parlano in rete e le diverse cose pubblicate si può ritenere che nell’era contemporanea la Russia ha iniziato ad essere un modello indicativo di struttura politica ed economica-sociale, in base alla quale si può costruire in futuro la propria strategia di vita. Pertanto, si pensa che i bielorussi prudentemente non cercheranno di integrarsi con la Russia, ma aspetteranno che i russi facciano ordine all’interno della propria casa. Oppure attenderanno di scivolare per livello di vita sotto quello dei russi. Se nel 2003 la Bielorussia occupava il 53^ posto, cioè dieci posti davanti alla Russia, nel 2007- 2008 il 64^ posto, 2009^ il 68^, niente altro che tre punti al di sopra per proprio vicino orientale.

Gli studiosi di Gomel, muovendosi sui risultati delle proprie ricerche, ritengono che i bielorussi sono pronti per muoversi collettivamente contro “uno stato che usa al minimo il metodo amministrativo, a favore di uno stato che operi sulla base del diritto”. I Russi, essendo stanchi di riforme senza fine, anche loro vorrebbero vivere in uno stato socialmente operativo. Certamente in questo, la volontà dei due popoli combacia.

Tuttavia spetta alla Bielorussia la scelta geopolitica su come costruire in futuro le relazioni russo- bielorusse, anche se ciò non dipende dai popoli, ma dall’elite, cioè dai vertici politici dei due paesi. Cosa che è possibile leggere direttamente nella storia. Eppure io penso che quando il discorso verte su importanti decisioni statali, i governatori dovrebbero tener conto della mentalità del popolo. Altrimenti tutto va sottosopra. Nella nostra storia esempi di questa natura non mancano….

(Traduzione di Luciana Marielle Ranieri)

I rapporti economici e culturali tra Italia e Russia

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Sabato 6 novembre 2010, alle ore 16.00, si è tenuta a Modena presso la Sala Conferenze della Circoscrizione Centro Storico (Piazzale Redecocca 1) la conferenza: “I rapporti economici e culturali tra Italia e Russia”.

Sono intervenuti come relatori:

  • Stefano Grazioli (giornalista, autore di Gazpromnation e Vladimir Putin. La Russia e il nuovo ordine mondiale);
  • Gian Paolo Caselli (economista, Università degli Studi di Modena);
  • Tiberio Graziani (direttore della rivista “Eurasia”);
  • Aleksej Paramonov (console generale della Federazione Russa a Milano).

L’organizzazione è stata a cura dell’Associazione Culturale “Pensieri in Azione”, col contributo di “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici”, “La Nostra Gazzetta – Naša Gazeta” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), con il patrocinio della Circoscrizione 1 (Centro Storico) del Comune di Modena.

L’evento rientra nel Ciclo 2010-2011 dei Seminari di Eurasia.

Leggi la cronaca dell’evento (di Luca Rossi)

Video-sintesi dell’evento



La Serbia nell’UE: implicazioni geopolitiche

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Lo scorso 25 ottobre i ministri degli Esteri dell’Unione europea hanno scongelato la richiesta serba tesa ad integrare Belgrado nel sistema comunitario. La domanda di adesione era stata presentata dal governo Tadic lo scorso anno, quale primo passo di avvicinamento verso il percorso di piena integrazione. Sono dunque partite, a tutti gli effetti, le trattative diplomatiche fra la Commissione, i 27 membri e Belgrado. Due le questioni fondamentali sul tavolo: la prima, palese e dichiarata dall’Unione, è l’incondizionato appoggio serbo al Tribunale internazionale dell’Aja per la cattura e condanna dei generali nazionalisti Radko Mladic e Goran Hadzic. La seconda, posta sottobanco per via del veto spagnolo e greco, è il riconoscimento dell’indipendenza kosovara. Due questioni di enorme peso per un paese già umiliato e dilaniato come la Serbia.

Su entrambe il presidente Boris Tadic, leader della coalizione europeista, rischia di perdere il suo già lieve margine di consenso; infatti se da un lato, in parlamento, non può che tener conto della volontà del Partito Socialista Serbo, lo stesso che fu di Milosevic e che oggi è l’ago della bilancia della coalizione liberale, dall’altro, sul versante del riconoscimento dell’indipendenza kosovara, Tadic rischia una vera e propria sollevazione popolare e la definitiva sconfitta politica. Lo sa bene Tomislav Nikolic, leader del partito nazionalista, uscito perdente dalle presidenziali del 2008 per un pugno di voti, dopo un ballottaggio fra i più discussi nella recente vita ‘democratica’ del paese.

È in questo contesto che si devono inserire gli scontri dello scorso settembre, svoltisi a Belgrado in occasione del gay-pride e in Italia, a Genova, per la partita di qualificazione fra le due nazionali. In entrambi i casi, frange del nazionalismo serbo hanno apertamento manifestato la loro volontà di boicottare qualsiasi apertura ‘liberale’ ed europea fatta dal governo in carica.

Un governo che aveva vinto le elezioni presidenziali e parlamentari del 2008 sulla scia dell’invidia serba per gli storici “vicini”, Ungheria, Bulgaria e Romania, entrati da poco nell’Unione europea. Proprio il timore di subire un clamoroso ritardo economico rispetto all’area dell’Est Europa che si apriva agli aiuti di Bruxelles, aveva permesso a Tadic di raggiungere la Presidenza e imporre un governo di coalizione filo-europeista.

Ma le richieste di Bruxelles ora mettono Belgrado con le spalle al muro; per entrare davvero nel giro comunitario, Tadic deve spaccare il paese, isolare la metà serba che si riconosce nelle istanze conservatrici ed accettare ciò che per un serbo ortodosso risulta secolarmente inaccettabile: l’indipendenza unilaterale del Kosovo. Una scelta culturale, strategica e geopolitica assolutamente radicale, foriera di importanti conseguenze.


Fra Europa e Russia

La Serbia è da sempre una regione di faglia, è un confine fra Europa occidentale ed orientale, fra cristianesimo cattolico ed ortodosso, persino abituata al doppio uso dell’alfabeto cirillico e latino. E tuttavia, dalla dominazione ottomana giunta al termine della storica battaglia della Piana dei Merli (l’epica resistenza della cavalleria serba all’esercito islamico, nel 1389), la sua identità nazionale ha preso forma in termini eurasiatici, andando a rappresentare quel corpo di congiunzione fra mondo latino e mondo ortodosso, fra Europa e Russia, sacrificatosi a nord di Pristina per la libertà dal nemico esterno.

Per questo motivo la questione kosovara non può essere esclusivamente riferita ad uno scontro etnico e religioso, ad un mero retaggio nazionalista: la battaglia della Piana dei Merli, e dunque il Kosovo, è divenuta per i Serbi il simbolo di un’identità storica e perciò, fattualmente, geopolitica. Solo tenendo in considerazione questo elemento di continuità che rende la Serbia limes d’Europa, e non solo cerniera fra est ed ovest, è possibile analizzare le attuali problematiche internazionali legate a Belgrado.


Verso Bruxelles

Sono dunque facilmente comprensibili le relazioni che spingono le istituzioni serbe ad entrare nell’Europa che conta. Queste sono di tipo culturale, di legittimità identitaria, come detto; legate soprattutto alla comune battaglia civilistica che ha visto Vienna vincere laddove Belgrado aveva fallito.

Certo, sono anche storiche, essendo Belgrado legata a doppia mandata alle vicende imperiali austro-ungariche quale naturale area di interesse e controllo germanico; con tutti i sentimenti di rivincita e accettazione che questo elemento comporta.

Ma a tutto ciò si deve aggiungere il fattore fondamentale, quello economico. Come ribadito da molti analisti, l’Unione eruopea continua ad essere un fenomeno prettamente economico. Per nulla politico. Anzi, essa continua a rappresentare la vitalità produttiva tedesca (la vecchia area del Marco allargata), temperata dalle esigenze agricole e sceniche francesi.

È più che naturale che questo ultimo fattore, assommato ai precedenti, spinga la Serbia verso Bruxelles, senza grosse preoccupazioni per il fatto in sé, visto a Belgrado come un’ineluttabile contingenza macroregionale, priva di reali conseguenze geopolitiche ma ricca di opportunità di cassa. Lo testimonia anche l’atteggiamento politico di Nikolic, il leader nazionalista di opposizione, che verso Bruxelles non ha mai usato toni di netta ed irreversibile chiusura.


Verso Mosca

Ma la Serbia è anche la patria dei monasteri ortodossi. La resistenza serba alla dominazione ottomana fu resistenza ortodossa. L’identità serba, se riferita all’area interna dei Balcani è chiaramente slava. L’uso del cirillico, anche se accompagnato dall’alfabeto latino, ricorda quel tratto orientale che da Bisanzio giunge sino a Mosca. La stessa bandiera serba ripropone i medesimi colori della Federazione russa.

Come per altre regioni dell’Europa dell’est, dunque, anche la Serbia è legata culturalmente alla Russia. Ma ciò che più conta è legata ad essa politicamente e strategicamente. È la Russia che a livello internazionale sostiene le esigenze di Belgrado, ed è stata Mosca, nel 2008, in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ad imporre modifiche restrittive alla missione Eulex, sostenuta da Stati uniti ed Unione europea con l’intento di favorire l’indipendenza del Kosovo. Ed è sempre la Russia che, nel progetto originale del gasdotto South Stream, garantirebbe alla Serbia un ruolo economico di vitale importanza.

Da questo punto di vista è del tutto evidente quanto Belgrado non possa fare a meno del sostegno della grande madre dell’ortodossia, oggi potenza macroregionale.


Scenari geopolitici

I paletti della Ue all’ingresso serbo rivelano ancora una volta tutta l’inconsistenza politica del Vecchio continente. Più che tappe di avvicinamento, sono per Belgrado delle ulteriori prove di espiazione. Sia l’appoggio al tribunale dell’Aja, sia l’indipendenza del Kosovo, più che riferibili alle esigenze di pacificazione europee, sono tappe poste in continuità con l’intervento nordamericano ed alleato degli anni ’90.

Essendo questi i fatti, è chiaro che il futuro della Serbia resti strettamente collegato ai giochi internazionali in atto. Mosca non avrà nulla da obiettare all’ingresso di un suo alleato ‘civile e culturale’, come già accaduto per le altre realtà dell’est, sino a quando l’Unione europea manterrà la sua scarsa concretezza politica.

Cioè, fino a quando Bruxelles non sarà altro che un’unione doganale e monetaria incapace di sviluppare una sua identità politica e strategica. Anzi, la Russia di Vladimir Putin ha già dimostrato di saper cercare il dialogo con quelle realtà continentali maggiormente aperte allo scenario multilaterale. Si veda la Germania, per motivi strettamente economici. E l’Italia, attraverso una relazione politico-strategica già più strutturata, incentrata sul progetto South Stream, che potrebbe rivelarsi importante nell’equilibrio balcanico.

Due sono però gli aspetti che preoccupano Mosca. Il primo è appunto lo stretto rapporto fra UE e Nato. Dal 2004 al 2009, lo sviluppo del processo di integrazione europea è coinciso con gli ingressi nell’alleanza atlantica di gran parte degli stati dell’ex patto di Varsavia. Se ciò dovesse verificarsi anche per la Serbia, l’accerchiamento occidentale alla potenza russa diverrebbe non solo strategico-militare, ma quasi simbolico. Per Mosca significherebbe l’addio alle pretese egemoniche sul mondo ortodosso e la recisione, ancora una volta, del legame con il mito della Terza Roma.

L’altro punto si chiama appunto Ankara, o meglio Istanbul. In un’ottica multipolare, la Turchia era divenuta un obiettivo di partnership meridionale molto concreto per Putin. È opportuno ricordare che lo stesso progetto South Stream, opposto a quello euroamericano Nabucco, dal 2009 prevede proprio nella Turchia uno snodo essenziale. Qualora l’Ue, la Nato e le Nazioni Unite dovessero mai integrare a sé la Serbia, uno dei simboli delle difficoltà di relazione fra mondo europeo e musulmano, il preludio ad un riallinamento turco, auspicato da tutti gli ambienti istituzionali europei, sarebbe piuttosto chiaro. Con grande disappunto di Mosca, circondata ad est e a sud.

Da questo punto di vista, la perdita di Belgrado e l’indipendenza del Kosovo, rappresenterebbero per la Russia un precedente significativo teso alla disintegrazione dell’identità europea ortodossa e al definitivo inserimento delle realtà musulmane dell’Asia minore e centrale (Cecenia su tutte) nel quadro geopolitico statunitense. Ancora una volta, Belgrado sarà il centro di interessi globali pronti a scontrarsi.


* Giacomo Petrella è dottore in Scienze internazionali e diplomatiche (Università degli Studi di Genova)

USA: pratiche di fallimento

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Fonte: http://www.megachipdue.info/tematiche/kill-pil/4983-usa-pratiche-di-fallimento.html

La notizia del giorno, che non avete trovato sulle prime pagine dei giornali, è questa: gli Stati Uniti d’America hanno iniziato le pratiche di fallimento.
Senza dirlo esplicitamente, ma si capisce lo stesso.
Come? La Federal Reserve, cioè la Banca Centrale americana, annuncia l’”acquisto” di 600 miliardi di $. Lo chiamano acquisto (purchase) in termine tecnico, ma si deve leggere “stampa”. Altri 350-500 miliardi di dollari verranno prelevati dal debito che la Fed ha già acquisito, proveniente dai derivati tossici dei mutui facili, e “investiti”. Leggi immessi sul mercato.

Totale: all’incirca 1000 miliardi di carta, semplice carta, che la Banca Centrale USA stampa per comprare i titoli del debito pubblico americano. La mano sinistra eroga i soldi alla mano destra.
Se, a questi, si aggiungono (e occorre farlo, perchè sono a bilancio) i circa 800 miliardi già stampati per salvare le banche americane dal tracollo, si arriva a un trilione e 800 miliardi di dollari.
Una creazione di moneta che non ha precedenti nella storia di tutti i tempi.

Perchè lo fanno? Bastino alcune cifre. Nel 2007 la Cina comprava circa la metà (esattamente il 47%) delle nuove emissioni di cedole americane. Nel 2008, in piena crisi finanziaria, la Cina aveva ridotto della metà, al 20% circa. L’anno scorso gli acquisti cinesi si sono drasticamente quasi azzerati. Eravamo al 5%.
In queste condizioni non c’è più modo per pareggiare la bilancia commerciale degli Stati Uniti.
Con un debito di queste dimensioni bisogna inoltre mettere a bilancio 300 miliardi di interessi annui da pagare. Come? Non lo sa nessuno.

Non resta che fare ricorso al gioco delle tre tavolette, e puntare la pistola alla tempia del resto del mondo. La neo presidente del Brasile, Dilma Rousseff, ha subito reagito accusando gli USA di far pagare la propria crisi a tutti gli altri. L’effetto primo sarà infatti una ulteriore svalutazione del dollaro. Ma la situazione è molto più grave di una, per quanto pesante, impennata inflattiva mondiale. Questi sono i sintomi di una gigantesca perturbazione in arrivo. Il fisico Guido Cosenza, in un suo aureo libretto intitolato Il nemico insidioso, definisce come “transizione di fase” sul piano economico-sociale, una situazione come questa, simile al passaggio dell’acqua dallo stato liquido a quello gassoso. Processo che noi conosciamo con il nome di ebollizione.

Stiamo cominciando a bollire. Il che significa, appunto in termini economici e sociali, l’inizio del collasso.
A quelli che annunciavano l’imminente fine della crisi, la ripresa economica, una nuova crescita del PIL, va ora ricordato che mentivano, probabilmente per stupidità.
Quelli che ci hanno creduto o non se ne sono accorti di dovrà avvertirli affinchè si preparino a una decrescita ravvicinata e, quindi, drammatica.

Quando Larry Summers (uno dei principali bancarottieri intellettuali e pratici del pianeta) fu chiamato da Barack Obama per entrare nel suo governo, disse (bancarottiere ma non stupido): “Quanto tempo il maggior debitore del mondo potrà continuare a essere la massima potenza?”

E l’America, ex impero che non lo sa ancora, mandando a quel paese Obama, dimostra che non intende rinunciare alla sua posizione dominante. Un bel guaio per tutti, perchè l’America non può più imporre la sua volontà, proprio in quanto non è più un impero. Questo dice che loro sono in bancarotta e noi tutti siamo nei guai, e fino a che la lasceremo fare, ne pagheremo le conseguenze.

* Giulietto Chiesa, giornalista, è stato parlamentare europeo dal 2004 al 2009

“L’Orso osserva il Drago”: amici, nemici o semplici interlocutori?

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La Russia post-sovietica degli anni ’90 versava in una grave crisi economico-politica, mentre il suo grande vicino orientale, la Cina, stava avendo una straordinaria crescita economica. Inoltre, dopo il crollo dell’Unione Sovietica la Russia perse il suo ruolo di Super Potenza e stava cercando di definire una nuova identità con cui ripresentarsi alla comunità internazionale, nel frattempo, però, era evidente l’emergere della Cina come una nuova Grande Potenza mondiale. Tale contrasto ebbe un forte impatto sul modo in cui il mondo politico della nuova Russia vedeva la Cina. Alcuni politici russi vedevano nella ex-“sorella minore” un modello da seguire e un alleato nella lotta contro l’egemonia degli Usa, altri invece temevano che potesse diventare un pericolo per la sicurezza nazionale, altri ancora si collocavano in una posizione intermedia tra queste due visioni estreme. Aleksandr Lukin, il membro del Comitato Nazionale Russo del Consiglio per la Cooperazione nella Sicurezza dell’Asia Pacifica, nel suo libro L’orso osserva il drago delinea una serie di macrovisioni della Cina che hanno caratterizzato i politici e gli studiosi delle relazioni internazionali russi negli anni ‘90.


I sostenitori del modello cinese di riforma

I maggiori sostenitori del modello di riforma rappresentato dalla RPC erano i membri dell’Unione nazionalpatriottica della Russia, capeggiati del Partito comunista russo (PC). Essi proponevano l’attuazione delle stesse riforme anche in Russia, e cioè una giusta proporzione tra la politica del libero mercato e la politica di pianificazione. La Cina – dicevano i comunisti russi – era riuscita a trasformare se stessa senza rinunciare né al proprio passato né agli interessi nazionali (l’esatto contrario di ciò che stava accadendo in Russia). Essa era inoltre riuscita a mantenere la stabilità nel paese attirando in tal mondo un’enorme quantità degli investimenti diretti da parte dei paesi occidentali, mentre la Russia era costretta ad andare a “elemosinare” i miseri prestiti dal Fondo monetario internazionale. Ma, come sottolinea nel suo libro Lukin, le idee dei nazionalisti trovavano la loro origine non tanto nelle teorie comuniste, quanto in una vecchia concezione tradizionale russa risalente addirittura al XIX sec. per cui la Russia sarebbe vista più vicina all’Oriente che all’Occidente.


I sostenitori con riserve del modello cinese di riforma

Una seconda categoria di sostenitori, pur riconoscendo il successo delle riforme cinesi, non credeva che queste potessero essere egualmente applicate in Russia. Tale concezione era spesso propria a molti “democratici” e ha anche influenzato Egor Gajdar, uno dei maggiori riformatori dell’economia russa agli inizi degli anni ‘90.


I sostenitori di una stretta amicizia o un’alleanza tra la Russia e la Cina

Anche questa categoria trovava i suoi maggiori sostenitori tra i rappresentanti del PC e il suo leader Gennadij Zjuganov. In questa categoria rientravano anche i cosiddetti geopolitici e i nazionalisti non comunisti. Questi ritenevano che l’alleanza tra i due paesi sia inevitabile, ma non tanto per motivi ideologici quanto per motivi geopolitici. Così, il vice-presidente del Partito liberaldemocratico Aleksej Mitrofanov, che dal 1993 al 1995 era anche il rappresentante per gli affari di politica estera del Parlamento e dal 1995 al 1999 il rappresentante del Comitato per la Geopolitica, affermava che a breve l’opposizione tra l’Occidente e l’Oriente sarebbe stata sostituita da un bipolarismo intercontinentale tra l’Eurasia e l’America del Nord. Tale bipolarismo trarrebbe le proprie radici dall’egemonia politica degli Usa che alla fine avrebbe fatto volgere contro di sé il resto del mondo. Gli altri rappresentanti di questa categoria erano i liberali filocinesi per i quali la base del rapporto tra la Russia e la Cina era costituita dagli interessi economici. Essi, inoltre, non ravvisavano grandi problemi tra i due paesi.


I sostenitori della politica equilibrata/ bilanciata

Un altro grande gruppo era costituito da quegli studiosi e politici che desideravano vedere la Russia impegnarsi in una politica estera bilanciata tra l’Occidente e l’Oriente. Essi ritenevano, inoltre, che il paese avrebbe dovuto sfruttare a proprio vantaggio la sua posizione geopolitica. Uno dei sostenitori di questo approccio era il Vicerettore dell’Accademia diplomatica del Ministero degli Esteri russo Evgenij Bažanov secondo cui l’alleanza tra la Russia e la Cina era pressoché impossibile e non avrebbe portato altro che problemi, in primo luogo alla Russia. Bažanov argomentava la sua posizione affermando che ciò sarebbe andato contro la politica ufficiale cinese intenta ad evitare alleanze con le altre Grandi Potenze, mentre una Russia alleata alla Cina sarebbe diventata automaticamente il nemico numero uno della Nato, e tutta quella serie di paesi asiatici in forte crescita economica avrebbero cominciato a guardare la Russia con sospetto. Un altro sostenitore di una politica estera equilibrata verso la Cina è uno dei leader del partito Jabloko, Vladimir Lukin, che negli anni 1993 e 1995 ha presieduto il Comitato Statale del Parlamento per gli Affari Esteri. Nella politica estera russa Vladimir Lukin propone di guardare sia verso l’Occidente sia verso l’Oriente, proprio come l’aquila bicipite sullo stemma della Federazione Russa.


La Cina rappresenta una minaccia per la Russia

Non è facile attribuire a questo gruppo un preciso partito politico. I politici che vedevano la Cina come una minaccia per la Russia principalmente erano: a) i filooccidentali con posizioni radicali che volevano un totale inserimento della Russia nel mondo occidentale e quindi vedevano la Cina come un’ostile forza antioccidentale e b) i nazionalisti radicali per i quali anche la Cina appariva troppo filo-occidentale e le alleanze con altri stati sono sintomo di asservimento a volontà altrui. Comparivano periodicamente anche politici che si dichiaravano preoccupati per la minaccia di espansione demografica dal grande vicino orientale. Un esempio degli esponenti politici appartenenti alla presente categoria può essere Aleksej Arbatov, l’esperto nella difesa e nella sicurezza nazionale e parlamentare del partito Jabloko, che proiettandosi nel futuro si immaginava la creazione di un’alleanza economico-ideologica tra la Cina, i paesi dell’ASEAN e il Vietnam che avrebbe potuto essere diretta contro la Russia. Al gruppo dei filo-occidentali radicali invece si può annoverare il primissimo ministro degli affari esteri della nuova Russia Andrej Kozyrev, che rifiutava l’idea di un mondo multipolare, vedendo invece il mondo formato da un nucleo, e cioè i sette paesi più sviluppati, e collocando tutti gli altri paesi alla periferia dello sviluppo mondiale. Era ovvio che dopo l’elezione di Vladimir Putin come presidente della Russia la visione della politica estera di Kozyrev sarebbe risultata in netto contrasto con quella di Putin. La minaccia geopolitica era un altro tipo di visione della Cina che rientrava in questa categoria. È interessante notare che, all’interno di questa visione, si trovavano due tesi che partivano da altrettanti scenari di sviluppo della Cina, completamente opposti uno all’altro. La prima tesi, prevedendo il successo delle riforme in Cina, vedeva aumentare la sua potenza politica e militare fino a diventare una minaccia per la Russia. La seconda, invece, partendo dal presupposto del fallimento delle riforme, vedeva la Cina in preda al caos e quindi ipotizzava la rinascita della politica di espansione territoriale, una massiccia ondata di profughi cinesi, l’indebolimento del controllo sulle armi nucleari e così via. Infine, alcuni nazionalisti con una visione particolarmente radicale vedevano anche la Cina come un paese troppo occidentalizzato che contribuiva quindi a completare un presunto accerchiamento della Russia volto alla sua distruzione.


Per concludere

Tutta questa pluralità di visioni verso la Cina da parte dei politici russi si è avuta principalmente nella prima metà degli anni ’90. Nel 1996 durante la visita di El’cin in Cina le due parti avevano dichiarato di voler sviluppare “le relazioni di partenariato basato sulla parità e fiducia volto alla cooperazione strategica nel XXI secolo”. Il cambiamento della visione della RPC ai vertici del governo si può notare anche dalle dichiarazioni del vicepremier Babičev che, dopo il viaggio in Cina nel giugno 1997 con l’allora premier Viktor Černomyrdin (scomparso pochi giorni fa dopo una lunga malattia), dichiarò: «È proprio un peccato che noi, la Russia, i russi, non siamo riusciti a realizzare niente di simile». E sempre nel 1997 Boris El’cin e Jiang Zemin firmarono la dichiarazione sino-russa in cui si prevedeva la formazione di un nuovo ordine internazionale in un mondo multipolare. Con l’ascesa di Putin al potere la politica estera russa ha cominciato ad avere un carattere meno caotico e più coerente rispetto all’era El’cin. Nel 2001 Vladimir Putin e Jiang Zemin stipularono il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi.

Lukin, l’autore del libro, conclude scrivendo che «è molto probabile che la Russia e la Cina all’inizio del nuovo secolo continueranno il riavvicinamento» reciproco, in quanto in Russia «le forze che vedono la Cina come una minaccia (i nazionalisti radicali e i filo-occidentali radicali) non hanno pressoché nessuna possibilità di prendere il potere», il quale continua ad essere nelle mani «dei sostenitori di una politica di equilibrio tra l’Occidente e l’Oriente». E a confermare quanto appena detto sono i recenti fatti di politica internazionale descritti nella articolo uscito lo scorso mese su questo sito col titolo “La Russia resetta con gli Usa e rilancia con la Cina”.


* Konstantin Zavinovskij è dottore in Lingue e comunicazione internazionale (Università degli Studi di Roma III)


Honduras: Plan Mérida e il ritorno di Zelaya

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Mentre in Argentina si piange la scomparsa di Nestor Kirchner e in Brasile si festeggia la vittoria di Dilma Rousseff, gli Stati Uniti di Barck Obama rafforzano la loro presenza in Centro America.
Il Ministro della Sicurezza dello Stato dell’Honduras, Oscar Álvarez, ha da pochi giorni annunciato la concretizzazione di un nuovo “Plan Colombia” per il suo Paese. Annuncio che incalza i passi intrapresi dal Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, che già agli inizi di settembre aveva fermamente sottolineato la necessità di un Plan Colombia 2 per Messico e America centrale, il cui scopo primario è riconducibile alla lotta al narcotraffico.
A prova di tale parallelismo, la presenza di David Johnson, Sottosegretario di Stato per la Lotta al Narcotraffico degli Stati Uniti, in visita in Honduras con il compito specifico di costituire un gruppo di lavoro in grado di avviare l’Iniziativa di Sicurezza Regionale dell’America Centrale (CARSI), meglio nota con il nome di “Plan Mérida”.
Secondo Oscar Álvarez, un programma in stile Plan Colombia, permetterà alla regione di ostacolare i crimini che affliggono il Centro America, come il riciclaggio di denaro, il terrorismo, il traffico di essere umani e soprattutto l’immancabile narcotraffico.Brevissimamente, ricordiamo che il Plan Colombia, concepito nel 1999, rappresenta un accordo bilaterale stipulato fra il governo colombiano e quello dell’allora Presidente Bill Clinton, i cui obiettivi principali si identificavano con una rivitalizzazione sociale ed economica della Colombia, in modo da porre fine al conflitto armato che ancora oggi è in corso all’interno del Paese. In particolare, Washington aveva prefissato come fulcro del programma, la prevenzione al flusso di droga verso gli Stati Uniti e la promozione di pace e sviluppo economico in grado di contribuire alla sicurezza della regione.
L’aspetto interessante è che dopo oltre 10 anni, con tutti i mezzi tecnologici, militari ed economici a disposizione, non si sia ancora giunti ad una conclusione reale, né riguardo la questione del commercio di droga, né per quel che concerne lo smantellamento dei gruppi armati che tutt’ora sopravvivono in Colombia.
Risulta strano, dunque, in un paese quale l’Honduras, che il Dipartimento di Stato USA si concentri tanto sul fattore droga, dimenticando problemi come l’incremento costante del tasso di violenza o la quasi totale assenza di governance. Basti pensare che un rapporto del “Comisionado de los Derechos Humanos en Honduras” (CONADEH) emesso il 19 ottobre scorso, segnali come l’Honduras sia attualmente lo Stato con la percentuale di omicidi più elevata al mondo (circa 286 morti assassinati al mese), numeri in costante aumento dopo il golpe avvenuto ai danni di Manuel Zelaya.
Un Plan Colombia 2 sarebbe, quindi, un vero e proprio disastro per il Paese centroamericano, visto i risultati ottenuti fin ora in Colombia.

Non manca però qualche buona notizia.
L’ex Presidente Zelaya è stato infatti da poco nominato come deputato del “Parlamento Centroamericano” (PARLACEN).
Betty Matamoros, coordinatrice della Commissione Internazionale del “Fronte Nazionale di Resistenza Popolare” (FNRP), ha affermato come “ciò non rappresenta solamente un riconoscimento politico del suo status di Presidente, ma spiana la strada per un suo possibile ritorno nel paese”.
Attualmente, la Corte Suprema di Giustizia e il Pubblico Ministero dell’Honduras mantengono, in corso, ancora diverse cause contro Zelaya, che comunque con la nuova carica godrà dell’immunità parlamentare, in base all’art. 27 del Trattato Costitutivo del PARLACEN.
Dichiarazioni positive anche da parte del Presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, che ha comunicato come la nomina di Zelaya possa essere considerata l’inizio di un processo che porti al ristabilimento dell’ordine democratico in Honduras, riprendendo il percorso di unità e integrazione centroamericana, venuto meno in seguito al Colpo di Stato.

In conclusione, se da una parte il Governo di Porfirio Lobo continua a stringere alleanze con la Casa Bianca, a sua volta interessata a riottenere il controllo dell’America Centrale per poter tentare in maniera più decisa, la destabilizzazione dei più forti vicini, appartenenti all’ALBA (Alleanza Bolivariana per i Popoli di Nostra America); dall’altra parte il FNRP punta al rientro del ex presidente Zelaya e alla reintegrazione del precedente sistema democratico, cercando il sostegno della stessa regione centroamericana, unica vera risorsa in grado di contrastare le ambizioni di Washington e quelle meramente economiche e di potere dell’attuale governo di Tegucigalpa.
Di certo si prospettano nuovi scontri e nuovi tentativi destabilizzatori da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati all’interno della regione, tuttavia, le nuove vittorie elettorali, sia da parte di Chávez in Venezuela, che da parte della Rousseff in Brasile, potranno sicuramente influire significativamente sugli eventi futuri.

Vedere anche:

Honduras: presente e futuro” http://www.eurasia-rivista.org/3434/honduras-presente-e-futuro

*Stefano Pistore (Università dell’Aquila, Contribuisce frequentemente al sito di “Eurasia”)

Al-Qaida è un gruppo occidentale, non yemenita, dice il primo ministro dello Yemen

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Fonte: http://www.earthtimes.org/articles/news/352289,group-not-yemeni-pm.html

07 Novembre 2010

Sana’a, Yemen – Il primo ministro yemenita Ali Mujawar ha detto, sabato, che al-Qaida è un gruppo “costruito in occidente”, e non è stato creato dal suo paese, segnalava l’agenzia stampa ufficiale Saba. “Al-Qaida è soprattutto un gruppo creato in occidente”, ha detto Mujawar agli ambasciatori dei paesi asiatici e africani nello Yemen.
Il gruppo militante “non è stato creato in Yemen, come viene asserito da tutti coloro che propagano a livello internazionale, questa percezione dello Yemen”, ha detto, secondo Saba.
Lo Yemen sta cercando di liberarsi della sua immagine di rifugio dei militanti di al-Qaida, mentre viene sottoposto a forti pressioni da parte degli Stati Uniti e dei paesi occidentali, per reprimere insieme il ramo locale di al-Qaeda nella penisola arabica (AQAP), dopo il sventato piano della scorsa settimana d’inviare a Chicago delle bombe nei colli postali. Il gruppo ha rivendicato la responsabilità del piano, in un comunicato diffuso sul web, Venerdì.
Mujawar ha invitato la comunità internazionale a sostenere gli sforzi del suo governo per combattere il terrorismo, ha detto Saba. Il Ministro degli Interni Mutahar al-Masri, che ha partecipato alla riunione, ha detto che la maggior parte dei membri del gruppo nello Yemen non è di origine yemenita. “Gli elementi affiliati ad al-Qaida nello Yemen non sono yemeniti”, ha detto il ministro, citato da Saba. “Sono nati e cresciuti in altri paesi e sono giunti nello Yemen per impegnarsi in attività terroristiche”, ha detto, in riferimento alla vicina Arabia Saudita.
Paese impoverito nella punta sud-occidentale della penisola arabica, lo Yemen ha intensificato le operazioni contro l’AQAP da dicembre, dopo che il gruppo ha rivendicato la responsabilità di un attentato non riuscito, per far saltare in aria un aereo di linea statunitense nel corso del suo atterraggio a Detroit, lo scorso  Natale.
L’AQAP è emerso nel gennaio 2009 dalla fusione dei rami saudita e yemenita di al-Qaida, dopo che il gruppo saudita è stato schiacciato dal governo di quel paese, costringendo i suoi membri a cercare rifugio nello Yemen. Si dice che il gruppo abbia trovato un rifugio nelle più remote zone orientali dello Yemen, con alcuni dei primi membri che vi cercarono rifugio per sfuggire alla repressione in Arabia Saudita.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
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La doctrina eurasiática del sacrificio

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En los Comentarios a la leyenda del Maestro Manole, dedicados al tema del sacrificio en el que se inspira la leyenda rumana de Maestro Manole, Eliade muestra que tal tema está ampliamente difundido en las culturas del continente eurasiático. En una página de este estudio se indica como ejemplar la historia de una heroína que inspiró al autor la más hermosa de sus obras teatrales: Ifigenia (1).

Ifigenia –escribe Eliade –es sacrificada para que pueda efectuarse la expedición contra Troya. Podríamos decir que Ifigenia adquiere un ‘cuerpo de gloria’ que es la propia guerra, la propia victoria; vive en esta expedición, del mismo modo que la mujer del Maestro Manole vive en el cuerpo de piedra y cal del monasterio” (2). El sacrificio de Ifigenia pertenece por tanto a la categoría de los sacrificios de construcción de los cuales encontramos testimonios de un lado al otro de Eurasia. “Las prácticas y las creencias referentes a los sacrificios de construcción –escribe de hecho el propio Eliade –se encuentran un poco por todas partes en Europa, pero en ninguna parte han dado lugar a una lectura popular comparable a la del Sureste” (3).

Por “Sureste” Eliade entiende la península balcánica, pero las tradiciones populares húngaras nos muestran que una leyenda idéntica a la del Maestro Manole está presente también en la cuenca carpática: la balada de székely de Kömives Kelemen, de hecho, se refiere a la construcción de la ciudadela de Déva, en Transilvania (4). Según Ladislao Bo’ka, “la variante székely es probablemente de origen griego, pero transmitida por los eslavos mediorientales” (5).

En todo caso, “el motivo de una construcción cuyo cumplimiento exige un sacrificio humano encuentra testimonios en Escandinavia, y entre los Fineses y los Estonios, entre los Rusos y los Ucranianos, entre los Germanos, en Francia, en Inglaterra, en España (…) El descubrimiento de esqueletos en los fundamentos de los santuarios y de los edificios del Oriente Próximo antiguo, en la Italia prehistórica y en otros lugares, pone fuera de duda la realidad de tales sacrificios” (6).

Pero entre los hermanos espirituales de la Ifigenia de Eliade no está sólo Maestro Manole: está también el pastorcillo de la balada popular rumana de Mioriţa [La ovejita]. Es algo que hace observar oportunamente Mircea Handoca, que indica que “la visión de conjunto, los valores y los significados que el escritor atribuye al mito [se sitúan] en un espacio espiritual y miorítico” (7) y llama la atención sobre estas palabras de Ifigenia: “¡He aquí cómo caen los astros en mis nupcias! El murmullo de las aguas, el susurro de los abetos, el gemido de la soledad: ¡todas las cosas son como las he conocido!”. En efecto, el tema de la muerte como casamiento es dominante en las últimas palabras de Ifigenia: “Recordad –dice la heroína de Eliade a Agamenón – es una tarde de nupcias. Ahora, de un momento a otro, seré esposa… ¿Por qué todos han callado y no se oyen ya los cantos serenos de las vírgenes? [...]Pero, ¿por qué no se oyen ya cantos de boda? ¿Por qué los invitados no enlazan guirnaldas de flores de colores encendidos y la esposa se ha quedado con el vestido negro del día? […] ¡Traedme el velo de esposa!” Son palabras esencialmente análogas a las del pastorcillo de Mioriţa: “Diles sólo –que me he casado –con una reina –la esposa del mundo; -que en mi boda –ha caído una estrella”. Estudiando la balada de la Ovejita vidente, Eliade dirá que “la muerte asimilada a un matrimonio es [un motivo folclórico] arcaico y hunde sus raíces en la prehistoria” (8).

El tema del sacrificio generador de victoria estaba ya claramente presente en la Ifigenia de Eurípides. “Yo –dice la protagonista de la tragedia en cuestión – vengo a dar a los Griegos una salvación que aportará la victoria. Llevadme, yo soy la que expugnará la ciudad de Ilio y de los Frigios” (9). Por tanto, no le falta razón a François Jouan cuando ha equiparado la “devotio” (10) de los Romanos al sacrificio de la heroína de Eurípides. Devotio, como se sabe, era en la religión romana la forma particular de votum según la cual el general se inmolaba a sí mismo con el fin de conseguir la victoria en el combate. “Fuerza y victoria” (vim victoriamque) pide a los dioses el cónsul Decio Mure, al mismo tiempo ofreciente y víctima sacrificial (11). Esta concepción del autosacrificio que libera la fuerza y produce la victoria tiene ecos en Racine, que hace decir a su Ifigenia: “La sentencia del destino quiere que vuestra felicidad sea fruto de mi muerte. Pensad, señor, pensad en los sembrados de gloria que la Victoria ofrece a vuestras manos valerosas. Ese campo glorioso, al cual todos vosotros aspiráis, si mi sangre no lo riega, es estéril para vosotros[…] Ya Príamo palidece; ya Troya alarmada teme mi fuego” (12).

En las leyendas referentes a los rituales de construcciones y en las creaciones artísticas inspiradas por el mito de Ifigenia circula por tanto una misma concepción: la que un famoso folclorista ha resumido en estos términos: “El padre (en el caso de Ifigenia) o el marido (en los cantos populares), ofreciendo a la hija o a la mujer, se ofrecen a sí mismos, de ahí que esa sustitución une en el ámbito humano y divino al sacrificante y a la víctima” (13). Pero también este concepto, en definitiva, había ya sido expresado por las Escrituras hindúes: “La víctima (pashu) es sustancialmente (nidânêna) el sacrificante mismo” (14).


1. M. Eliade, Ifigenia (traducción y ensayo de introducción de C. Mutti), Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2010.
2. M. Eliade, Commenti alla leggenda di Mastro Manole, en: M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milán 1990, p. 90. Cfr. M. Eliade, Mastro Manole e il Monastero d’Arges, en Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Ubaldini, Roma 1975, pp. 146-168.
3. M. Eliade, Struttura e funzioni dei miti, en Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milán 1988, p. 74. Para la amplia literatura referente a este tema, véase G. Cocchiara, Il ponte di Arta, en Il paese di Cuccagna, Einaudi, Turín 1956, pp. 84-125. Dado que ni Cocchiara ni Eliade hacen mención de la leyenda ligada a la construcción de los juros de Kazan’ (República Autónoma Tátara), que de 1239 a 1552 fue capital del Canato tártaro, permítaseme remitir a la traducción de la respectiva balada mordovina, en: C. Mutti, Kantele e krez. Antologia del folklore uralico, Arthos, Carmagnola 1979, pp. 60-63.
4. C. Mutti, Canti e ballate popolari ungheresi, Quaderni italo-ungheresi, Parma 1972, pp. 95-104.
5. L. Bóka, Ballate popolari transilvane, “Corvina”, Budapest, octubre 1940.
6. M. Eliade, Struttura e funzioni dei miti, cit., p. 75.
7. M. Handoca, Mitul jertfei creatoare, [Il mito del sacrificio creatore], “Manuscriptum” (Bucarest), a. V, n. 1 (1974).
8. M. Eliade, La pecorella veggente, en Da Zalmoxis a Gengis-Khan, cit., p. 208.
9. “soterìan Héllesi dòsous’ érchomai nikefòron. Ágeté moi tàn Ilìou kaì Frygôn heléptolin” (Iphig. Aulid., 1473-1476).
10. F. Jouan, Notes complémentaires, en: Euripide, Iphigénie à Aulis, Les Belles Lettres, París 1983, p. 152.
11. T. Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9.
12. “Et les arrêts du sort – Veulent que ce bonheur soit un fruit de ma mort. – Songez, Seigneur, songez à ces moissons de gloire – Qu’à vos vaillantes mains présente la Victoire. – Ce champ si glorieux, où vous aspirez tous, – Si mon sang ne l’arrose, est stérile pour vous. […] Déjà Priam pâlit. Déjà Troie en alarmes – Redoute mon bûcher” (J. Racine, Iphigénie, 1535-1540, 1549-1550).
13. G. Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Einaudi, Turín 1956, p. 120.
14. Aitareya Brahmana, II, 11.

*Claudio Mutti es licenciado en Filologia Finohúngara por la Universidad de Bolonia. Se ha ocupado del área cárpato-danubiana desde un perfil histórico (A oriente di Roma e di Berlino, Effepi, Genova 2003), etnográfico (Storie e leggende della Transilvania, Oscar Mondadori, Milano 1997) y cultural (Le penne dell’Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, Società Editrice Barbarossa, Milano 1994; Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999). Entre sus últimas publicaciones están Gentes. Popoli, territori, miti, (Effepi, Genova 2010), L’unità dell’Eurasia (Effepi, Genova 2008), Imperium. Epifanie dell’idea di Impero (Effepi, Genova 2005).


Traducido por Javier Estrada

Fuente: http://www.eurasia-rivista.org/6697/la-dottrina-eurasiatica-del-sacrificio

La dottrina eurasiatica del sacrificio

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Nei Commenti alla leggenda di Mastro Manole, dedicati al tema del sacrificio cui si ispira la leggenda romena di Mastro Manole, Eliade mostra come tale tema sia ampiamente diffuso nelle culture del continente eurasiatico. In una pagina di questo studio viene indicata come esemplare la storia di un’eroina che ha ispirato all’Autore il più bello dei suoi lavori teatrali: Ifigenia (1).

“Ifigenia – scrive Eliade – è sacrificata perché possa effettuarsi la spedizione contro Troia. Potremmo dire che Ifigenia acquisisce un ‘corpo di gloria’ che è la stessa guerra, la stessa vittoria; vive in questa spedizione, proprio come la moglie di Mastro Manole vive nel corpo di pietra e calce del monastero” (2). Il sacrificio di Ifigenia appartiene quindi alla categoria di quei sacrifici di costruzione che troviamo attestati da un capo all’altro dell’Eurasia. “Le pratiche e le credenze relative ai sacrifici di costruzione – scrive infatti lo stesso Eliade – si ritrovano un po’ dappertutto in Europa, ma in nessuna parte hanno dato luogo a una letteratura popolare paragonabile a quella del Sud-Est” (3).

Con “Sud-Est” Eliade intende la penisola balcanica, ma le tradizioni popolari ungheresi ci mostrano che una leggenda identica a quella di Mastro Manole è presente anche nel bacino carpatico: la ballata székely di Kömives Kelemen, infatti, si riferisce alla costruzione della cittadella di Déva, in Transilvania (4). Secondo Ladislao Bo’ka, “la variante székely è probabilmente di origine greca, ma trasmessa dagli Slavi meridionali” (5).

In ogni caso, “il motivo di una costruzione il cui compimento esige un sacrificio umano è attestato in Scandinavia e presso i Finni e gli Estoni, presso i Russi e gli Ucraini, presso i Germani, in Francia, in Inghilterra, in Spagna. (…) La scoperta di scheletri nelle fondamenta dei santuari e dei palazzi del Vicino Oriente antico, nell’Italia preistorica, e altrove, pone fuori di ogni dubbio la realtà di tali sacrifici” (6).

Ma tra i fratelli spirituali dell’Ifigenia di Eliade non c’è soltanto Mastro Manole: c’è anche il pastorello della ballata popolare romena di Mioriţa [L'agnellina]. Lo fa opportunamente notare Mircea Handoca, il quale osserva che “la visione d’insieme, le valenze e i significati che lo scrittore attribuisce al mito [si collocano] in uno spazio spirituale mioritico” (7) e richiama l’attenzione su queste parole di Ifigenia: “Ecco come cadono gli astri alle mie nozze! Il murmure delle acque, il sussurro degli abeti, il gemito della solitudine: tutte le cose sono come le ho conosciute!” In effetti, il tema della morte come sposalizio è dominante nelle ultime parole di Ifigenia: “Ricordati, – dice l’eroina eliadiana ad Agamennone – è una sera di nozze. Adesso, da un momento all’altro, sarò sposa… Perché tutti hanno fatto silenzio e non si odono più i canti sereni delle vergini? [...] Ma perché non si odono cantici di nozze? Perché gl’invitati non intrecciano ghirlande di fiori dai colori accesi e la sposa è rimasta con l’abito nero del giorno? [...] Portatemi il velo di sposa!” Sono parole essenzialmente analoghe a quelle del pastorello di Mioriţa: “Di’ loro soltanto – che mi son sposato – con una regina, – la sposa del mondo; – che al mio sposalizio – caduta è una stella”. Studiando la ballata della Pecorella veggente, Eliade dirà che “la morte assimilata a un matrimonio è [un motivo folclorico] arcaico e affonda le sue radici nella preistoria” (8).

Il tema del sacrificio generatore di vittoria era già chiaramente presente nell’Ifigenia euripidea. “Io – dice la protagonista della tragedia di Euripide – vengo a dare ai Greci una salvezza apportatrice di vittoria. Portatemi via, io sono l’espugnatrice della città di Ilio e dei Frigi” (9). Non è dunque senza una qualche ragione che François Jouan ha equiparato alla “devotio” (10) dei Romani il sacrificio dell’eroina euripidea. Devotio, come è noto, era nella religione romana quella particolare forma di votum secondo cui il generale immolava se stesso al fine di conseguire la vittoria nel combattimento. “Forza e vittoria” (vim victoriamque) chiede agli dèi il console Decio Mure, al contempo offerente e vittima sacrificale (11). Questa concezione dell’autosacrificio che sprigiona forza e produce vittoria riecheggia in Racine, il quale fa dire alla sua Ifigenia: “La sentenza del destino vuole che la vostra felicità sia frutto della mia morte. Pensate, signore, pensate alle mèssi di gloria che la Vittoria offre alle vostre mani valorose. Quel campo glorioso, al quale voi tutti aspirate, se il mio sangue non lo innaffia, è sterile per voi. […] Già Priamo impallidisce; già Troia in allarme paventa il mio rogo” (12).

Nelle leggende relative ai rituali di costruzioni e nelle creazioni artistiche ispirate dal mito di Ifigenia circola dunque una stessa concezione: quella che un famoso folclorista ha riassunto in questi termini: “Il padre (nel caso di Ifigenia), o il marito (nei canti popolari), offrendo la figlia o la moglie, offrono se stessi, onde quella sostituzione unisce nell’ambito umano e divino il sacrificante e la vittima” (13). Ma anche questo concetto, in fin dei conti, era già stato espresso dalle Scritture indù: “La vittima (pashu) è sostanzialmente (nidânêna) il sacrificante stesso” (14).

1. M. Eliade, Ifigenia (traduzione e saggio introduttivo di C. Mutti), Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2010.
2. M. Eliade, Commenti alla leggenda di Mastro Manole, in: M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, p. 90. Cfr. M. Eliade, Mastro Manole e il Monastero d’Arges, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Ubaldini, Roma 1975, pp. 146-168.
3. M. Eliade, Struttura e funzioni dei miti, in Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milano 1988, p. 74. Per la vasta letteratura relativa a questo tema, si veda G. Cocchiara, Il ponte di Arta, in Il paese di Cuccagna, Einaudi, Torino 1956, pp. 84-125. Siccome né Cocchiara né Eliade fanno menzione della leggenda connessa alla costruzione delle mura di Kazan’ (Repubblica Autonoma Tatara), che dal 1239 al 1552 fu capitale del Canato tartaro, mi si consenta di rinviare alla traduzione della rispettiva ballata mordvina, in: C. Mutti, Kantele e krez. Antologia del folklore uralico, Arthos, Carmagnola 1979, pp. 60-63.
4. C. Mutti, Canti e ballate popolari ungheresi, Quaderni italo-ungheresi, Parma 1972, pp. 95-104.
5. L. Bóka, Ballate popolari transilvane, “Corvina”, Budapest, ottobre 1940.
6. M. Eliade, Struttura e funzioni dei miti, cit., p. 75.
7. M. Handoca, Mitul jertfei creatoare, [Il mito del sacrificio creatore], “Manuscriptum” (Bucarest), a. V, n. 1 (1974).
8. M. Eliade, La pecorella veggente, in Da Zalmoxis a Gengis-Khan, cit., p. 208.
9. “soterìan Héllesi dòsous’ érchomai nikefòron. Ágeté moi tàn Ilìou kaì Frygôn heléptolin” (Iphig. Aulid., 1473-1476).
10. F. Jouan, Notes complémentaires, in: Euripide, Iphigénie à Aulis, Les Belles Lettres, Paris 1983, p. 152.
11. T. Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9.
12. “Et les arrêts du sort – Veulent que ce bonheur soit un fruit de ma mort. – Songez, Seigneur, songez à ces moissons de gloire – Qu’à vos vaillantes mains présente la Victoire. – Ce champ si glorieux, où vous aspirez tous, – Si mon sang ne l’arrose, est stérile pour vous. […] Déjà Priam pâlit. Déjà Troie en alarmes – Redoute mon bûcher” (J. Racine, Iphigénie, 1535-1540, 1549-1550).
13. G. Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Einaudi, Torino 1956, p. 120.
14. Aitareya Brahmana, II, 11.

*Claudio Mutti, antichista e finnugrista, si è occupato dell’area carpatico-danubiana sotto il profilo storico (A oriente di Roma e di Berlino, Effepi, Genova 2003), etnografico (Storie e leggende della Transilvania, Oscar Mondadori, Milano 1997) e culturale (Le penne dell’Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, Società Editrice Barbarossa, Milano 1994; Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999).
Tra le sue ultime pubblicazioni, Gentes. Popoli, territori, miti, Effepi, Genova 2010, L’unità dell’Eurasia (Effepi, Genova 2008), Imperium. Epifanie dell’idea di Impero (Effepi, Genova 2005).

Chiquita, Google e le guerre inventate dell’America Centrale

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Jim Gray, il creatore di Google Earth, nel febbraio 2007 scomparve con la sua barca a vela, la “Tenacious“, mentre navigava verso le Farallon Islands, a venticinque miglia al largo di San Francisco; e sebbene fosse scattata una gigantesca operazione di soccorso, non venne mai più ritrovato, benché la barca avesse a bordo l’EPIRB, un sistema di allarme radio che viene attivato automaticamente qualora la barca stia iniziando ad affondare, o se l’equipaggio si dovesse trovare in difficoltà. Niente lasciava pensare a una tragedia, il mare era calmo, la barca era perfettamente equipaggiata e in ottime condizioni. E la moglie non si  preoccupò di lanciare subito l’allarme. Nonostante diverse unità della guardia costiera, un C-130 e un paio di elicotteri avessero pattugliato un’area di 40mila miglia quadrate del Pacifico, dall’Oregon fino a Point Conception, a 200 miglia a sud di San Francisco, nulla, di Gray e della sua barca non furono trovate tracce. Jim Gray, co-fondatore di Google assieme a Sergei Brin, mise online il motore di ricerca delle immagini satellitari ad alta definizione (Google Map e Google Earth). La Microsoft voleva inviare alcune barche private per partecipare alla ricerca, la guardia costiera lo sconsigliò: “Non vorremmo finire per dover cercare anche i ricercatori”.
Ecco Google Earth: le mappe di Google sono state utilizzate dal Nicaragua per realizzare una base militare in un’area confinante con il Costa Rica che, apparentemente per errore, era stata assegnata da Google Earth a Managua, sebbene il Costa Rica lo rivendicasse. Il confine passerebbe più a nord di quanto indicato da Google Earth. È nato così un contenzioso tra Managua e San José, che ha accusato la prima di aver invaso il territorio costaricense: circa 2,7 chilometri di discordia, tanto è l”errore‘ cartografico di Google Earth. Sebbene l’azienda californiana di Mountain View avesse iniziato a porre rimedio al pasticcio, Managua ha chiesto di non modificare i confini.
Una controversia vecchia di 200 anni sul fiume San Juan, che costituisce il confine tra i  due stati, almeno secondo il trattato Cañas-Jerez firmato nel 1858. Il Nicaragua, evidentemente poco soddisfatto della sistemazione, cerca di basare la propria rivendicazione sulla mappatura digitale effettuata da Google. Sarebbe la prima volta che internet verrebbe utilizzato per sancire i trattati internazionali e per stabilire relazioni diplomatiche. Ma non è il primo caso, già c’era stato un precedente, quando nel febbraio 2010, sempre un ‘erroreGoogle suscitò una contesa territoriale tra  la Cambogia e la Thailandia.
L’America centrale è già stata teatro di contese territoriali tra gli stati che vi risiedono. Il caso più eclatante fu la ‘Guerra del Calcio o degli Stadi‘, esplosa nel luglio 1969 tra Honduras e San Salvador. Anche in quel caso la causa scatenante furono le multinazionali statunitensi, quando le varie compagnie bananifere nordamericane come la famigerata United Fruits (oggi meglio nota come Chiquita) favorirono l’immigrazione di mano d’opera salvadoregna nei loro immensi latifondi aziendali in Honduras.
Nel 1969 più di 300.000 salvadoregni vivevano in Honduras, costituendo il venti per cento della popolazione rurale dell’Honduras. In Honduras, United Fruit Company controllava il dieci per cento dei terreni, e nel 1966, essa creò la Federación Nacional de Agricultores y Ganaderos de Honduras (FENAGH), anti-contadina e anti-salvadoregni, che fece pressioni sul presidente honduregno, il blandamente riformista Generale Lopez Arellano, affinché ne proteggesse i diritti di proprietà. Difatti parecchi terreni furono occupati, sai da honduregni che da immigrati del Salvador, in forza di una legge del 1962, ma la versione emendata di questa, nel 1967, tolse i terreni occupati dagli immigrati per ridistribuirli agli honduregni. Migliaia di lavoratori salvadoregni furono così espulsi dall’Honduras, generando tensioni che causarono il conflitto militare.
La scintilla il Campionato del Mondo per il 1970, quando le nazionali di Honduras ed El Salvador s’incontrarono per il secondo turno nordamericano di qualificazione per la Coppa del Mondo. L’8 giugno 1969 vi furono scontri tra tifoserie nella capitale honduregna di Tegucigalpa, dove l’Honduras vinse 1-0. Subito dopo la partita, la diciottenne salvadoregna Amelia Bolanos si sparò al cuore, venendo così elevata al rango di martire di El Salvador, con tanto di funerale trasmesso in  televisione, con la relativa partecipazione del presidente salvadoregno e della nazionale di calcio. Il secondo turno, del 15 giugno 1969 nella capitale San Salvador, vide la goleada del Salvador, che vinse 3-0, con relativo strascico di  violenze. Il tutto era forse frutto di un’operazione di manipolazione mediatica e delle coscienze pubbliche attuata dai centri di guerra psicologica statunitense? Non è da escludere, visto che l’intelligence e le comunità scientifiche psichiatriche e psicologiche statunitense (dottor Cameron e Gottlieb) e inglese (Tavistok Institute) erano impegnate in intese e ampie campagne di manipolazione e di esperimenti, sia in Europa che in Vietnam del sud.
Il 26 giugno 1969, lo stesso giorno in cui il Salvador vinse 3-2 ai playoff, a Città del Messico; El Salvador ruppe le relazioni diplomatiche con l’Honduras, affermando che “il governo dell’Honduras non ha preso misure efficaci per punire questi crimini che costituiscono un genocidio, né ha fornito garanzie di indennizzo o risarcimento per i danni causati ai salvadoregni“. Iniziava la guerra delle 100 ore.
Il 14 luglio 1969 iniziarono le operazioni belliche, e lì si vide che il vero obiettivo erano alcune aree territoriali di confine. L’esercito salvadoregno lanciò la sua offensiva lungo le due principali strade che collegano i due stati. L’esercito salvadoregno, più grande e meglio attrezzato rispetto a quello honduregno, conquistò la capitale del dipartimento di Nueva Ocotepeque e altre otto città. Gli honduregni reagirono bombardando l’aeroporto militare salvadoregno di Ilopango e i depositi di carburante, distruggendo il 20% delle riserve di benzina del Salvador.
Un certo numero di piloti statunitensi, tra cui Chuck Lyford, Bob Love, Lynn Garrison e Ben Hall, affiancarono l’aviazione salvadoregna. Questi piloti si presero carico dei caccia a pistoni statunitensi Cavalier F-51 Mustang, e divennero protagonisti degli scontri con i velivoli honduregni Vought F4U Corsair, anch’essi caccia a elica ex-statunitensi, residuati della seconda guerra mondiale. Tali missioni videro gli ultimi combattimenti al mondo tra aerei a elica. L’aiuto statunitense non dovette essere troppo ben apprezzato, poiché i vecchi Corsair honduregni inflissero qualche perdita all’aviazione salvadoregna (almeno tre caccia). Inoltre, Anastasio Somoza, l’allora dittatore del Nicaragua, aiutò materialmente l’Honduras, forse su sollecitazione di Washington, applicando così, su scala sperimentale, la teoria poi avanzata negli anni ’80 dagli ambienti reaganiani, di veder logorarsi in una guerra inutile due suoi avversari regionali come l’Iraq e l’Iran.
In definitiva, la guerra che durò poco più di quattro giorni, causò 3000 morti tra civili e militari e 50 milioni di dollari di danni, e ci vollero undici anni per firmare il trattato di pace tra Tegucigalpa, dove i militari rafforzarono la loro presa sulle istituzioni, e San Salvador, la quale era già sprofondata nella guerra civile risultante della crisi economico-sociale causata proprio dalla guerra con l’Honduras.
Che qualcuno, a Langley o Wall Street, voglia riproporre oggi simili scenari, non va escluso. Visto anche l’esempio dell’Honduras post-Zelaya, riportato nell’ovile di Zio Sam dai fidi Micheletti e Lobo, dopo la ‘pericolosa scivolata‘ verso la tentazione integrazionista bolivariana dell’ALBA.

8/11/2010
Alessandro Lattanzio, storico, esperto di questioni militari. È autore di Terrorismo sintetico (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007), Potere globale. Il ritorno della Russia sulla scena internazionale (Fuoco Edizioni, Roma 2008) e Atomo Rosso. Storia della forza strategica sovietica (Fuoco Edizioni, Roma 2009)

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