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Secondo il Pakistan, gli USA sono dietro gli attacchi talebani

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Fonte: http://www.informationclearinghouse.info/article26583.htm

14 ottobre 2010 “New Karla” – Washington, 13 ottobre: Zalmay Khalilzad, l’ex inviato degli Stati Uniti in Afghanistan, ha liquidato le affermazioni del presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari (foto), secondo cui gli Stati Uniti ‘organizzano’ gli attacchi (suicidi) dei taliban pakistani all’interno del suo paese, quale ‘follia’, ed era del parere che sia Zardari che il presidente afgano, Hamid Karzai, che credono a questa teoria della cospirazione degli Stati Uniti, siano dei leader ‘disfunzionali‘.
Il resoconto dell’affermazione di Zardari, secondo cui la mano degli Stati Uniti sia dietro gli attacchi, è stata ripreso dal giornalista statunitense Bob Woodward, a pagina 116 del suo famoso libro ‘
Obama’s Wars’, riportava The News.
Il resoconto di Woodward è questo: “
Una sera durante il vertice trilaterale (a Washington, tra Obama, Karzai e Zardari) Zardari ha cenato con Zalmay Khalilzad, il 58enne ex ambasciatore USA in Afghanistan, Iraq e Nazioni Unite, durante la presidenza Bush.
Zardari lasciando cadere il suo aplomb diplomatico, ha suggerito che uno dei due paesi ha pianificato gli attacchi dei talebani pakistani all’interno del suo paese: gli Stati Uniti. Zardari non pensava che l’India potesse avere tale capacità, ma gli Stati Uniti si. Karzai gli aveva  detto che gli Stati Uniti erano dietro gli attacchi, confermando le affermazioni fatte dall’ISI pakistana.
” “Signor Presidente“, ha detto Khalilzad, “che cosa avremmo da guadagnare da questa operazione? Puoi spiegarmene la logica“.
Questo è stato un complotto per destabilizzare il Pakistan, Zardari ipotizzava, in modo che gli Stati Uniti potessero invaderlo e prendergli le armi nucleari. Non riusciva a spiegare il rapido aumento della violenza in altro modo. E la CIA non aveva perseguito i leader dei taliban pakistani, un gruppo conosciuto come Tehrik-e-Taliban-e-Pakistan, o TTP, che aveva attaccato il governo. Il TTP è stato anche accusato dell’assassinio della moglie di Zardari, Benazir Bhutto“.
Noi vi diamo gli obiettivi dei taliban, su cui voi non agite dopo“, ha detto Zardari. “Voi agite in altri settori. Siamo perplessi“, citava Woodward. Ma i droni sono i principali mezzi con cui dare la caccia ai membri di al-Qaida e agli insorti afghani, non ai taliban in Pakistan, rispose Khalilzad. “Ma il movimento dei taliban è legato ad al-Qaida, aveva risposto Zardari, così, non attaccando gli obiettivi raccomandati dal Pakistan, gli Stati Uniti hanno rivelato il loro sostegno al TTP. La CIA una volta aveva anche lavorato con il leader del gruppo Baitullah Mehsud, aveva affermato Zardari.”
Woodward riferisce: che Khalilzad ascoltò con calma, anche se le domande lo colpirono. Gli Stati Uniti “
stavano usando i taliban per rovesciare il governo pakistano? Ridicolo. Ma Khalilzad sapeva che  anche il presidente dell’Afghanistan Karzai credeva in questa teoria del complotto, altre prove del fatto che questa regione del mondo, e i suoi leader, sono disfunzionali“.
Nonostante le affermazioni di Zardari, i funzionari del governo pakistano avevano ricevuto briefing top secret della CIA sugli attacchi dei droni contro del TTP di Baitullah Mehsud. L’attacco del 12 marzo 2009 contro un campo di Mehsud uccisi più di due dozzine di militanti, che stavano rapidamente recuperando i resti dei loro compagni caduti. E il 1 aprile, altri cinque militanti legati a Mehsud, tra cui un addestratore di al-Qaida, morirono in un attacco drone, secondo un briefing della CIA consegnato al Pakistan ad aprile.
Questo stralcio da Woodward, anche se vecchio, rivela come inizialmente Zardari e i suoi strateghi vedevano e affrontarono gli attacchi suicidi in Pakistan. Tuttavia, non è chiaro se la sua decisa teoria del complotto costrinse gli strateghi statunitensi e la CIA ad iniziare ad attaccare i talebani in Pakistan, e dimostrare che aveva torto.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/


Dal Kashmir una lezione per l’Europa

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Le manifestazioni di protesta scoppiate nella regione del Kashmir, in conseguenza degli appelli a bruciare il Corano pronunciati dal reverendo Terry Jones negli Stati Uniti, e che hanno portato alla morte di una ventina di persone negli scontri con la polizia indiana, mettono in luce la complessità etnica e confessionale che caratterizza la valle del Kashmir, di cui bisogna tener conto per capire la storia di questa popolazione e per trovare una soluzione ai problemi che l’attanagliano.

Nonostante le radici dell’attuale conflitto in Kashmir risalgano al tempo dello smembramento dell’impero britannico, la regione è rimasta relativamente pacifica fino a pochi decenni fa. Il Kashmir, infatti, ha una lunga tradizione di convivenza e tolleranza fra diverse culture e religioni, in cui per secoli, musulmani, indù, cristiani e buddisti hanno vissuto insieme in armonia; i kashmiri stessi ne sono sempre stati orgogliosi ed anche Gandhi li lodò per la loro natura amante della pace, definendo il Kashmir “un raggio di speranza nell’oscurità”.

In questi ultimi anni, però, si assiste anche in Kashmir al tentativo di “islamizzazione” teso ad eliminare le altre minoranze – sikh, indù e cristiane. La prima domanda che viene logico porsi è quale sia stato il motivo, o i motivi, che hanno portato a questo cambio di rotta; questo cambiamento non potrà che arrestare la parabola di emancipazione di questo popolo, già bloccato dalle rivendicazioni pakistane e dalle ingerenze indiane, trasformandone la coscienza sociale e la percezione del conflitto al di fuori dei suoi confini.

Per analizzare questo fenomeno, pur esteso, si può innanzitutto volgere lo sguardo alle lotte per l’autonomia kashmira nei confronti dell’India, che sono progressivamente aumentate in questi ultimi mesi: solo da giugno sono stati uccisi più di 80 dimostranti, tra i quali molti giovani, nella maggior parte dei casi in scontri con i servizi paramilitari indiani. Ad innescare l’escalation di violenze, tre mesi fa, è stata l’uccisione di un 17enne durante una manifestazione di sfondo indipendentista, e da allora le autorità indiane tentano di contenere costantemente e con più vigore le proteste della popolazione. Per la prima volta da molti anni l’India ha deciso di dispiegare nel Jammu e Kashmir migliaia di soldati, dopo aver accusato i militanti di Lashkar-e-Taiba, un gruppo separatista con base in Pakistan, di aver fomentato le proteste.

Il Paese vicino, infatti, viene accusato di sostenere e talvolta canalizzare le rivolte degli autonomisti per sfruttarle a proprio vantaggio e a discapito dell’India.

Bisogna però riportare la dichiarazione del leader separatista Syed Ali Shah Geelani, subito dopo le ultime proteste sfociate nell’incendio della scuola cristiana. Seyed Ali, che al momento si trova agli arresti domiciliari posti dalle autorità indiane, ha incoraggiato ”tutti i musulmani a proteggere i membri delle comunità delle minoranze e i loro luoghi religiosi. Dobbiamo mantenere ad ogni costo la secolare armonia e fratellanza tra comunità per cui il Kashmir è famoso nel mondo”. Anche Ali Ashgar Engineer, musulmano indiano e responsabile del centro Studi sulla società e il secolarismo di Mumbai, conferma le parole di Geelani, affermando che la maggior parte della gente in Kashmir è contro la violenza, si oppone al terrorismo e alla radicalizzazione.

Da ciò, si può dedurre che in effetti lo spirito dei kashmiri non sia effettivamente mutato; probabilmente la loro frustazione viene utilizzata da attori esterni (primi fra tutti il Pakistan stesso, ma anche l’Afghanistan e altri Paesi non necessariamente mediorientali) per raggiungere indirettamente altri obiettivi, noncuranti, ovviamente, delle conseguenze che tali azioni possono provocare nella situazione di questo popolo.

Alcuni studiosi, invece, riconducono gli episodi che si stanno susseguendo in questa regione al fenomeno, ancor più vasto, dello scontro di civiltà, secondo cui vi è una contrapposizione netta tra la civiltà occidentale e quella dell’Islam. Le religioni sono infatti determinanti nel caratterizzare le diverse civiltà, al punto che si parla della religione come “sistema culturale”.

Perciò è importante, sopratutto dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, in cui non pochi hanno riconosciuto la conferma della tesi dello scontro fra civiltà e relative religioni, verificare se e in che misura esse potranno giocare un ruolo per l’attenuarsi dei conflitti in vista della costruzione di un nuovo ordine internazionale.

Si è ormai diffusa la tendenza a fornire una spiegazione principalmente culturale per le difficoltà di convivenza, per le guerre, per il terrorismo, quasi a coprirne le altre ragioni. Sempre più spesso le caratteristiche etnico-religiose diventano categorie politiche manipolate o manipolabili, dalle quali si dipartono conflitti anche molto intensi. Il Kashmir ne è un esempio lampante.

La religione è uno degli aspetti della cultura che più sono chiamati in causa, e l’Islam, sopratutto dopo gli attacchi dell’11 settembre, assume un ruolo esplicativo importante. Essa viene infatti regolarmente accostata, se non addirittura sovrapposta al fondamentalismo e alle sue azioni di terrorismo.

In realtà l’Islam non porta in sè i semi del fondamentalismo. Anzi, quest’ultimo è il frutto di una precisa concatenazione storica di eventi che svolgendosi ha creato le premesse perchè l’Islam venisse fondamentalmente ridotto ad ideologia politica. Identificare l’Islam con il fondamentalismo e l’intolleranza è abbastanza semplicistico ed eccessivo. Anche il fondamentalismo, come altri fenomeni identitari occidentali, è “l’invenzione di una tradizione”, che crea deliberatamente un passato in grado di giustificare specifiche tendenze ideologiche e determinate strategie geopolitiche.

Spesso l’atteggiamento conflittuale, sia individuale sia sociale, manifesta la mancanza del desiderio di approfondire la conoscenza dell’altro che si associa ad una scarsa consapevolezza di se stessi e della propria cultura. La soluzione più semplice è, evitando il problema di fondo, demonizzare l’altro al fine di rassicurare se stessi.

L’individualismo e il materialismo che caratterizzano l’Occidente moderno, perseguendo la libertà individuale e il profitto materiale, hanno tagliato l’identità europea, che vacilla non perché qualcuno ce l’abbia strappata, ma perchè a noi sembrava inutile, dal punto di vista economico, politico ed esistenziale. Siamo noi i nemici della nostra identità, dei nostri valori, non l’Islam.

Puntare il dito contro l’Islam, accusandolo di minacciare le nostre tradizioni e la nostra identità, non ha senso ed è anzi la diretta conseguenza di una mistificazione che nasce dalla condizione di miseria culturale in cui versa l’Occidente.

Europa e Islam sono realtà profondamente disomogenee fra loro, ma proprio per questo potrebbero realizzare un interscambio proficuo; siamo però incapaci di riconoscere la profonda collaborazione avuta fra la civiltà europea e quella musulmana. Studiando il passato con più fedeltà storica, potremmo scoprire che le relazioni tra musulmani e cristiani non si limitavano solo all’ambito dello scontro e delle guerre (che pur ci sono state), ma erano basate sulla reciprocità e sull’interazione, viste giustamente più utili e più funzionali ad un equo sviluppo delle popolazioni.

Questa impostazione è l’antitesi di quanto sostenuto da Bat Ye’ or, la studiosa dell’Islam cui si deve l’elaborazione del concetto di “Eurabia”, definita “un coacervo di società lacerate tra la xenofobia, il desiderio di riscatto, l’autodifesa e la disperazione, nel graduale sfaldarsi dei loro leader politici, disperatamente aggrappati ai cliché che hanno costruito in trent’anni. Eurabia esiste laddove ci sono donne velate e le leggi della sharia sono applicate, quando l’ideologia islamica e antisionista fiorisce, dove le istituzioni democratiche non sono che il ricordo scarnificato del proprio passato”.

Ma se ciò sta avvenendo la responsabilità è solo dell’occidente e di nessun altro; occidente inteso in senso ampio, comprendendo quindi non solo il continente europeo ma anche l’America.

Oltre ad essere storicamente infondata, questa visione è anche causa di pericolose giustificazioni di una serie di conflitti tutti riconducibili al raggiungimento di una forma di globalizzazione che, dietro lo scontro delle culture, nasconde quello degli interessi economici.

Se proprio si vuole parlare di Eurabia (sarebbe meglio “Eurasia”), la si dovrebbe intendere come un’unica entità costituita da molteplici società che spesso si differenziano notevolmente nei vari ambiti della vita sociale, politica e religiosa, ma che nel complesso si elevino ad unico e forte soggetto in grado di perseguire un fine comune che si stacchi dalle perduranti logiche geopolitiche, ormai anacronistiche e controproducenti (per l’Europa stessa, ma evidentemente non per altri), che vengono però ancora portate avanti con forza proprio perchè manca la consapevolezza di essere “Eurasia”.

L’attuale contrapposizione e la visione dei rapporti tra l’occidente e l’Islam come una guerra continua, è una mistificazione intollerabile ormai giunta all’apice; credendo nell’incompatibilità, fatta di luoghi comuni, si maschera e si snatura la ricchezza del pensiero politico islamico, così come la sua possibilità di sviluppare teorie democratiche che non siano il risultato di una semplice importazione occidentale.

L’obiettivo che si dovrebbe cercare di ottenere sarebbe tentare di esplicitare il più possibile questo preconcetto ostile col quale si pensano i rapporti e gli scambi tra Europa e Islam, al fine di abbattere i pregiudizi e smontare i processi storici che li hanno creati, cercando di trasformare lo scontro in un incontro perchè sarebbe solo una misera illusione vincere la nostra debolezza identitaria combattendo la forte identità degli altri.

* Sabrina Cuccureddu è laureanda in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università “La Sapienza” di Roma)

L’Africa delle opportunità: quando l’uranio diventa un investimento

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Africa:  il continente del fascino e del terrore. Descritta dai viaggiatori europei con sentimenti contrastanti, è la terra dove la paura si fa seduzione: tutto è enorme, tutto è sconvolgente, tutto è paradossalmente affascinante.

La parola Africa viene spesso associata all’idea di povertà: le immagini del degrado più estremo, ad oggi, provengono da questa terra sconfinata. La terra che per i Paesi sviluppati è stata, ed è ancora, fonte di un’immensa ricchezza.

Parliamo di oro, parliamo di diamanti, parliamo di petrolio. Gran parte del continente può essere immaginato come un enorme magazzino di risorse naturali.

Negli ultimi anni, alcuni Paesi africani sono stati nuovamente spinti nell’occhio del ciclone, per via delle possibilità offerte dall’espansione del mercato di un’altra risorsa: l’uranio.

Per una serie di ragioni diverse (1), infatti, è iniziata un’espansione del settore elettronucleare a livello mondiale, che ha spinto in alto la domanda di questo minerale.

La spinta nucleare verso l’Africa

Bastano pochi dati per rendersi conto dell’ampiezza del fenomeno. Ad oggi, esistono al mondo 435 reattori; altri 53 sono stati commissionati, mentre è in discussione o in via di approvazione la costruzione di altri 136. La maggior parte dell’uranio prodotto nel mondo va a confluire in sei Paesi, e precisamente: Stati Uniti (30,21% del consumo mondiale), Francia (15,7%), Giappone (12,37%), Russia (6,39%), Sud Corea (5,88%), Cina (4,45%) (2). Riguardo a quest’ultimo Paese, le previsioni parlano di un aumento della produzione elettronucleare di dieci volte i livelli attuali entro il 2030. Uno sviluppo simile dovrebbe avvenire in India, che, nel 2020, avrà bisogno di una fornitura di uranio pari a dieci volte quella attuale.

Numerosi studi mostrano come le imprese produttrici non siano, per il momento, in grado di fronteggiare questa domanda crescente (3).

È facile immaginare quale sia stato il riflesso di questa situazione: da un lato diventa imperativo, per i Paesi fruitori, assicurarsi le forniture dei prossimi anni; dall’altro le imprese estrattive devono ampliare la propria capacità produttiva, soprattutto attraverso accordi commerciali con i governi dei Paesi produttori. Si tratta di una vera e propria “corsa all’uranio”, il cui buon esito impone la ricerca di nuovi siti e di nuove rotte commerciali.

Sulla scia di queste spinte, alcuni Stati africani sono stati oggetto di un imponente flusso di investimenti: le imprese minerarie stanno portando avanti nuove esplorazioni, nuove negoziazioni; stanno rivalutando depositi già scoperti e mai sfruttati; stanno persino convertendo all’estrazione di uranio alcuni impianti nati per scopi differenti. Oltre che ad un incremento della capacità produttiva, questa tendenza potrebbe essere interpretata come una strategia di minimizzazione dei rischi o anche come una ricerca di licenze a prezzi più bassi.

Qualunque sia la causa, tale strategia ha incontrato l’atteggiamento favorevole della gran parte dei governi locali, in alcuni casi interessati anche all’utilizzo interno del minerale a scopi energetici.

Una lista dei Paesi africani interessati è facilmente reperibile a partire dal sito della World Nuclear Association. Si tratta in tutto di diciassette Paesi, in cui le attività in corso vanno dalla semplice esplorazione all’estrazione vera e propria: i tre più promettenti sono Niger, Namibia e Sud Africa (4), cui si aggiungono Algeria, Botswana, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Guinea, Guinea Equatoriale, Malawi, Mali, Mauritania, Marocco, Nigeria, Tanzania, Zambia.

Tutti questi Stati, in un modo o nell’altro, sono stati investiti dall’interesse delle imprese minerarie. Gli investimenti sono provenuti in primo luogo dall’Australia, ed in misura minore dalla Francia, dal Canada, e in qualche caso dalla Cina.

Cerchiamo di capire le dimensioni del fenomeno con l’aiuto di qualche dato.

Tre piccoli giganti Africani

Anzitutto la Namibia: questo stato dell’Africa Meridionale è il quarto produttore mondiale di uranio, con una quota del 10% dell’output mondiale. Ad esempio, è qui che si trova il deposito di Rossing Uranium, il più esteso del mondo. Si tratta di una miniera situata poco lontano da Walvis Bay, importante, oltre che per la sua estensione, per la sua produzione annua, inferiore solo ai depositi di McArthur River in Canada e di Ranger in Australia. Di proprietà della Rio Tinto in compartecipazione con il governo locale (5), dovrebbe essere sfruttabile ancora per dodici anni (6). Si tratta di un deposito esistente dal 1976, le cui risorse accertate superano le 7000 tonnellate di uranio, mentre le risorse stimate superano le 50000 tonnellate. Recentemente ampliato, questo impianto minierario è stato affiancato da quello di Langer Heinrich, della Langer Heinrich Uranium, società facente parte del gruppo australiano Paladin Energy. Le dimensioni del giacimento si aggirano sulle 45000 tonnellate.

Secondo le previsioni, la produzione namibiana dovrebbe quadruplicare nei prossimi cinque anni con l’apertura di nuovi siti, di cui due dovrebbero essere pronti già dal 2011 (7). In effetti, si tratta di un Paese al centro di una lunga serie di progetti, il più importante dei quali è noto come piano Husab. Questo disegno riguarda un’area di 637 kmq, oggetto di esplorazioni a più livelli, in cui sono presenti più depositi. Il più importante di questi è il cosiddetto Rossing South, che si trova, appunto, poco a sud di Rossing, e sembra essere addirittura più promettente di quest’ultimo. L’esplorazione è portata avanti dalla Extract Resources, mentre la Rio Tinto ne detiene una quota minoritaria. Un altro piano che interessa la Namibia è il progetto Etango, della Bannerman Energy. Tutte e tre queste imprese sono australiane; il più grande investimento estero della storia di questo Paese, tuttavia, è stato effettuato nel 2008 da Areva, per la miniera di Trekkopje, vicino Swakopmund (8).

La società francese, però, è attiva soprattutto in Niger: è qua che è stata recentemente inaugurata la costruzione di una nuova, imponente miniera, nella località di Imouraren. L’impianto sarà per un terzo di proprietà del governo; nei progetti di Areva, l’estrazione dovrebbe iniziare nel 2012, raddoppiando la produzione nigerina e facendo del Paese saheliano il secondo produttore mondiale. Si tratta del quarto sito di proprietà della Areva: gli altri tre si trovano nei pressi di Arlit, capoluogo della regione di Agadez, nei pressi della stessa Imouraren.

Una regione calda non solo perché ai confini con il Sahara: anche la Cina ha vi ha intravisto una possibilità di azione. La Somina (Société des Mines d’Azelik), come lo stesso nome suggerisce, è nata per l’estrazione nella località di Azelik, ed è di proprietà della China Nuclear International Uranium Corporation per il 37%, del governo di Niamey per il 33%, della cinese ZXJOY per il 25%, della Korea Resources Corporation per il 5% (9).

Al contrario di quanto accade in Niger e Namibia, l’estrazione di uranio in Sud Africa è rimasta per lungo tempo un’attività collaterale all’estrazione di oro. Attualmente, sono in cantiere vari progetti per sfruttare l’uranio come sottoprodotto di quest’attività. La canadese First Uranium Corporation, ad esempio, lavora su entrambi i fronti: i luoghi di maggiore attività sono la miniera sotterranea di Ezulwini, sia uranifera che aurifera, e l’impianto Mine Waste Solutions in cui vengono trattati gli scarti per ricavarne uranio e oro a basso costo.

Il primo tentativo di costruire una vera e propria miniera di uranio è stato il progetto Dominion Reefs, portato avanti dalla canadese Uranium One e presto fallito (10). Il Sud Africa è attivo anche nella produzione di energia nucleare, con due reattori attivi sul territorio nazionale.

Un continente in fermento

Sebbene Namibia, Niger e Sud Africa rappresentino il luogo di estrazione della maggior parte dell’uranio africano, queste dinamiche svolgono un ruolo importante in tutto il continente, soprattutto in Africa Centrale.

Nel Botswana, ad esempio, è attiva l’australiana ACAP Resources, nel territorio di Letlhakane, in cui sono presenti tre giacimenti: Gorgon, Mokobaesi e Kraken (per un totale di circa 38,000 tonnellate di uranio). All’interno del Paese è attiva un’altra impresa australiana, la Impact Minerals.

Nella Repubblica Centrafricana, Areva ha rilevato la UraMin per sfruttare il giacimento di Bakouma, che dovrebbe contenere circa 38000 tonnellate di uranio. L’impianto è attualmente in fase di sperimentazione, e secondo l’impresa francese l’apertura dovrà attendere ancora quattro o cinque anni. Con l’accordo stipulato nel 2008, Areva ha accettato di cedere il 10% degli utili al governo, che ha ottenuto anche la stesura di un programma di aiuti finanziari.

La Repubblica Democratica del Congo ha alle spalle una storia di intenso sfruttamento, iniziato negli anni Quaranta, e tristemente legato allo sviluppo dei primi ordigni nucleari. Il sito più attivo è stato, fino all’indipendenza, la miniera di Shinkolobwe, nel Katanga. Nel 2009, il governo ha assegnato la licenza esplorativa della regione ad Areva.

Altri Stati stanno cercando di inserirsi nel mercato: il governo della Guinea Equatoriale, ad esempio, ha iniziato degli studi e introdotto un nuovo codice di regolamentazione del settore. In Gabon, pur non esistendo al momento miniere attive, sono attive delle campagne esplorative. L’attività estrattiva gabonese, nel passato, è rimasta legata al Commissariat à l’énergie atomique (CEA)  e, soprattutto, alla Cogema (oggi Areva). I depositi più attivi, oggi in gran parte chiusi, si trovavano nei pressi della città di Mounana.

Per nulla secondarie le attività in Africa Orientale, in particolare nello Zambia, dove, dal 2008, il governo locale ha iniziato la cessione delle licenze, aggiornando la legislazione del settore in consultazione con la IAEA. Da citare il progetto Mutanga, sviluppato dalla OmegaCorp e acquisito nel 2007 dalla  canadese Denison Mines: è senz’altro uno dei più imponenti, e dovrebbe giungere a compimento entro un paio di anni. Inoltre, mentre l’australiana Equinox Minerals sta mettendo a punto un impianto di estrazione di uranio dalla miniera di rame di Lumwana, una joint venture costituita dalla African Energy Resources e dalla Albidon (anch’esse australiane) sta eseguendo degli studi di fattibilità per i depositi di Njame e Gwabe (progetto Chirundu).

Anche la Tanzania è in fermento: dopo aver scoperto un deposito di circa 5000 tonnellate a Manyoni, l’australiana Uranex ha ottenuto l’approvazione di un progetto minerario a Bahi e ne ha steso un terzo per la zona di Mkuju e Songea. Svariati progetti sono inoltre portati avanti dalla Mantra Resources, anch’essa australiana. Il governo ha annunciato, per il 2010, una revisione della regolamentazione del settore, dimostrandosi inoltre interessato agli impieghi energetici dell’uranio.

In questa regione del continente occorre menzionare anche il Malawi. Nel nord di questo Stato, infatti, il deposito di Kayelekera, scoperto nel 1980 dalla Central Electricity Generating Board of Great Britain (CEGB), è stato gradualmente acquisito dalla Paladin Energy.

Dei tentativi sono portati avanti anche in Africa occidentale; nella Guinea, ad esempio, l’esplorazione è portata avanti dalle australiane Forte Energy (ex Murchison United) e Toro Energy, con risultati incoraggianti intorno a Firawa, nella prefettura di Kissidogou. La Forte Energy è attiva anche in Mauritania, proprietaria del deposito Bir En Nar.

Più di 8000 tonnellate di uranio (11) dovrebbero trovarsi anche in Mali, in cui si trova il deposito di Falea.

La Nigeria ha iniziato nel 2009 un rapporto di cooperazione con la Russia. Inizialmente limitata all’esplorazione e all’estrazione, la collaborazione dei due Stati si è successivamente estesa alla progettazione di un reattore.

Per completare il quadro, occorre citare due Stati del Nordafrica: Algeria e Marocco.

In Algeria esiste un unico deposito, Tahggart, risalente agli anni Settanta. Il governo, che stima la presenza di almeno 26.000 tonnellate di uranio, ha iniziato nel 2009 la cessione delle licenze di esplorazione.

Anche in Marocco, il governo sta cercando di valorizzare gli sforzi effettuati prima del 1982, esplorando le aree di Haute Moulouya, Wafagga e Sirwa. Allo stesso tempo, Areva sta portando avanti delle sperimentazioni sulle potenzialità uranifere dei fosfati, in accordo con l’ufficio governativo competente (Office Cherifien des Phosphates, OCP) (12).

Un sentiero di cambiamento, una lista di opportunità. Ma la storia insegna che non sempre le opportunità sono sufficienti. Occorre che ci sia una classe dirigente in grado di coglierle. Occorrono istituzioni funzionanti e infrastrutture. Occorrono interventi correttivi dei possibili effetti perversi di queste innovazioni.

Corruzione, spinta al ribasso dei salari, smembramento delle strutture sociali, mancanza di controlli sulla sicurezza, inquinamento, conflitti etnici: problemi quanto mai interconnessi, in questa enorme parte di mondo.

Una sola immensa terra, il giardino dell’Eden dove tutto ebbe inizio. Un immenso paradosso, senza fine e senza tempo, dove solo la bellezza sembra destinata a svanire.

*Federica Nalli è dottoressa in Scienze Politiche (Università degli studi di Firenze)

Note:

  1. Vedi anche articolo su Eurasia, “Uranio: il minerale della discordia” di Federica Nalli (http://www.eurasia-rivista.org/6341/uranio-il-minerale-della-discordia )

(2) Elaborazione personale da dati World Nuclear Association

(3) Vedi anche articolo su Eurasia, “Uranio: il minerale della discordia” di Federica Nalli

(4) Vedi anche articolo su Eurasia, “Uranio: il minerale della discordia” di Federica Nalli

(5) La quota detenuta dal governo è del 3% mentre il 10% appartiene alla Industrial Development Corporation of South Africa (IDC), una società del governo Sudafricano.

(6) A. Ruffini, Uranium plays in Africa, Engineering & Mining Journal, Vol. 210, n 10, Dicembre 2009, Pagg. 76-78

(7) African Business, Feb2010

( 8 ) A. Ruffini, Uranium plays in Africa, Engineering & Mining Journal, Vol. 210, n 10, Dicembre 2009, Pagg. 76-78

(9) A. Ruffini, Uranium plays in Africa, Engineering & Mining Journal, Vol. 210, n 10, Dicembre 2009, Pagg. 76-78

(10) A. Ruffini, Uranium plays in Africa, Engineering & Mining Journal, Vol. 210, n 10, Dicembre 2009, Pagg. 76-78

(11) Etichettate come Inferred Resources, sottocategoria delle Risorse Identificate (IDR)

(12) Gran parte di queste informazioni è reperibile su www.world-nuclear.org

La Russia del 2010 – prospettive economiche e politiche (parte 2)

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(Parte Seconda)

L’economia russa dopo la crisi

Nel 2009 la crisi economica ha prodotto un forte impatto in Russia. Rosstat1 ha, tuttavia, recentemente rivisto al ribasso (7,9%) il valore ufficiale di caduta del PIL nel corso del 2009, inizialmente stimato all’8,5% dal governo. Tra i BRIC, la Russia è il Paese che si sta riprendendo a ritmo più lento, ed è stato uno dei Paesi che ha sofferto di più durante questa recessione globale.

Tasso di crescita del PIL

Variazione % annua

2005 2006 2007 2008 2009
Brasile 3.1 3.9 5.6 5.0 -0.3
Russia 6.4 7.7 8.1 5.6 -7.9
India 9.3 9.6 9.0 6.0 6.5
Cina 10.4 11.6 13 9 8.6
Fonte: The World Bank

La crisi economica mondiale aveva iniziato ad interessare l’economia russa già nel 2008, quando la crescita del PIL si era fermata al 5,6% un valore inferiore rispetto alle percentuali di crescita degli anni precedenti. Come ampiamente riconosciuto anche dai funzionari del governo – in primis dal presidente Medvedev – il sistema economico è fortemente dipendente dalle esportazioni di materie prime, per la maggior parte costituite da petrolio e da gas. I due grafici mostrano che sia la popolarità dei politici russi che i valori della Borsa di Mosca2 sono fortemente legati all’oscillazione dei prezzi del petrolio: il tasso di approvazione del governo e le azioni quotate sul mercato di Mosca sono direttamente dipendenti dal prezzo del barile di petrolio quotato sul mercato internazionale.

Prezzo del barile di petrolio e grado di approvazione dell’operato del governo

Fonte: The Financial Times

Prezzi delle materie prime e il mercato azionario russo (indice RTS)

Dati del FMI e del Servizio Federale di Statistica Russo

L’ultima relazione della Banca d’Italia sul Paese3 precisa che – a prescindere dalla forte dipendenza dalle materie prime – il sistema economico russo ha altri punti deboli che vale la pena considerare: la fragilità del sistema finanziario, la corruzione diffusa, il ruolo invadente degli oligarchi nella vita economica e pubblica, la forte disuguaglianza di reddito persistente sia tra, che all’interno, delle aree regionali, i livelli di indebitamento eccessivo delle imprese private e pubbliche. Eppure non ci sono dubbi sul fatto che l’economia russa ha iniziato a recuperare non appena la domanda di petrolio e i relativi prezzi sono tornati a salire di nuovo. La caduta del PIL russo nel 2009 è stata tamponata nel terzo e quarto trimestre dell’anno in gran parte grazie agli introiti delle materie prime, insieme con le misure fiscali anti-crisi4 adottate dal governo a partire dalla fine del 2008. Anche la Banca centrale ha svolto il suo ruolo grazie al costante abbassamento dei tassi di interesse, il cui valore è sceso a poco a poco dal 13% al 8% in un anno.

Analogamente al prodotto interno lordo, il saldo di bilancio pubblico si è assestato su valori piuttosto negativi all’inizio dell’anno ed è via via migliorato con l’aumento dei proventi delle esportazioni negli ultimi mesi. Il governo ha preso 76 miliardi di dollari dal fondo di riserva (che alla fine dell’anno si è ridotto a $ 60 miliardi), limitando così il disavanzo pubblico annuale di meno di 6 punti percentuali del PIL. Senza questa operazione finanziaria tale cifra avrebbe raggiunto -6,4 punti percentuali del PIL. Rispetto all’anno precedente, le entrate di bilancio totale sono diminuite del 20,9%, mentre le spese totali sono aumentate di oltre un quarto (27,5%): queste cifre sono state precedentemente sottostimate, insieme con i proventi del petrolio e del gas (45% superiori a quanto previsto in una prima fase). Come previsto dalla teoria macroeconomica, anche il comportamento dell’inflazione è stato direttamente proporzionale a quello del PIL. L’effetto è stato in qualche modo ritardato (i prezzi erano ancora in aumento nei primi mesi del 2009) per effetto di aggiustamenti strutturali e di una revisione automatica al rialzo dei prezzi di alcuni servizi pubblici5. Tuttavia, alla fine dell’anno, l’Indice dei Prezzi al Consumo ha registrato un aumento ‘solo’ dell’8,8 per cento, il dato più basso degli ultimi vent’anni.

Le manovre pubbliche non hanno comunque potuto evitare che la produzione industriale calasse del 10,8% nel 2009, rispetto all’anno precedente. In particolare, le cadute più significative sono state osservate nel settore manifatturiero, nonché nei trasporti e nella produzione di macchinari. Anche il settore delle costruzioni ha subito un brusco calo, dovuto in gran parte alla quasi inesistente domanda industriale, mentre il settore estrattivo e le industrie alimentari riescono a mantenere la produzione del 2009 quasi ai livelli dell’anno precedente.

Seguendo l’umore dei mercati internazionali, gli investimenti sono diminuiti del 17%, molto più delle vendite al dettaglio (-5%), anche se queste ultime avevano registrato tassi di crescita di circa il 12% negli anni precedenti. Alle radici del declino dei consumi privati c’è anche una diminuzione dei salari reali (-2,8%) e un tasso di disoccupazione più elevato; quest’ultimo dato è leggermente migliorato, alla fine dell’anno (8,2%), anche se molte aziende hanno annunciato ulteriori licenziamenti nel corso del 2010. Analogamente al resto del mondo, il commercio estero russo è stato fortemente colpito dalla crisi: in termini nominali, le importazioni sono diminuite del 37,5% e le esportazioni del 35%, con quest’ultime che recuperano più rapidamente alla fine dell’anno grazie alla maggiore domanda di merci e materie prime, specialmente dalle economie emergenti (ad esempio la Cina). Alla fine dell’anno il surplus commerciale è stato di 135 miliardi di dollari, così basso rispetto ai periodi precedenti anche a causa di un peggioramento della bilancia commerciale nei settori non petroliferi. Anche il deflusso di capitali è rallentato: il conto capitale è migliorato, registrando un disavanzo di $ 45,2 miliardi nel 2009, un valore inferiore – in termini assoluti – dei $ 135 miliardi del 2008. La Banca Mondiale ha osservato che sebbene molti investitori internazionali siano fuggiti dai mercati a rischio durante la crisi, questi non hanno completamente abbandonato la Russia, come fanno notare i flussi lordi di IDE (investimenti diretti esteri) che, nel 2009, sono rimasti a 15,9 miliardi di dollari, una cifra che, in ogni caso, è la metà del valore del 2008.

Sviluppi nel 2010

Molte organizzazioni internazionali e centri di ricerca hanno recentemente rivisto al rialzo le loro stime sulle prospettive economiche attuali, dal momento che, una ripresa più forte del previsto, a livello mondiale, insieme con l’impatto ritardato del pacchetto di stimolo del governo, l’aumento del prezzo delle materie prime e i tassi di interesse più bassi saranno la garanzia, per la Russia, di un solido ritorno alla crescita. Tuttavia non c’è accordo circa la dimensione della crescita del PIL che si avrà nel 2010 in Russia: la Banca Mondiale ha previsto che il PIL cresca fino al 5,5%, il Fondo Monetario Internazionale stima una crescita del 4%, il Ministero dell’Economia russo del 4%, l’Economist del 4,5% e la Commissione europea del 3,7%. La Banca di Finlandia6 osserva che vi è una diffusa incertezza circa l’evoluzione delle tendenze di alcuni fattori internazionali e nazionali: da un lato, ci sono diverse ipotesi circa il recupero dei partner commerciali russi, così come per il prezzo del petrolio7, dall’altro lato le tendenze della domanda interna, l’offerta di credito e l’andamento dell’inflazione sono ancora poco chiari. Mentre gli esperti non mettono in dubbio che la domanda interna si riprenderà a un certo punto – si prevede di avere un aumento del 4,6%, in media – sono ancora incerti sul quando questo avverrà. Un ruolo importante in questo senso sarà svolto dalla risoluzione di alcune questioni interne, vale a dire l’attuazione delle attese riforme – come le leggi a sostegno delle PMI e per l’innovazione (si veda sotto) – l’impatto e la durata del pacchetto di stimolo del governo e la disponibilità di offerta di credito sia per i consumatori che per le imprese private.

Un’ulteriore riduzione dei tassi di interesse – che dovrebbe stimolare investimenti e consumi – avrà luogo difficilmente: anche il ministro dell’Economia, Alexei Kudrin, ha chiesto un cambiamento nella politica monetaria, al fine di evitare che l’impatto ritardato dello stimolo fiscale provochi una nuova ondata inflazionistica. In realtà il tasso di inflazione difficilmente potrà diminuire, soprattutto nella seconda parte dell’anno, a causa del rincaro del petrolio, del recupero potenziale della domanda interna, e dell’afflusso di capitali che riprende grazie alla rinnovata disponibilità degli investitori verso i mercati emergenti e le più recenti emissioni di Eurobond. In realtà i segnali offerti dall’economia reale sono ancora ambigui, così come incerta è la forza della ripresa dei consumi privati a causa della limitata disponibilità di credito al consumo e dell’alta disoccupazione. In ogni caso nella seconda metà del 2010 i consumi privati sono decollati grazie al calo dell’inflazione, al recente aumento delle pensioni e ad un modesta crescita dei salari reali.

Gli ultimi dati forniscono ulteriori motivi di ottimismo: l’Istituto di statistica della Federazione Russa (Rosstat), ha rivisto al rialzo le stime di crescita economica per l’anno in corso. Secondo i nuovi dati a disposizione degli analisti, nel primo trimestre del 2010, l’economia russa è cresciuta del 3,1%, mentre nel secondo trimestre la crescita è stata pari al 5,2%. Nel primo semestre del 2010 il PIL russo (a prezzi correnti) è stato pari a 20.732 miliardi di rubli, con una crescita del 4,2% su base annua. Il tasso di disoccupazione si mantiene alto, pari all’8,6%8, ma questa cifra non è una sorpresa per gli esperti della Banca Mondiale, che avevano già definito il recupero russo come “senza lavoro”. In realtà nelle loro ultime prospettive economiche, gli esperti sono stati positivamente sorpresi dai dati dello scorso anno sulla disoccupazione (8,2%), che si è tenuta sotto il livello previsto del 10%: l’aumento della disoccupazione è stato moderato con la riserva di forza lavoro, impieghi part-time e “vacanze involontarie”. Il problema è che i dati più recenti sulla tenuta strutturale indicano uno spostamento verso la disoccupazione “di lunga durata”. Ci sono poche offerte di lavoro presenti sul mercato e il calo dell’inflazione limita anche la possibilità di un intervento pubblico. Il tasso di disoccupazione strutturale9 in Russia sembra essere aumentato.

Dinamica e struttura della disoccupazione: i tassi della popolazione rurale, urbana e totale

Fonte: Banca Mondiale e Rosstat

Le previsioni ufficiali per il bilancio di Stato del 2010 sono pari a -6,8%, ma le ipotesi sui prezzi del petrolio e la crescita sono decisamente troppo pessimistiche10: questo eccesso di prudenza sulle previsioni di bilancio può costituire un limite per i politici disposti a ridurre la spesa pubblica. Ora che la crisi è passata e il fondo di riserva è inferiore rispetto agli anni precedenti, il Cremlino sembra impegnarsi di nuovo con la disciplina fiscale: secondo l’Economist Intelligence Unit il disavanzo pubblico dovrebbe essere ridotto al 4% nel 2010 e si prevede sia del 2,4% del PIL nel 2011. Nonostante gli aumenti una tantum della spesa sociale e delle pensioni – che nei primi due mesi dell’anno hanno creato un deficit di bilancio di tre punti percentuali del PIL – la spesa pubblica è in fase di ridimensionamento.

Si deve sottolineare che la progressiva riduzione dei tassi d’interesse11 è stata voluta non solo per stimolare la crescita e ridurre l’apprezzamento del rublo, ma anche per incoraggiare gli operatori finanziari a fornire più (e meno costoso) credito ai clienti privati e alle imprese. Questa iniezione di liquidità nel sistema è riuscita a tagliare i tassi di interesse interbancari, ma non ha ancora prodotto gli effetti desiderati nel settore non finanziario. Un problema di disponibilità del credito continua a ostacolare il recupero dei consumi privati e degli investimenti aziendali. Il tasso creditore medio è ancora al 12,7%, i tassi di interesse sui nuovi prestiti sono ufficialmente stimati al 14%, mentre l’Istituto dell’Economia in Transizione stima un minimo del 15,5%. La Banca centrale russa ha recentemente ipotizzato che questo potrebbe essere dovuto all’alta percentuale di prestiti in sofferenza nei portafogli dei prestiti delle banche. L’accesso limitato al credito bancario potrebbe essere parzialmente compensato dal reinvestimento dei profitti ora che le vendite stanno migliorando.

Sfide per il futuro che attendono la Russia

La recente crisi economica ha tolto tutti i dubbi al mondo e agli stessi russi su quanto sia ancora fragile la loro economia basata sul petrolio e sul gas: nonostante la forte e inaspettatamente rapida ripresa guidata dal rialzo dei prezzi del petrolio, le parole “modernizzazione e innovazione” ora dominano l’agenda politica, le colonne dei giornali e i dibattiti pubblici. Studiare l’evoluzione dello scenario – dal punto di vista normativo e comparativo – potrebbe essere di massimo interesse ed importanza per la comunità imprenditoriale straniera, al fine di essere consapevoli delle sfide, opportunità e minacce da affrontare nel prossimo futuro.

Il Presidente russo Dmitrij Medvedev non perde mai occasione di affermare e dimostrare il suo impegno per le riforme, che egli ha pienamente espresso nel suo manifesto politico, il noto discorso “Russia, avanti!” del 10 settembre 200912. In questa occasione egli ha sottolineato l’urgente necessità per la Russia di prendere le distanze dalla sua dipendenza dalle esportazioni energetiche, incentrata sulle risorse del petrolio e del gas. L’unico modo per la Federazione Russa di riconquistare il potere perduto sulla scena internazionale con il tragico crollo dell’Urss e di presentarsi perfettamente alla pari con Europa e Stati Uniti è quello di affrontare le tre piaghe principali della Russia di oggi: il ritardo tecnologico ed economico, la corruzione, la scarsa cultura imprenditoriale. Oltre a questi, Medevedev ha sottolineato altri problemi che minacciano lo sviluppo economico e sociale: l’alcolismo, la bassa crescita demografica, le cattive condizioni delle infrastrutture di trasporto, la burocrazia che lavora lentamente e male, il basso livello di auto-organizzazione della popolazione. È un dato di fatto, Medvedev ha imposto la “modernizzazione” come parola chiave del suo mandato presidenziale.

Le priorità di Medvedev differiscono leggermente dalla strategia del suo predecessore, che era più propenso a trasformare la Russia in una superpotenza energetica e a consolidare il controllo statale sull’economia13, piuttosto che lasciar fiorire una comunità attiva di Piccole e Medie Imprese (PMI) innovative. Molti giornalisti occidentali – dal The Economist al Newsweek – sostengono che il ritmo e il successo dei programmi di modernizzazione dipendono dal peso relativo del Cremlino e della Casa Bianca russa in questa tandemocrazia.

Ma anche il primo ministro Vladimir Putin sostiene la modernizzazione abbastanza attivamente: non solo ha preso in carico la commissione governativa per la tecnologia e l’innovazione (anche riducendone le dimensioni al fine di migliorarne l’efficacia)14; ma anche sollecitando frequentemente gli oligarchi a reinvestire i loro profitti in nuovi macchinari e moderni impianti industriali. Inoltre, egli ha anche dichiarato che l’ingerenza dello stato nell’economia si ridurrà, lasciando spazio a nuove privatizzazioni15.

Nel frattempo, la necessità di riforme è reale e urgente: l’ultimo rapporto UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) sul settore energetico cita alcuni calcoli di British Petroleum secondo i quali, agli attuali tassi di estrazione, il petrolio ed il gas russi si esauriranno, rispettivamente, in 21,9 anni e 9,4 anni. Molto probabilmente queste cifre sono esageratamente catastrofiche e si basano su assunti non pienamente dimostrati (il cosiddetto “Picco del petrolio”), tuttavia è fuori di dubbio che le riserve del sottosuolo russo non sono eterne. Come già accennato in precedenza, anche se i ricavi delle esportazioni sono il 60% in più rispetto allo scorso anno, il ricavo reale è rimasto invariato (a causa del crollo del prezzo), le riserve non sono aumentate e gli investimenti sono stagnanti, la Banca mondiale ha già descritto l’attuale ripresa russa come “senza lavoro”16. Ora che il Fondo di Stabilizzazione è stato quasi esaurito per tamponare la crisi, e all’economia mancano ancora i necessari rinnovi strutturali ed infrastrutturali, non ci si dovrebbe sorprendere del fatto che il ministro per lo Sviluppo Economico ed il Commercio Elvira Nabiullina guardi al denaro e alla tecnologia degli investitori stranieri come ‘fondamentali’ non solo per ristrutturare e rilanciare l’economia, ma anche per cambiare e migliorare l’intera nazione.

Ciò che è stato fatto e ciò che deve essere fatto

Sempre il ministro Elvira Nabiullina ha espresso la sua preoccupazione per il calo degli investimenti nel 2009, un significativo -17%17. In particolare, gli investimenti stranieri sono calati del 41%. Il ministro riferisce che gli investimenti russi corrispondono al 20% del PIL nazionale, una percentuale di 10 punti inferiore alla media dei Paesi in via di sviluppo. Come queste cifre suggeriscono, purtroppo, l’ambiente degli investimenti russo non è così favorevole all’innovazione e al trasferimento di tecnologie e competenze estere. Il World Economic Forum, nel suo Rapporto sulla Competitività del 2010, posiziona la Russia 63esima su un totale di 133 Paesi. È l’unica economia del BRIC a vedere un calo nelle prestazioni nel settore investimenti. Inoltre, i dati del FMI dimostrano che la ricerca è scarsamente finanziata e incentivata, frequenti sono le lamentele sul non rispetto dei diritti di proprietà intellettuale; l’OCSE assegna alla Russia il punteggio più basso tra i Paesi del BRIC (51e su 133 paesi) in materia di innovazione e ricerca; Transparency International – insieme a varie ONG internazionali e anche politici di primo piano – avverte che la corruzione in Russia è ancora diffusa, anche se i funzionari del governo si stanno impegnando attivamente a migliorare la situazione.

Come si può notare dalla tabella qui sotto, che mette a confronto i quattro Paesi del BRIC, la Russia possiede un alto numero di ricercatori in rapporto alla popolazione ma questi non sono ancora sufficientemente supportati e incentivati dallo Stato. La spesa in ricerca e sviluppo in rapporto al PIL, invece, è superiore a quella di Brasile e India, ma inferiore a quella cinese. Per quanto riguarda la pubblicazione di articoli scientifici e le esportazioni di alta tecnologia, tra i quattro colossi emergenti, la Russia si ferma alla penultima posizione, evidenziando come deve fare ancora molto se intende porsi alla guida del BRIC.



Indicatori dello sviluppo tecnologico e della capacità di innovazione

Russia

Cina

India

Brasile

Ricercatori (per milione di abitanti)

3255

926

111

461

Spesa R&S (% del PIL)

1.1

1.42

0.7

0.82

Domande di brevetto internazionale (% del totale Mondo)

0.4

3.7

0.4

0.3

Esportazioni High-tech (% delle esportazioni di manufatti)

6.9

29.7

5.3

12.4

Articoli scientifici pubblicati (numero)

27605

112318

38366

30021

Università nella top 500 mondiale (numero)

4

11

7

5

Fonti: EIU, Hanson (2009), Unesco, Thomson Reuters, Financial Times (l’ultima annata disponibile)

Punteggio per innovazione e modernizzazione nel 2009

(Fonte: OECD18)

Tuttavia i decisori politici del Cremlino si sono recentemente impegnati a costruire un’economia aperta, basata sull’alta tecnologia e le conoscenze che dovrebbe far scattare il processo di modernizzazione anche all’interno delle istituzioni russe e nella società. La Duma sta progressivamente approvando una serie di riforme legislative volte a stimolare la modernizzazione, come ad esempio:

  • più semplici procedure di visto ed eliminazione delle quote per i lavoratori altamente qualificati;
  • dal 2009 un elenco di apparecchiature tecniche, senza equivalenti prodotti in Russia è stato esentato dall’IVA sulle importazioni (al fine di aumentare l’importazione di prodotti tecnologicamente avanzati);
  • Il progetto di fare della CSI una zona di libero scambio, al fine di sfruttare al massimo il potenziale delle risorse di questi Paesi e di facilitare gli scambi commerciali. Il 6 luglio 2010, a seguito della ratifica bielorussa, è intanto entrata in vigore l’Unione doganale fra Russia, Kazakistan e Bielorussia. Nei progetti dei tre Paesi, questo è il primo passo verso la creazione dello spazio economico unico, previsto per il 1º gennaio 2012: tale processo d’integrazione economica dovrebbe essere il nucleo della futura Unione Eurasiatica che dovrà comprendere tutti gli stati della CSI, con importanti ripercussioni dal punto di vista economico, istituzionale, politico e strategico;
  • Medvedev ha ordinato di costruire un polo di innovazione in Skolkovo (si veda sotto l’approfondimento).

Queste iniziative senza dubbio rappresentano i primi passi nella giusta direzione, ma prima che il mercato si sia completamente sviluppato, e si sia fatta la “Silicon Valley russa” entro i prossimi 3 o 4 anni, alcuni dei problemi strutturali più critici devono essere ancora risolti.

Ad esempio, vi è una seria mancanza di tecnici e capitale umano tecnologicamente specializzato: al contrario si osserva un eccesso di giuristi, direttori di marketing e finanziari, mentre l’attuale limitato numero di tecnici, ingegneri e geologi lascia la domanda delle imprese locali insoddisfatta. Secondo gli esperti, un altro difetto strutturale del mercato è che l’istruzione degli studenti è principalmente teorica e che a malapena hanno competenze pratiche. Le stesse persone suggeriscono che il governo russo dovrebbe istituire un sistema per fornire istruzione gratuita nelle università e un programma post-laurea di stage e tirocini nelle industrie russe al fine di acquisire competenze pratiche. Anche le aziende dovrebbero investire nella formazione dei propri dipendenti, seguendo gli esempi delle cosiddette “università aziendali” di grandi imprese di successo come Michelin19. Inutile dire, questa situazione contrasta fortemente con i mercati del lavoro indiano e cinese, dove un sempre più alto numero di ingegneri è annualmente formato e addestrato per soddisfare la crescente domanda interna.

Rispetto a questi due paesi, la Russia sembra restare indietro anche in termini di alcune strutture competitive: gli oligopoli controllati dal Cremlino nei settori strategici spesso premiano le imprese che dispongono di connessioni politiche più grandi e forti, piuttosto che quelle con i costi più competitivi o le tecnologie più all’avanguardia. Quindi la costruzione di poli di innovazione dovrebbe essere accompagnata da incentivi più forti per espandere il mercato della ricerca aziendale in loco. In una prospettiva di fondo, la spesa russa in R&S è ancora troppo bassa (1% del PIL) e anche troppo dipendente dai finanziamenti pubblici20. Piuttosto che essere dettata dalle esigenze dei consumi e dalle tendenze del mercato, l’agenda dei ricercatori russi riflettere più spesso le priorità strategiche del Cremlino, vale a dire, la difesa, la biotecnologia e l’energia nucleare, questo, secondo alcuni esperti, potrebbe portare ad un ritardo nello sviluppo degli altri settori.

Una modernizzazione parziale ma effettiva

Lo scopo principale dei dirigenti russi in questo momento è garantire la stabilità nella crescita, ossia evitando un altro trauma come quello avvenuto negli anni ’90: le riforme e le liberalizzazioni devono essere dosate in modo da non innescare disordini sociali, che potrebbero alla fine – e paradossalmente – ostacolare la modernizzazione. Infatti, Vladislav Surkov21 ha detto che in Russia solo un governo forte e solido può essere lo strumento per attuare la modernizzazione. E anche Chubais22 ha affermato che la democrazia è un sistema auspicabile ma non essenziale. Come le recenti esperienze di Singapore, Corea del Sud e Cina dimostrano, anche i regimi autocratici sono in grado di portare ad una economia fiorente. Secondo un editoriale dell’Economist (13/02), ciò che è essenziale per la crescita è la presenza della certezza del diritto di proprietà, lo Stato di diritto, la concorrenza e una forte lotta alla corruzione.

Alcuni estremisti liberali affermano che la Russia ha bisogno di riforme globali e immediate, seguendo l’esempio di alcuni paesi dell’Asia orientale. Secondo questi critici non si può ignorare il fatto che il petrolio e il gas siano ancora un “doping per l’economia” e accusano alcuni settori della società – dai burocrati alle imprese monopolistiche dell’energia – di beneficiare delle inefficienze del sistema. I facili proventi delle esportazioni ostacolano, semper secondo i suddetti, la formazione di un diffuso consenso trasversale per una modernizzazione simile a quella compiuta dal Giappone cinquant’anni fa che produsse il boom economico degli anni ’60-’70.

Sebbene disposti a riformare il Paese, Putin e Medvedev sanno bene che per attuare un programma di ammodernamento senza intoppi, i potenziali nemici interni devono essere compensati e/o coinvolti nella transizione. Pertanto i sostenitori della modernizzazione russa dovrebbe sentirsi incoraggiati dal fatto che molti oligarchi e personalità chiave dell’economia russa sono stati coinvolti in progetti innovativi: Chemezov23 ha assunto l’incarico di costruire una nuova rete di telecomunicazioni a banda larga e Viktor Vekselberg è stato nominato supervisore del progetto di Skolkovo. Inoltre, in chiave strategica la Russia deve stare al passo delle altre potenze mondiali in termini di energia, difesa, ITC ed infrastrutture: pertanto è costretta ad investire in tecnologie moderne, spesso dovendo scegliere il miglior partner straniero con la tecnologia più all’avanguardia per la costituzione di mutualmente vantaggiose Joint Ventures. Quindi potrebbe essere meno completo e meno rapido di quello proclamato dai politici e invocato dai liberali, ma nessuno può negare che un processo di modernizzazione è ampiamente percepito come necessario, inevitabile e attualmente in vigore in Russia.

Skolkovo: una Silicon Valley russa?

Il progetto per la costituzione di un gruppo di lavoro per creare la cosiddetta Silicon Valley russa è stato firmato dal presidente Medvedev il 31 dicembre del 200924. Durante un’intervista a Vedomosti (“Il miracolo è possibile”, 15/02/2010) Vladimir Sokurov, ideologo capo del Cremlino, ha svelato alcuni dettagli riguardanti il progetto: il centro sarà situato appena fuori la parte ovest di Mosca, a Skolkovo, e ospiterà circa 30.000, 40.000 persone che vi risiederanno temporaneamente. Sarà un luogo per “il meglio del meglio, dove esperti e scienziati saranno in grado di lavorare e confrontarsi”. La città sarà aperta a chiunque possa contribuire al progetto, e non sarà una nicchia riservata ad una fascia elitaria della popolazione. Come ha sottolineato Medvedev, questo centro di ricerca e sviluppo di alta tecnologia si concentrerà principalmente in cinque settori: energia, information technology, telecomunicazioni, biotecnologia e tecnologia nucleare.

Il 23 marzo, Medvedev ha nominato Viktor Vekselberg come presidente della sezione del Consiglio di Coordinamento per supervisionare la creazione del centro. Vekselberg è il presidente della holding Renova Group, che è maggiore azionista del conglomerato tecnologico svizzero Oerlikon, e controlla anche importanti holding nei settori energetici russi.

In un’intervista con Vedomosti (riportata da The Moscow Times, 22/04/2010), Vekselberg ha spiegato il suo piano in ulteriori dettagli:

  • Una fondazione no-profit, guidata da Vekselberg stesso, sarà responsabile del progetto. Questa fondazione coinvolgerà l’Accademia Russa delle Scienze, Rosnano, Vneshekonombank, Russian Venture Company, la Small Business Research Development Foundation, la Fondazione Housing Assistenza e diverse organizzazioni no profit che vi fonderanno delle università.
  • La fondazione sarà responsabile della costruzione della città – secondo criteri di efficienza energetica e sostenibilità ambientale – e della gestione di essa: la Fondazione manterrà la proprietà su tutti i terreni e affitterà le case al personale. Non ci saranno gli enti locali o altre intrusioni esterne e ci sarà anche una polizia speciale interna dipendente direttamente dal Ministero degli Interni, analoga alle forze di polizia presenti in città chiuse della Russia.
  • Le aziende con lo status di “residenti” godranno di spese di locazione molto favorevoli e un regime giuridico speciale. L’obiettivo è quello di evitare alle aziende di incontrare alcun ostacolo burocratico o formale alla scienza e alla ricerca.
  • Secondo la prima bozza del progetto legislativo, le esenzioni fiscali dureranno per un periodo di 10 anni o fino alla soglia di fatturato annuo di 3 miliardi di rubli. Tutte le imposte sul valore aggiunto saranno abrogate. Le importazioni di merci straniere e l’uso di nuovi prodotti nazionali sarà consentito senza una valutazione di conformità: rischi e responsabilità per la sicurezza saranno a carico della Fondazione.
  • Il limite inferiore dei costi di investimento è di circa 2 miliardi di dollari. Su questo tema il bilancio federale del prossimo anno prenderà in considerazione le esigenze Skolkovo, si prevedono da 50 a 60 miliardi di rubli per i prossimi 2 anni e mezzo. Gli investimenti dei co-fondatori saranno minimi, e la maggior parte dei fondi proverranno dal bilancio dello Stato.

I primi residenti si prevede si trasferiranno sul posto in tre anni e mezzo da oggi.

Un progetto così ambizioso, che molti vedono come visionario, non poteva certo evitare di sollevare feroci critiche. Rossijskaja Gazeta25 ha esposto il punto di vista di Evgenij Primakov, presidente della Camera di Commercio russa, che riassume le principali critiche al progetto. Egli fa leva su tre punti:

  1. In Russia le infrastrutture high-tech già esistono: ci sono 110 parchi tecnologici, 120 incubatori di imprese, 110 tra centri di trasferimento tecnologico e zone economiche speciali. Sarebbe più opportuno investire nell’ammodernamento ed equipaggiamento di tali infrastrutture, invece di iniziare un nuovo progetto.
  2. Gli istituti di ricerca dell’Accademia delle Scienze non ricevono credito, in base ad un bando del Ministero delle Finanze (essendo essi nel budget di bilancio). Come risultato, l’Istituto di Fisica Nucleare Budker vende tecnologie alla Cina, Corea del Sud e Giappone, mentre da anni l’Istituto di chimica inorganica Nikolaeva vende a USA e Giappone. Perché non sostenere i loro progetti, tentando di frenare la fuga dei cervelli dalla Russia?
  3. La posizione della Silicon Valley originale era strategicamente ideale, a metà strada da università come quella di Harvard e il Massachusetts Institute of Technology. Skolkovo non dispone di una tale posizione favorevole e difficilmente può attrarre ricercatori stranieri come il suo omologo americano ha fatto.

1Il servizio statistico della Federazione Russa.

2Oltre al rapporto di proporzionalità diretta tra l’andamento dei prezzi delle materie prime e la Borsa russa, il grafico mostra anche che la seconda si sviluppa con un andamento di tipo speculativo, dal momento che reagisce in maniera sproporzionata ai minimi cambiamenti del primo.

3Rapporto “Andamento dell’economia nel 2009 e prospettive per il 2010”, diffuso nel febbraio 2010.

4Inizialmente le sovvenzioni statali sono state date direttamente alle imprese private eccessivamente indebitate, soprattutto a quelle che avevano contratto prestiti dal mercato internazionale. In una fase successiva, il governo ha cercato di intervenire per stimolare la domanda interna, fornendo incentivi per i clienti privati o con massicci acquisti pubblici (ad esempio, veicoli per la pubblica amministrazione).

5L’ultima relazione della Banca d’Italia ricorda utilmente che il prezzo di alcuni servizi nazionali e pubblici (elettricità, trasporti, ecc.) è ancora molto basso, e talvolta anche al di sotto dei costi di produzione. Le tariffe sono quindi periodicamente aumentate, indipendentemente dalle condizioni macroeconomiche e dalla domanda.

6BOFIT rapporto settimanale, 07/05/2010.

7Le previsioni per la media dell’anno in corso oscillano da 76 a 85 dollari al barile.

8Moscow Times del 12/05/2010.

9Anche chiamato tasso naturale di disoccupazione, definito da Milton Friedman “quel tasso al quale corrisponde un equilibrio generale sotto il profilo macroeconomico, in particolare quando il tasso di inflazione attesa è esattamente uguale a quello effettivo”.

10Secondo Rosstat, i ricavi del petrolio e del gas nel gennaio-febbraio del 2010 sono aumentati del 73% rispetto all’anno precedente.

11Iniziata nell’aprile 2009, quando ammontava al 13%. L’attuale tasso di interesse è dell’8%.

12Si veda la Parte Prima del presente articolo a questo indirizzo internet: http://www.eurasia-rivista.org/6435/la-russia-del-2010-–-prospettive-economiche-e-politiche-parte-1-2

13Peeter Vahtra, Pan European Institute, 5/2010, citato in The Economist 13/03/2010.

14RIA Novosti, 10/03/2010 e The Moscow Times, 17/03/2010.

15Si veda, ad esempio, il suo discorso ad alcuni oligarchi del 24/02/2010, riportato, tra gli altri, da The Moscow Times del giorno successivo.

16V. supra.

17PROFIL, 22/03/2010.

18Indicatore calcolato dall’OCSE considerando i seguenti fattori: quantità di fornitori locali, qualità dei fornitori locali, stato di sviluppo dei cluster, natura del vantaggio competitivo, larghezza catena del valore, controllo della distribuzione internazionale, produzione del processo di sofisticazione, ampiezza del marketing, disponibilità a delegare l’autorità, capacità di innovazione, qualità delle istituzioni di ricerca scientifica, spesa in azienda nella R&S, collaborazione tra università e industria in R&S, produzione statale di prodotti avanzati di tecnologia, disponibilità di scienziati e ingegneri, brevetti di utilità.

19Aleksej Zaharov (Presidente di SuperJob.ru in un’intervista per Odnako, n.10).

20Le linee guida della modernizzazione riflettono le “Quattro I” nell’agenda del presidente Medvedev delineate prima della sua elezione: istituzioni, infrastrutture, innovazione e investimenti, che in realtà sono le aree obiettivo della modernizzazione.

21Braccio destro di Putin e principale ideologo del Cremlino.

22A capo di Rosnano.

23A capo della Russian Technologies State Corporation.

24Questo tipo di progetto ha radici sovietiche: dopo la Seconda guerra mondiale, Stalin decise di dare la massima priorità al progetto di creare una bomba atomica e fece costruire decine di piccoli villaggi per gli scienziati, che si trovavano a pochi chilometri dalle grandi città o in luoghi segreti. Erano vere e proprie città altamente tecnologiche, dove migliaia di persone (scienziati, tecnici, esperti) lavoravano e vivevano con le proprie famiglie in un relativo benessere. Questi centri vennero chiamati akademgorodki o naukogrady, e divennero il nucleo di una nuova classe di persone istruite (la cosiddetta intelligentsija) che costituì la spina dorsale del sistema sovietico fino alla fine degli anni ’80. Questo è un fattore chiave anche nella Russia moderna: come Esther Dyson (The Moscow Times, 25/03/2010) spiega, ciò di cui la Russia ha bisogno è una cultura di innovazione, una classe di persone ben istruite che guardano all’informazione e all’innovazione come a dei valori.

25Rossijskaja Gazeta dell’08/04/2010.

La Prima parte dell’articolo è qui: http://www.eurasia-rivista.org/6435/la-russia-del-2010-–-prospettive-economiche-e-politiche-parte-1-2

Moniz Bandeira: Serra rappresenta un Brasile sottomesso agli interessi degli USA

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In una intervista rilasciata a “Carta Maior”, lo storico brasiliano, membro del Comitato scientifico di Eurasia, Luiz Alberto Moniz Bandeira, afferma che il processo elettorale brasiliano è avvelenato da un’intensa campagna terrorista e da una guerra psicologica promossa dalla destra e dai gruppi di estrema destra, come il TFP e l’Opus Dei. Per Moniz Bandeira, il progetto rappresentato da José Serra è quello “di un Brasile sottomesso alle direttive degli Stati Uniti, con la sua economia privatizzata e alienata, rivolta agli interessi stranieri.

20.10.2010

Carta Maior: Quali sono le conseguenze sul processo elettorale brasiliano e sulla disputa che sta avvenendo nella seconda tornata? Come definirebbe i due progetti in disputa?

Moniz Bandeira: L’attuale processo elettorale è ammorbato da una intensa campagna terrorista, una guerra psicologica, promossa non solo dalla destra, ma anche dall’estrema destra, come il TFP, l’Opus Dei e i nuclei “nazisti” del Sud del paese, e difesa dagli interessi stranieri che finanziano la campagna contro la politica estera del presidente Lula, giacché non desiderano che il Brasile si proietti come una potenza politica globale. I due progetti che sono in disputa sono già ben definiti: il Brasile come potenza economica e politica globale, socialmente giusto, militarmente forte, difeso dalla candidata del PT, Dilma Roussef; l’altro, quello rappresentato da José Serra, candidato del PSDB-DEM, è quello di un Brasile sottomesso alle direttive degli Stati Uniti, con la sua economia privatizzata e alienata, rivolta agli interessi stranieri.

Evidentemente, gli Stati Uniti, qualunque sia il suo governo, non vogliono che il Brasile si consolidi come potenza economica globale, integrando tutta l’America meridionale come uno spazio geopolitico con una sua maggiore autonomia internazionale.

Carta Maior: Per quanto concerne la politica estera, lei potrebbe approfondire un po’ di più quello che, secondo il suo punto di vista, le due candidature rappresentano?

Moniz Bandeira: Il cambio dei percorsi della politica estera, come José Serra e i suoi mentori pretendono, porterebbe a profonde implicazioni per quanto concerne la strategia di difesa e di sicurezza nazionale. Ciò significherebbe la fine del programma di attrezzamento e modernizzazione delle Forze Armate, la definitiva interruzione della costruzione del sottomarino nucleare e la paralizzazione dello sviluppo delle nuove tecnologie, attualmente in corso con la collaborazione della Francia e della Germania paesi che, contrariamente agli Stati Uniti, si è offerti a trasferire il loro know-how verso il Brasile. Questo cambio di percorsi, difeso dai mentori di José Serra per quanto concerne la politica estera, porterebbe il Brasile ad accettare la tesi che asserisce che il concetto di sovranità nazionale scompare in un mondo globalizzato, in questo modo si consentirebbe la formazione di presunti Stati indigeni nella regione dell’Amazzonia, così come lo desiderano un centinaio di ONG che operano in quella regione.

Carta Maior: E in America latina? Il Brasile in questo momento appare come un fattore di stimolo e corroborante di un processo d’integrazione ancora in corso. Che tipo di minaccia rappresenterebbe una eventuale vittoria di José Serra nei confronti di questo processo?

Moniz Bandeira:
Josè Serra si è già schierato, sin dalla campagna elettorale del 2002 egli si è opposto al Mercosur come unione doganale, e voleva la sua trasformazione per quella di un’area di libero commercio, compatibile con il progetto ALCA che gli Stati Uniti cercavano d’imporre ai paesi dell’America meridionale e che il Brasile, appoggiato dall’Argentina, ostacolò. Se l’ALCA fosse stata introdotta, la situazione del Brasile sarebbe stata disastrosa come conseguenza della profonda crisi economica e finanziaria che attraversava gli USA, e come accadde in Messico.

José Serra ha recentemente provocato dei problemi, facendo dichiarazioni offensive nei confronti dell’Argentina, Bolivia e Venezuela, paesi verso i quali il Brasile mantiene necessariamente buonissimi rapporti, a prescindere dei suoi governanti. Qui si tratta dell’interesse nazionale e non dell’idiosincrasia politica.

Carta Maior: Nella sua valutazione, quali sono stati i cambiamenti più significativi della politica estera brasiliana che devono essere ancora conservati?

Moniz Bandeira: Il governo del presidente Lula, annoverava come ambasciatore il cancelliere Celso Amorim, attualmente considerato dalla rivista americana “Foreign Policy” come il migliore al mondo, il cui prestigio ha consentito di allargare le frontiere diplomatiche del Brasile. I suoi esiti sono visibili numericamente: sotto il mandato del governo del presidente Fernando Henrique Cardoso, le esportazioni del Brasile aumentarono di soli 14 miliardi, salendo da 47 miliardi di dollari nel 1995 a 61 miliardi nel 2002. Nel governo del presidente Lula, le esportazioni brasiliane balzarono da 73 miliardi di dollari nel 2003 a 145 miliardi nel 2010: raddoppiarono. Sono aumentate di 72 miliardi, cinque volte di più che durante il governo di Fernando Henrique Cardoso.

Queste cifre pongono in evidenza il successo della politica estera brasiliana, aprendo e diversificando i mercati all’estero. Ma esiste un altro fattore che vale la pena evidenziare per far conoscere la proiezione internazionale del Brasile. Nel mese di dicembre del 2002, ultimo anno del governo di Fernando Henrique Cardoso, le riserve brasiliane ammontavano a soli 38 miliardi di dollari … Con il governo di Lula, nel 2003 le riserve brasiliane balzano da 49 miliardi di dollari a 280 miliardi di dollari nel mese di ottobre 2010. Sono aumentate sette volte di più che nella passata legislatura. Questi numeri rappresentano una enorme riduzione della vulnerabilità brasiliana.

Vale la pena ricordare che subito dopo che il presidente Fernando Henrique Cardoso inaugurò il suo secondo mandato, in appena sei giorni, tra il 6 e il 12 gennaio 1999, il Brasile perse più di 2 miliardi di dollari per opera di speculatori e investitori, i quali avevano intensificato il cambio del real con quello del dollaro, approfittando in quell’occasione dei tassi ancora alti, e le sue riserve crollarono in soli due giorni di più di 4,8 miliardi, vale a dire, dal 13 al 14 gennaio.

Capitali di circa 500 miliardi di dollari il giorno, continuarono a fuggire di fronte al panico che il governo decidesse di congelare i conti correnti e decretasse lo stato di moratoria. Dal loro canto, le banche straniere che rifornivano il Brasile da agosto 1998, decurtarono 1/3 degli US$ 60 miliardi di credito interbancario a breve termine. Per evitare di perdere ulteriori riserve, dovuto all’intensa fuga di capitali, al governo di Cardoso non gli rimase altra scelta che quella di abbandonare le svalutazioni controllate del real e lasciarlo fluttuare con l’introduzione del libero scambio.

Carta Maior: Lei potrebbe segnalare una differenza che pensa sia fondamentale per distinguere i governi di Lula e di Cardoso?

Moniz Bandeira:
Comparare i due governi toglierebbe molto spazio all’intervista. Ma solo un fatto evidenzia la differenza: il cancelliere Celso Amorim è andato negli Stati Uniti innumerevoli volte e, al momento del suo arrivo nell’aeroporto, non si è mai tolto le scarpe per essere sottoposto a controllo da parte degli addetti del servizio di sicurezza. Il professore Celso Lafer, cancelliere sotto il governo di Cardoso, si dovette sottoporre a questa vessazione, umiliandosi, degradando la sua funzione di ministro di Stato e del proprio paese, il Brasile, che in quel momento rappresentava. E lui è uno di quegli uomini che si scagliano contro la politica estera del presidente Lula e uno dei mentori di José Serra, il cui governo, inoltre, sarebbe ancora peggiore di quello di Fernando Henrique Cardoso.

(Traduzione di V. Paglione)

Sergio Romano commenta la politica estera italiana per “Eurasia”

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Lo storico, diplomatico ed editorialista del “Corriere della Sera” Sergio Romano è stato intervistato per l’ultimo numero di “Eurasia” dal direttore Tiberio Graziani e da Daniele Scalea.

Con Romano, che fa parte del Consiglio scientifico di “Eurasia”, si è discusso delle scelte compiute in politica estera dall’attuale Governo Berlusconi, ed in particolare dei rapporti da esso instaurati con Libia, Russia, Israele e Iràn.

Secondo l’ex Ambasciatore, le scelte del presidente Berlusconi andrebbero inquadrate nella sua «politica degli affari» (Russia e Libia) oppure lette in chiave di ripercussioni sulla politica interna (Israele e Iràn). In particolare, il rapporto d’amicizia con Israele è motivato, secondo Romano, dal desiderio di conquistarsi il favore delle comunità ebraiche in Italia. Egli intravede comunque, sullo sfondo, un prosieguo della tradizionale politica mediterranea dell’Italia, e la riprova si troverebbe nell’accordo con la Libia, giudicato «un successo». Romano non ha mancato d’esprimere le sue perplessità circa la gestione del dossier iraniano: «La politica italiana nei confronti dell’Iràn è fotocopiata su quella delle altre potenze del Gruppo dei Sei; l’Italia sta dicendo cose che ritiene politicamente corrette, ma forse non pensa».

La discussione si è quindi spostata sul piano energetico. Romano ha elogiato l’atteggiamento del presidente dell’ENI Scaroni ed espresso appoggio all’ipotesi dell’apertura di centrali nucleari nel nostro paese. Ma ha anche lamentato l’assenza d’una politica energetica comune tra i paesi dell’Unione Europea.

L’INTERVISTA ESCLUSIVA A SERGIO ROMANO PUÒ ESSERE LETTA NELL’ULTIMO NUMERO DELLA RIVISTA “EURASIA” (clicca)

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Seminari del direttore Graziani all’Università di Enna

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Giovedì 28 ottobre alle ore 16.00 e venerdì 29 ottobre alle ore 9.30 si terranno a Enna, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Kore”, i seminari “Il Mediterraneo e la prospettiva eurasiatica”, con relatore Tiberio Graziani, direttore della rivista “Eurasia”. L’organizzazione è a cura dell’Università “Kore” di Enna. L’ingresso è libero per gli studenti.

Gli interessi del Pakistan in Afghanistan

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Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2010/10/26/pakistan-interests-in-afghanistan.html

C’è stata un improvviso interesse nel processo di riconciliazione, quando all’inizio di ottobre, i media dell’Afghanistan e internazionali avevano segnalato dei colloqui, a Kabul, durante una conferenza non ufficiale, tra molti funzionari in pensione e studiosi provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan, sullo sforzo congiunto Pakistano-Afghano per promuovere una riconciliazione. Questo era un segnale incoraggiante, in quanto ha dimostrato che vi è un grande interesse in Afghanistan e nella regione nel presidente Karzai.
Da allora il ritmo si è accelerato ancora di più, con notizie basate sui
briefing ufficiali che sostengono che i rappresentanti taliban di alto livello si incontrano con funzionari dell’amministrazione Karzai, cui le forze NATO permettono di viaggiano per partecipare ad alcune di queste riunioni. Una Talib, si dice, avrebbe viaggiato dal confine con il Pakistan a Kabul, in un aereo della NATO. Un altro rapporto recente afferma che ora, in linea probabilmente con le richieste dei talebani, un altro luogo vicino a Kandahar è stato sistemato  per ulteriori incontri.
Ancora un altro rapporto suggerisce che due emissari talebani hanno visitato l’Arabia Saudita, portando una lettera di un “alto leader della Shura”, in cerca di aiuto dal re saudita, per organizzare un dialogo dei taliban con l’amministrazione Karzai, e che i sauditi hanno detto a questi emissari che, mentre potrebbero avere incontri informali in Arabia Saudita, il regno si sarebbe interessato ufficialmente solo se i taliban rinunciano alla violenza, respinto
Al-Qaida e accettato la costituzione afghana.
Queste relazioni, per la maggior parte dai media statunitensi, sono chiaramente basati sui briefing forniti da funzionari militari USA o della CIA, e chiariscono anche che non vedono che il Pakistan vi abbia un ruolo. Piuttostono, affermano la convinzione, esplicitamente o implicitamente, che il Pakistan stia giocando il ruolo di freno. Sulla base della dichiarazione da parte di un parlamentare afgano, secondo cui il Pakistan ha arrestato circa 31 leader/comandanti taliban che erano pronti a parlare di riconciliazione, il
NY Times sostiene che 23 persone sono state arrestate dal Pakistan. E questo è corretto? Il Pakistan è contrario alla riconciliazione?
Mullah Baradar, famoso rappresentante di mullah Omar, pianificatore delle operazioni militari dei taliban e tesoriere dei taliban, è stato arrestato a Karachi nel febbraio di quest’anno, a seguito di un’operazione congiunta CIA-ISI. Ciò è stato salutato, in quel momento, come prova della cooperazione del Pakistan che si estende alle operazioni degli Stati Uniti in Afghanistan. Ben presto però i rapporti emersi, affermavano che mentre la CIA ebbe l’accesso a Baradar, e il suo interrogatorio aveva permesso di ottenere informazioni utili, il Pakistan aveva rifiutato di estradarlo in Afghanistan, anche se si era detto che era un leader con cui la riconciliazione può essere perseguita.
Così il Pakistan è stato dipinto come il cattivo della commedia. I rapporti, adesso, dicono che Baradar è stato rilasciato e si trova in Afghanistan, con la sua visita  facilitata dalla NATO e dalle autorità afgane, starebbe parlando con i comandanti taliban in Afghanistan per convincerli ad impegnarsi nella riconciliazione.
I media affermano che il Pakistan è sconvolta dal fatto di essere escluso del ciclo dei colloqui che l’amministrazione Karzai sta avendo con i gruppi taliban ed altri ribelli, e che se questo non viene invertito, il Pakistan saboterà lo sforzo. Eppure le relazioni suggeriscono anche che i colloqui sono in corso non solo con la
Shura di Quetta, ma anche con il gruppo Haqqani e con l’Hizb e-Islami di Hikmatyar. Ma entrambi questi gruppi, s’è detto, sarebbero controllati dall’ISI e  pertanto non farebbero alcuna mossa che sia in conflitto con le istruzioni dei loro patroni. Per quanto riguarda la Shura di Quetta, sicuramente la presenza del mullah Baradar in Afghanistan sembra indicare che, piuttosto che cancellare le operazioni, i pakistani stiano agevolando i “colloqui”.
Quali sono esattamente gli interessi del Pakistan in Afghanistan e come meglio possono essere serviti? E’ evidente che gli interessi economici pakistani sono meglio serviti da un Afghanistan pacifico e stabile. E’ solo con un Afghanistan così, che 1,6 milioni di rifugiati registrati e un numero uguale o maggiore di profughi non registrati, possono ritornare. Dovrebbe essere evidente che la presenza di questi rifugiati, anche se si guadagnano da vivere da sé, mantengono il tasso di disoccupazione del Pakistan alto e l’utilizzo della pratica costante di dare un dollaro al giorno per ogni rifugiato, impone costi di oltre un miliardo di dollari l’anno all’economia del Pakistan. E’ solo con un Afghanistan così, che si può contribuire a contenere il traffico che, a sua volta, da stime prudenti, arriva a circa 3 miliardi di dollari di beni in Pakistan, senza pagare i dazi, interessando così sia i ricavi del governo che la capacità dell’industria locale di competere. E’ solo in un Afghanistan così, che la coltivazione di papavero può essere frenata e la popolazione del Pakistan può essere salvata dagli effetti terribili di avere il 33% di questa coltura utilizzata nel contrabbando attraverso il e nel Pakistan. E’ solo attraverso un siffatto Afghanistan, che il Pakistan può beneficiare delle risorse in idrocarburi in Asia centrale, per soddisfare non solo le sue, ma anche la penuria energetica critica dell’India, e dare agli stati dell’Asia centrale l’accesso al porto di Gwadar, nel Pakistan, sul Mar Arabico, il percorso più economico per il commercio dell’Asia centrale con il resto del mondo.
Naturalmente anche il Pakistan ha un interesse politico a che il governo dell’Afghanistan sia amichevole e sensibile verso le preoccupazioni del Pakistan sull’influenza indiana a Kabul, a scapito del Pakistan. L’incubo finale per i pianificatori della sicurezza del Pakistan, è sempre stato quello di essere circondato da un’India e un Afghanistan ostili. L’esperienza del passato, durante i conflitti Indo-Pakistani del 1965 e del 1971, indica tuttavia che, anche quando l’Afghanistan ha avuto contrasti con il Pakistan, non fu disposto a creare problemi al Pakistan, in quei momenti critici.
Allo stesso tempo, il Pakistan un interesse, come il resto del mondo, a garantire che il governo che emerge in Afghanistan non rifletta solo la volontà del popolo afghano, ma anche che tutti i gruppi etnici presenti nel paese siano adeguatamente rappresentati, dato che l’alternativa potrebbe essere l’inizio di una guerra civile simile a quella che ha devastato l’Afghanistan dopo il ritiro sovietico. Tale guerra civile sarebbe fonte di preoccupazione per il mondo, ma sarebbe catastrofica per il Pakistan, perché sarebbe certamente la causa di un flusso di rifugiati, forse della stessa portata di quello avutosi durante i primi anni dell’occupazione sovietica.
Se non c’è armonia etnica in Afghanistan, è quasi certo che non importa quali misure il Pakistan prenda internamente, perché sarà difficile evitare la diffusione di un’ideologia estremista apparentemente a sostegno di un gruppo etnico in Afghanistan, ma in pratica con conseguenze pericolose per la politica interna del Pakistan.
Questa è stata una delle lezioni che il Pakistan dovrebbe avere, e credo abbia, imparato dai propri sforzi nell’aiutare i gruppi della resistenza afghana nel formare un governo coerente e coeso, dopo che i sovietici si erano ritirati e il governo di Najibullah era caduto nel 1992.
Un’altra lezione che è stata appresa, e viene spesso ripetuta nelle presentazioni in materia di politica di sicurezza, è che la sicurezza militare è solo una parte e non necessariamente la parte più importante della sicurezza globale. La sicurezza interna e la coesione interna sono a mio avviso, di gran lunga le componenti
più importanti della sicurezza. Solo di recente, la stampa ha suggerito che il temuto ISI aveva dato al governo una valutazione che la minaccia principale per il Pakistan non è esterna, ma interna. Nessuno in Pakistan ha alcun dubbio che la nostra sicurezza interna sia fortemente influenzata dall’instabilità del Afghanistan.
Il Pakistan, quindi, ha tutto l’interesse a promuovere la riconciliazione in Afghanistan come il primo passo logico verso il raggiungimento della pace e della stabilità in Afghanistan. Come è stato ripetutamente affermato, dopo il popolo dell’Afghanistan, il popolo e lo stato che di più ha sofferto gli anni del conflitto in Afghanistan, è stato il Pakistan. Il Pakistan può e deve utilizzare l’influenza di cui gode presso i taliban per garantire che le loro richieste siano moderate sufficientemente, anche se credono, come sembra, di essere i rappresentanti del nazionalismo pashtun, in modo che gli altri gruppi etnici non si sentano esclusi dalla struttura di potere. I talebani possono chiedere, come appare logico e come è avvenuto in passato in Afghanistan, che vi possa essere una certa devoluzione del potere alle comunità locali – qualcosa cui  anche gli altri gruppi siano favorevoli, senza alterare l’unità essenziale dell’Afghanistan.
Mentre il Pakistan, tra i paesi vicini all’Afghanistan e agli attori regionali, è sempre visto tenere premuto il tasto sulla questione afgana, il fatto è che, come si è visto negli sforzi inutili per creare un governo di unità in Afghanistan nel 1992, e la successiva guerra civile, ancche gli altri giocatori hanno un ruolo importante da svolgere. Possono essere degli “ostacoli” in misura ancora maggiore, perché per loro i costi di un Afghanistan instabile sono molto meno dannosi. Maggiore attenzione deve essere posta nel garantire a cercare di non ostacolare la riconciliazione, anche se significa che un minimo di forza di volontà passi  nelle mani di gruppi che finora erano considerate nemiche.


Copyright 2010 © Strategic Culture Foundation
E’ gradita la diffusione dell’articolo a condizione di un collegamento ipertestuale diretto al giornale on-line “Strategic Culture Foundation” (www.strategic-culture.org)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
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http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/


Guerra e conquista dell’Eurasia: “Onda verde” e geopolitica globale

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Fonte: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=21584


I russi e i cinesi hanno bisogno che il partner strategico iraniano sia una componente di ogni  strategia difensiva o alternativa valida contro l’invadenza statunitense e dell’Unione Europea nelle loro sfere d’interesse geopolitico.
Nel 2009, la necessità dei russi e cinesi di avere un governo a Teheran che fosse loro alleato è diventato evidente durante il periodo dei torbidi post-elettorali in Iran, nel 2009. Mosca, Pechino e molte altre capitali in tutto il mondo puntarono gli occhi sull’Iran, quando disordini e proteste si riversarono nelle strade iraniane.
L’”
Onda verde” o “Rivoluzione Verde” vennero definiti i disordini causati da un segmento dell’opposizione, dopo le elezioni presidenziali 2009 dell’Iran. Il movimento prende il nome dal colore della bandiera iraniana che il candidato presidenziale Mir-Hussein Mousavi aveva scelto. Tale evento avrebbe potuto diventare un colpo di stato geo-politico contro l’entità politica dell’Eurasia. E probabilmente sarebbe potuto diventare una vera e propria minaccia geo-politica per gli interessi di Russia e Cina. Al contrario, l’Onda verde fu salutata da USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Israele e dai loro alleati.
Al fine di comprendere le esigenze sino-russe verso l’Iran, la dimensione geo-politica dell’Onda verde deve essere discussa, e come questi fattori siano legati all’Iran quale perno geo-strategico e alle sue opzioni come attore politico sulla scena internazionale. Una dimensione collegata è lo sviluppo coerente di un ordine unificato in Eurasia, che gli Stati Uniti e i suoi alleati stanno cercando di arrestare. L’Iran è cruciale nel processo di coesione eurasiatica, comportando un nucleo consistente nella triplice alleanza tra Federazione Russa, Repubblica popolare cinese e Iran.
L’onda verde e i disordini politici scoppiati in Iran sono emerse per un gran numero di ragioni collegate. Ci sono state diverse motivazioni tra i suoi membri e gli organizzatori. Ci sono diverse spiegazioni e punti di vista sulle cause e le motivazioni dell’Onda verde. Tutti questi fattori fanno parte di una più ampia comprensione del rapporto tra politica interna iraniana e geo-politica globale.
Tra le descrizioni dell’Onda verde come  lotta democratica o lotta per maggiori libertà civili, tuttavia, vi è il fatto che essa riflette un elemento delle lotte tra le élite iraniane. Questo punto è cruciale. A tutti gli effetti, questa caratteristica fondamentale dell’Onda verde, è ciò che deve essere tenuto presente quando se ne discute a livello geo-politico.

Utilitarismo Geo-strategico e i preparativi di guerra in Eurasia
E’ facile trascurare l’impatto dei fattori geografico, politico, sociale, economico e storico.
La maggior parte degli studiosi e analisti tentano di evitare la fallacia semplicistica del determinismo geografico. Eppure, il ruolo della geografia non deve essere trascurato sul corso dello sviluppo umano. Per esempio, la produzione di energia è legato alla realtà fisica di una terra e in passato, un popolo che vive su una costa avrebbe orientato verso il mare e la pesca la maggior parte, se non tutti, gli aspetti della loro vita collettiva, da quello economico a socio-culturale. Allo stesso modo le azioni umano non devono essere attribuiti alla sola  geografia. L’agire umano ha sempre avuto un ruolo da svolgere nello sviluppo dei popoli e delle loro società.
Per quanto riguarda le questioni a portata di mano, sono inevitabilmente legate a una realtà geografica che è troppo forte per essere ignorata. La corsa per il controllo dell’Eurasia dalla periferia è parte di questa. Questa corsa, che si spinge verso l’interno dell’Heartland eurasiatico, è stata inquadrata in molti modi diversi, nel corso della storia moderna. La periferia è un termine concettuale applicato agli Stati Uniti, Gran Bretagna, l’Unione europea, Giappone, Australia, e i loro alleati, che sono in sostanza al di fuori dell’Eurasia o alla sua periferia.
Un nuovo termine deve essere applicate anche a questo punto: utilitarismo geo-strategico. Utilitarisimo geo-strategico, un termine coniato nel presente documento, è l’applicazione o la proiezione dell’utilitarismo o valori utilitaristici alla geo-politica. Il termine è nuovo, ma questo modo di pensare no. Questo termine cattura lo spirito e la base della moderna geo-strategia e gli dà una forma tangibile. Oggi l’utilitarismo geo-strategico, con la sua base materialistica, è il dogma della marcia verso la guerra in Medio Oriente e nel resto dell’Eurasia.
Halford J. Mackinder capì anche questa realtà, in termini di ciò che egli chiamava la geografia strategica. Mackinder ha dichiarato che ogni stato organizzato, che ha definito nazione civile, era legato alla terra fisica che occupava in due modi: “
Qualunque sia lo scambio effettuato con il commercio, [un paese] è in ultima analisi, dipendente dai passati e presenti [prodotti] del proprio territorio, e (2) [un paese] deve essere preparato a difendere il territorio contro l’intrusione dei vicini avidi.” [1] E’ proprio in preparazione di questi fenomeni che i paesi dell’Eurasia si preparano; si stanno preparando a difendere i loro territori contro le intrusioni in tutte le loro forme, che vanno dall’occupazione militare alla colonizzazione economica.
La base della questione è chiaramente economica e inserita sui valori utilitaristici. Mackinder ha anche riconosciuto questo carattere economico. Ha scritto i seguenti interventi sul tema: “
I due gruppi di idee coinvolte possono essere più o meno indicizzate a seconda i termini economici e strategici. Si può descrivere la geografia economica come questione dell’aumento e distribuzione delle merci, e la geografia strategica come il fare fronte alle più ampie condizioni topografiche di offesa e difesa. Ma i problemi da risolvere sono strettamente correlati, la difesa è essenzialmente la protezione dei mezzi di sussistenza economica... “[2]
L’entità spaziale più grande dell pianeta Terra è l’Eurasia, che ha le coste più lunghe, la popolazione più grande, una ricchezza enorme in risorse naturali (dall’energia ai minerali), la più grande forza lavoro e la maggior parte dell’attività economica globale.
Se le nazioni dell’Eurasia dovessero unirsi come singolo giocatore, sarebbero in tutti gli aspetti, imbattibili. La prevenzione della coesione eurasiatica è stato uno degli obiettivi primari degli Stati Uniti e dei suoi alleati.  Soprattutto, questa politica preventiva praticata dagli Stati Uniti ha preso di mira quattro stati eurasiatici: Russia, Cina, India e Iran, così come l’intero spazio  post-sovietico.
Quello di cui stiamo trattando è il quadro delle manovre geo-politiche e geo-strategiche dagli Stati Uniti e dei suoi alleati in Eurasia, da un lato, e le contro-manovre di Russia, Cina e Iran, dall’altra. E’ anche a questo punto che una alleanza eurasiatica entra in discussione. L’India è riuscita a sottrarsi dalla linea di tiro geo-politica e ha mantenuto una certa distanza di sicurezza da una alleanza o intesa eurasiatica. Russia, Iran e Cina – gli altri tre stati eurasiatici ricordati – in termini pratici, hanno tutti stretto un’alleanza reale attraverso i vari accordi, le intese, i legami e le organizzazioni formali e informali.

Cosa distingue l’Iran dalla Russia e la Cina?
Anche se molto influente, l’Iran non è una così grande potenza o nazione come la Cina, la Russia e l’India. Né l’Iran è forte come questi altri Stati eurasiatici, ma il ruolo iraniano in questa equazione eurasiatica è molto significativo.
Inoltre, l’Iran è caratterizzato da una “
flessibilità geo-politica” in contrasto con gli altri grandi Stati eurasiatici. Quasi tutti i paesi sono in qualche misura dei perni geo-strategici, ma il grado in cui essi sono un pivot geo-strategico, varia. L’Iran è un importante perno geo-strategico, il che significa semplicemente che tutti gli attori geo-politici devono adattare le loro politiche, i comportamenti e le strategie sulla base del comportamento iraniano. In altre parole, il comportamento di Teheran cambia il gioco globale.
L’Iran si distingue anche per un altro attributo importante. A differenza di Pechino e Mosca, Teheran essenzialmente può stipulare un accordo a lungo termine con gli Stati Uniti e i suoi alleati. Qualsiasi accordo raggiunto tra gli Stati Uniti e i suoi alleati con i russi e cinesi, non può che essere un accordo a breve termine. Nel lungo periodo la Cina e la Russia sono il bersaglio finale dell’invasione statunitense dell’Eurasia. E’ la sopravvivenza di Russia e Cina in quanto Stati indipendenti che è in gioco.
Sia Mosca che Pechino sono i principali rivali economici e minacce all’egemonia statunitense. Grazie alla geografia delle vaste influenze, risorse, mercati e territori di Russia e Cina sono il premio finale per gli Stati Uniti e i suoi alleati. Anche l’India, nel lungo termine corre un pericolo reale. Per gli USA, l’eliminazione di tutti i rivali e potenziali rivali fa parte di questa politica.
In linea con l’utilitarismo geo-strategico usato dagli USA e dai suoi alleati, Washington può permettersi di fare un compromesso o accordo con l’Iran e cooptare Teheran, a differenza di Pechino e Mosca. Questa affermazione, però, deve essere ulteriormente specificata, gli Stati Uniti possono permettersi di fare un compromesso o accordo con Teheran se gli iraniani non sono una minaccia reale per il controllo e agli interessi statunitensi, che anche Israele rappresenta in Medio Oriente. Alla fine degli anni ’90, Zbigniew Brzezinski ha avvertito che “
non è nell’interesse dell’America perpetuare l’ostilità americana-iraniana.”[3] Brzezinski ha avvertito che l’Iran non dovrebbe essere contrastato dagli USA, mettendo Teheran in una posizione in cui si sarebbe alleata con la Russia e la Cina.
Questa volontà degli Stati Uniti di trattare con l’Iran è dovuta principalmente alla scala o dimensione geografica dell’Iran, che è molto più piccola di Russia o Cina. L’Iran riesce a gestire l’esistenza con una quota minore di risorse e d’influenza globali, per via delle sue più piccole dimensioni e popolazione, ma sia la Russia e, più specificamente, la Cina, non sono in grado di farlo a lungo termine. Brzezinski sostiene a questo proposito:

“Qualsiasi eventuale riconciliazione [tra America e Iran] dovrebbe essere basata sul riconoscimento di un reciproco interesse strategico nello stabilizzare ciò che attualmente è un ambiente regionale molto volatile per l’Iran.
” [4]
Brzezinski intende con questa affermazione che la cooperazione e il controllo USA-Iran dovrebbe essere perseguito nelle immediate vicinanze dell’Iran, quali sono il Medio Oriente, l’Asia Centrale e forse il Caucaso. Ha ulteriormente argomentato la sua dichiarazione: “
Certo, qualsiasi riconciliazione (tra America e Iran] deve essere perseguita da entrambe le parti e non è un [favore] concesso dall’uno all’altro.”[5] Così Brzezinski voleva dire che con l’Iran si deve contrattare o mercanteggiare con comprensione, e si deve raggiungere l’intesa tra le élite dell’Iran e degli USA.
La posizione geo-strategica mette l’Iran in una unica posizione che le consente di staccarsi dalla Russia e dalla Cina e fare un accordo, come la Libia, con gli Stati Uniti ed i suoi alleati. Questa accordo in stile Libico è il seguente: la Libia era nel mirino della guerra anglo-statunitense prima del 2003, ma Tripoli cedette agli Stati Uniti e all’Unione europea dopo che vide cadere Baghdad.
Tripoli era anche consapevole di ciò che i leader statunitensi e britannici stavano progettando, ed ha iniziato trattative segrete con la Casa Bianca nel 2001. Da allora, la Libia ha fatto importanti accordi energetici con gli Stati Uniti e i suoi alleati e il suo leader, il colonnello Gheddafi, da allora è stato riaccolto nella comunità internazionale. Ciò faceva parte della politica che, in passato, Brzezinski aveva raccomandato al governo degli Stati Uniti nei rapporti con Libia, Iraq e Iran.

Teheran può essere utilizzato per destabilizzare e balcanizzare la Russia e la Cina
L’Iran potrebbe anche seriamente destabilizzare la Russia e la Cina attraverso il sostegno ai loro movimenti separatisti, che hanno legami etnico-culturale con l’Iran. Brzezinski afferma: “Un forte, anche con motivazioni religiose ma non fanaticamente anti-occidentale Iran è, per gli interessi degli Stati Uniti, e in definitiva anche per l’elite politica iraniana, una realtà che si può riconoscere.”[6] Ciò che potrebbe significare è che, se la cooperazione tra l’Iran e USA avesse luogo che entrambe le nazioni potrebbero lavorare insieme per avviare la divisione delle repubbliche della ex Unione Sovietica tra di loro e avendo l’Iran legami con l’Islam, esso potrebbe essere utilizzato per il controllo dell’Asia centrale e del Caucaso, e contrastare l’influenza russa e cinese in entrambe le regioni. In altre parole, l’Iran potrebbe essere efficacemente utilizzato per contrastare gli interessi cinesi e russi in queste regioni, come braccio degli USA.
Per quanto riguarda la comprensione dell’
Onda Verde, ciò che dice Brzezinski sulla élite politica iraniana e il loro riconoscimento della “realtà” è centrale. Si riferisce a due cose. In primo luogo, la flessibilità geo-politica dell’Iran, che è stata spiegata finora, e in secondo luogo, il campo pragmatico in Iran, che sarà indirizzato, e che vuole la cooperazione con gli USA in un ordine mondiale che comprenda l’Iran.
Per quanto riguarda la cooptazione dell’Iran, Brzezinski scrive anche: “
Gli interessi degli USA a lungo raggio in Eurasia, sarebbero meglio serviti abbandonando le esistenti obiezioni degli Stati Uniti a una più stretta collaborazione economica turca-iraniana, soprattutto nella costruzione di nuovi gasdotti, ma anche nella costruzione di altri collegamenti tra Iran, [la Repubblica di] Azerbaigian e Turkmenistan.“[7]
Ciò che era implicita in questa affermazione era l’incitamento all’Iran di mettersi contro il controllo russo delle rotte energetiche eurasiatiche e a sostenere il gasdotto Nabucco, e altri programmi simili, statunitensi. Inoltre, può anche darsi che l’integrazione in corso delle economie e dei mercati iraniani e siriani, con quelli turchi, e inserirebbe sia l’Iran che la Siria nell’economia mondiale, rendendole più sensibili al controllo USA e UE. In altre parole, il risultato finale potrebbe essere che sia l’Iran che la Siria, potrebbero trovarsi inavvertitamente parte del sistema globale degli USA e dell’UE.
Così, la natura globale di questa situazione, con l’utilitarismo geo-strategico alla sua base, porta ad un paradosso. A lungo termine, gli Stati Uniti e i loro alleati sono in grado di negoziare con gli iraniani, ma per evitare la coesione dell’Eurasia e per impedire che la Russia e la Cina opportunamente si preparino o s’impegnino a sfidare l’egemonia statunitense a breve termine, essi non possono negoziare con Teheran. Ecco perché la questione nucleare iraniana, che si basa su ciò che gli Stati Uniti, l’Unione europea e Israele hanno dipinto come una finestra di tempo definito, è il motivo principale per i negoziati con l’Iran. Naturalmente, se ci deve essere un più breve termine per l’esito, allora per gli Stati Uniti, non ci può davvero essere una soluzione a più lungo termine o un’intesa tra Stati Uniti e Iran.

Utilizzare la Turchia per allontanare l’Iran dagli eurasiatici?
I legami tra Ankara e Teheran sono sempre più forti. Entrambi gli stati parlano di un mercato comune e di libero scambio regionale in Medio Oriente. Già una serie di accordi di libero scambio sono stati firmati tra Libano, Siria, Turchia, Giordania, Iraq e Iran. Il governo turco ha anche spinto la Libia a firmare un accordo di libero scambio con Ankara.
Le relazioni amichevoli che Ankara ha promosso con l’Iran e la Siria possono essere utilizzate per (1) spiegare quello che sembra essere un cambiamento nella politica estera turca e (2) il raffreddamento pubblico nei rapporti tra Israele e la Turchia. Questo, tuttavia, potrebbe essere parte di (3) una strategia degli Stati Uniti per convincere l’Iran e la Siria a entrare nella sua orbita ed ad allontanarsi dagli alleati cinesi e russi dell’Iran. Lo sviluppo del cosiddetto asse iraniano-turco-siriano deve avvenire con cautela, perché le cose possono finire per essere del tutto diverse rispetto alla creazione di un alleanza regionale e blocco genuini.
I Neo-conservatori al timone della politica estera statunitense: Il Grande Abbaglio e l’Iran
Perché l’Iran ha rifiutato di agire? Ci possono essere varie ragioni, tra cui un calcolo iraniano che gli Stati Uniti e i suoi alleati soccomberebbero alla crescente forza della Russia, della Cina e dell’Iran, se Teheran rimane con l’Eurasia d’intesa con Mosca e Pechino. Un altro motivo potrebbe essere causata dalla gaffe dei neo-conservatori nell’esecuzione della politica estera statunitense. Gli iraniani non si fidano degli Stati Uniti e dei suoi alleati, a causa del grave errore strategico di George W. Bush Jr. e deòla sua amministrazione, che ha dato il controllo della politica estera per lo più ai neo-conservatori o neo-cons.[8]
Mentre Zbigniew Brzezinski è stato classificato come un realista della politica estera statunitense, i neo-conservatori no. Sia i realisti che i neo-conservatori condividono gli stessi obiettivi economici, ma non è così sul come perseguirli.
L’ideologia è utilizzata dai neo-conservatori come un mezzo per rappresentare la realtà. Inoltre, i realisti credono che le guerre non dovrebbero essere combattute per favorire gli interessi degli Stati Uniti, se non quando è strettamente necessario, mentre i neo-conservatori credono che la forza militare deve essere attivamente utilizzata per modellare l’ambiente globale.  I realisti sono anche degli opportunisti o pragmatisti nelle relazioni internazionali, mentre i neo-conservatori sono inesorabili per quanto riguarda la politica con una raffigurazione in bianco e nero delle relazioni internazionali.
Mentre George W. Bush Jr. era nello Studio Ovale, i neo-conservatori avevano una grande influenza sul Pentagono e sulla politica estera. E’ stato sotto i neo-conservatori che l’amministrazione Bush ha voltato le spalle a Teheran, dopo che il governo iraniano aveva aiutato USA e Gran Bretagna nell’Afghanistan controllato dai taliban e cercato di stipulare un grande patto con il governo svizzero.[9] Forse ubriacata dalle vittoria e dall’arroganza in quella che sembrava una facile vittoria sull’Afghanistan e l’Iraq, e per la rinuncia della Libia, la Casa Bianca di Bush Jr. pensava che potesse potesse andare avanti a sottomettere l’Iran. E’ stato a questo punto che i membri di alto livello dell’amministrazione Bush Jr. andavano entusiasticamente dicendo: “
Chiunque può andare a Baghdad! I veri uomini vanno a Teheran!
L’Iran era già l’ultima nazione di una lista di paesi da conquistare, che comprendeva anche l’Iraq, Libia, Sudan, Somalia, Libano e Siria. In un modo o nell’altro, gli USA avevano direttamente o indirettamente attaccato o sottomesso ognuno di questi paesi dal 2001. Inoltre, è stato durante questo lasso di tempo che gli Stati Uniti hanno anche cercato di accusare la Siria, allo stesso modo dell’Iraq, di avere armi di distruzione di massa (WMD) e addirittura hanno apertamente parlato di invadere la Siria. Israele ha anche cercato di istigare una guerra con la Siria, Damasco ha detto che faceva parte di uno stratagemma per creare un pretesto per l’invasione statunitense e britannica della Siria.
Indipendentemente dalle motivazioni, la decisione della amministrazione Bush di non trattare con l’Iran, è stato un grave errore geo-strategica per gli Stati Uniti. Non trattare con l’Iran è stato un errore enorme che potrebbe benissimo costare alle elites statunitensi il loro obiettivo di primeggiare sull’Eurasia. Questo errore degli Stati Uniti ha spinto ulteriormente Teheran nelle braccia della Russia e della Cina.

Iran Pragmatico: un jolly sul tavolo eurasiatico?
L’Iran è una potenza regionale in grado di sfidare gli Stati Uniti, Russia e Cina per l’egemonia in Asia centrale, Caucaso e Medio Oriente.
Nel 1993, Brzezenski ha detto che “
l’Iran è chiaramente un aspirante all’egemonia regionale ed è disposto a sfidare gli Stati  Uniti.” [10] E aggiunge: “[l'Iran] ha una tradizione imperiale e possiede sia la motivazione religiosa che nazionalista di contestare sia la presenza russa che quella americana nella regione. In tal modo, può contare sulla simpatia religiosa dei suoi [vicini]. Cospirando con la religione e il nazionalismo contro l’egemonia aliena nella regione, l’attuale supremazia americana in Medio Oriente è costruito, letteralmente, sulla sabbia.” [11]
Anche se la Cina e la Russia hanno permesso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sanzioni di imporre embarghi all’Iran, entrambi lo hanno fatto per mantenere l’Iran nel loro campo. Mosca e Pechino hanno appoggiato le sanzioni delle Nazioni Unite al fine di mantenere l’Iran, un alleato indipendente e potenziale rivale, al suo posto. Il loro sostegno delle sanzioni delle Nazioni Unite è limitato e resterà fin quando servirà ai loro interessi strategici. Per questo motivo, entrambi sono contro le sanzioni unilaterali all’Iran e sono contrari a sanzioni dell’UE e degli Stati Uniti.
Sia la Cina che la Russia sono ben consapevoli che gli Stati Uniti preferiscono cooptare l’Iran nel suo programma ambizioso per l’Eurasia, come un satellite o un partner, piuttosto che rischiare una guerra aperta. L’obiettivo sino-russo è quello di evitare qualsiasi riavvicinamento tra Washington e Teheran. Le esigenze iraniane sono, a questo proposito, molto più facili da essere adattate a quelle degli Stati Uniti, che non di quelle di Cina e Russia.
Mantenere una distanza di sicurezza tra USA e Iran è uno dei motivi per cui Pechino e Mosca hanno sostenuto le limitate sanzioni delle Nazioni Unite. Con l’Iran costretto ad allontanarsi dal cosiddetto mondo occidentale, s’integrerà ulteriormente con la Russia e la Cina. Le sanzioni economiche delle Nazioni Unite obbligare l’Iran anche a spostare i suoi legami economici dall’UE verso Russia, Cina, ex repubbliche sovietiche, blocco bolivariano e paesi asiatici. Questo cambiamento ha comportato la sostituzione dei membri dell’Unione europea, come l’Italia e la Germania, con paesi come la Cina, come principali partner commerciali dell’Iran.
Secondo la Commissione europea, nel 2004 l’UE ha rappresentato il 35,1 per cento della quota di mercato totale del commercio con l’Iran. [12] Secondo le stesse cifre, nel 2004 l’Iran è stato anche classificato ventiquattresimo nel volume totale degli scambi dell’Unione europea, e l’Iran è stato uno dei primi sei fornitori di energia dell’Unione europea. [13] Quando il commercio dell’UE con l’Iran ha iniziato a diminuire, il commercio asiatico è all’inverso, aumentato.  Russia e Cina si stanno muovendo per colmare il vuoto negli scambi e quindi a garantire che l’Iran entri nel loro campo eurasiatico. In termini semplici, Mosca e Pechino stanno rimuovendo la flessibilità dell’Iran per lasciarla orbitare nella loro intesa eurasiatica.
Per quanto riguarda la neutralizzazione della rivalità iraniano, una serie di sanzioni Onu contro l’Iran sono rivolte anche contro l’industria della difesa iraniana e le esportazioni militari iraniane. Questo è un mezzo per eliminare la concorrenza dell’Iran, che ha una industria della difesa in crescita e che produce una vasta gamma di hardware militare, dai carri armati agli aerei militari e ai missili. L’Iran è stata anche cliente dell’esportazione di armi dei paesi NATO, prima delle sanzioni delle Nazioni Unite.
Il riorientamento del commercio e delle relazioni internazionali di Teheran è vantaggioso per la Russia e la Cina. Mentre le banche tedesche come
Commerzbank AG, Dresdner Bank AG e Deutsche Bank AG recidono i legami con l’Iran, il vuoto finanziario viene riempito dalle banche e dagli investitori asiatici. Il settore bancario iraniano è sempre più seriamente coinvolto nei settori bancari di Venezuela, Siria, Bielorussia e di diverse repubbliche ex-sovietiche.
Il passaggio iraniano dall’UE agli stati non-UE e asiatici, è stato anche un obiettivo della politica estera dell’amministrazione di Mahmoud Ahmadinejad. Questa politica estera nuova è definita in Iran come “
guardare verso Oriente.” Con una miscela di sanzioni e politiche di Ahmadinejad, questo cambiamento si riflette nel gravitazione e attrazione dell’Iran verso la SCO, la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), l’Associazione sud-asiatica per la cooperazione regionale (SAARC) e la Comunità economica eurasiatica (EURASEC).

Le differenze tra le relazioni bilaterali Iran-Russia e Cina-Iran
Pechino è il giocatore più importante della Triplice Intesa dell’Eurasia. Il conflitto d’interessi iraniano-cinese è meno acuto di quello tra Mosca e Teheran. In generale, sia Teheran che Mosca danno maggiore priorità e valore ai loro rapporti con la Cina, piuttosto che l’uno con l’altro.
Sia la Russia che l’Iran sono esportatori di energia, mentre la Cina è un importatore di risorse energetiche. I russi e gli iraniani hanno anche interesse a controllare parecchi medesimi mercati. Entrambi hanno un interesse acuto verso il Caucaso meridionale e il controllo dei corridoi energetici attorno al Mar Caspio. Per queste ragioni il Cremlino vuole che l’Iran sia abbastanza forte per sfidare e resistere agli USA e ai suoi alleati, ma non abbastanza forte per sfidare Mosca sull’influenza nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Questo può anche essere usato per spiegare perché Mosca fa pressioni su Teheran per arricchire l’uranio in Russia o in territorio russo, causando tensioni tra Teheran e Mosca col presidente Dmitrij Medvedev.
La Repubblica popolare cinese ha tutto l’interesse per un Iran forte, anche se un forte Iran è ostile verso gli USA. Le relazioni bilaterali iraniano-cinesi sono reciprocamente vantaggiose. Gli strateghi cinesi vedono l’Iran come uno dei quattro centri ri-emergenti del potere globale, gli altri sono Russia, Cina e India. Il Brasile è un emergente (e non ri-emergente), centro del potere. Il 9 aprile 2008, durante una visita a Teheran l’Assistente Ministro degli Affari Esteri cinese, Zhai Jun, ha affermato che un Iran potenza in crescita in Medio Oriente e nel mondo, è nell’interesse di Pechino, mentre incontrava dei funzionari iraniani. [14]

La Fortezza Eurasia è vulnerabile senza l’Iran: Mosca e Pechino hanno bisogno di Teheran
Pechino e Mosca sono entrambi consapevoli delle conseguenze di una grande guerra statunitense contro l’Iran e i suoi alleati in Medio Oriente. I russi sono consapevoli che se l’Iran dovesse cadere, poi gli Stati Uniti e la NATO si concentreranno sulla Russia come prossimo obiettivo nel mirino.
L’Iran è meglio descritta da quello che il geografo e studioso tedesco Georg Stadtmüller ha chiamato, in riferimento ad Albania, un “
Durchgangsland” (stato-cancello). [15] L’Iran è il Durchgangsland nell’ex Unione Sovietica e ventre molle della Russia.
Se l’Iran dovesse spostare la sua orbita, Mosca sarebbe in pericolo. La Russia perderebbe un importante alleato e gli Stati Uniti avrebbero aperto una porta importante sul Mar Caspio, il Caucaso e l’Asia centrale. La porta verso la Russia del “
vicino estero” sarebbe spalancata dall’Iran. L’Iran è anche il percorso ideale e più economico per l’esportazione del petrolio e del gas di queste regioni.
Il complesso militare-industriale russo sarebbe indebolito a causa della chiusura di un mercato redditizio, se l’Iran dovesse inserirsi nelle orbite franco-tedesco e anglo-statunitense. I piani russi in partnership con l’Iran, per creare un potente cartello del gas simile all’OPEC, che coinvolga anche Turkmenistan, Venezuela, Bolivia e Algeria, andrebbe in frantumi. D’altro canto, la Cina è consapevole che la sua sicurezza energetica sarebbe minacciata ulteriormente e l’economia cinese sarebbe ostaggio dei diktat stranieri, a causa del fabbisogno energetico cinese.
A causa di tutti questi fattori, una intesa strategica e tattica è stata avviata con cautela in Eurasia, tra Mosca, Pechino e Teheran. Quello che inizialmente è partito per necessità, è diventato una triplice intesa eurasiatica. Un grande attacco contro l’Iran sarebbe quindi, un attacco alla Russia e alla Cina.

L’Onda verde e i suoi legami con la geo-politica globale
Quindi, tutti questi fattori in gioco, per quanto riguarda l’equazione iraniana, che effetto hanno sull’Onda verde? Nazionalismo, speculazioni geo-politiche, capitali e richieste per le libertà civili, so sonno dovuti confrontare in Iran, gli scontri causati dalle elezioni presidenziali iraniane del 2009, che si ebbero il 12 luglio, sono il risultato di queste dinamiche.
La geo-politica dello scontro tra Eurasia e Periferia si è manifestata per le strade di Teheran e di altre importanti città iraniane, come Tabriz e Shiraz, attraverso i canti dell’Onda Verde. Non solo si sono opposti alla rielezione di Mahmoud Ahmadinejad e hanno accusato la sua parte di brogli con frode nelle elezioni presidenziali, ma hanno accusato la Russia e la Cina.
I loro canti includevano: “
Abbasso la Russia e la Cina!” e “No a Libano e non a Gaza!” I canti di strada dell’opposizione iraniana suggeriscono una correlazione tra i teatri regionali in Medio Oriente (Libano e Territori palestinesi) e il più ampio dei teatri in Eurasia che coinvolge Russia, Cina, Stati Uniti e NATO.
Mahmoud Ahmadinejad ha avuto anche le congratulazioni del presidente russo Dmitrij Medvedev e del presidente cinese Hu Jintao, nella città russa di Ekaterinburg, nel corso di una riunione della SCO, il 16 luglio 2009. Il Presidente Ahmadinejad era arrivato in Russia dopo le elezioni iraniane. Pechino, Mosca e la SCO collettivamente diedero il loro sostegno politico ad Ahmadinejad. Il benvenuto dato ad Ahmadinejad, anche se come osservatore, al vertice di Ekaterinburg mostra l’attaccamento russo e cinese verso i sostenitori della Dottrina Primakov in Iran e nel governo iraniano, oppositori della politica degli Stati Uniti.

Le divisioni interne tra le élites iraniane

Mentre le condizioni di esistenza, in Iran, per il dissenso politico era il potente attore interni in Iran che ha contribuito a scatenarli  dopo la rielezione di Ahmadinejad. In parte, i fatti dietro le rivolte in Iran sono stati alimentati da divisioni interne nella classe dominante in Iran. Mehdi Karroubi, uno dei candidati alla presidenza, aveva anche accennato nel corso dei dibattiti presidenziali, che ci sarebbe stata una lotta post-elettorale.
Queste divisioni sono legate alla “
flessibilità” dell’Iran nella politica degli scacchi per l’Eurasia. Il fatto che l’Iran possa negoziare con gli Stati Uniti nel breve termine, ha un rapporto con le sue divisioni interne. Il carattere pragmatico di alcuni circoli d’elite in Iran, è anche parte di queste divisioni interne.
Dietro le quinte di Teheran, il controllo dei prezzi da parte dello stato, le norme di produzione, la rimozione delle norme sulla privatizzazione, la finanzia ed il settore bancario iraniani, sono state le questioni in gioco. Ampie porzioni delle infrastrutture e dei beni dello Stato sono state vendute e privatizzate. I cittadini iraniani per anni hanno goduto delle sovvenzioni statali, che hanno contribuito a mantenere il prezzo dei prodotti alimentari, combustibili, elettricità e altri beni essenziali a livelli nettamente inferiori ai prezzi internazionali. Il governo iraniano, tuttavia, sta lentamente rimuovendo questi sussidi statali.
La politica crea strani compagni di letto. Nel quadro delle vicende che hanno portato all’Onda verde, c’è stato un faccia a faccia all’interno dell’elite iraniana tra, da un lato chi voleva conservare le attuali politiche, e dall’altro si è formata un’alleanza tra interessi economici e organizzazioni per le libertà civili iraniani. Nel secondo campo del capitale e delle libertà civili iraniano, il primo gruppo si nascose dietro il gruppo di quest’ultimo. Questa alleanza tra capitale iraniano e gruppi che esigono maggiori libertà civili può essere una sorpresa per alcuni, ma non è né una anomalia storica, né politica. Molti movimenti e rivoluzioni sono stati configurati attraverso tali alleanze.
L’opera di Alexis de Tocqueville individua la Rivoluzione francese come una rivoluzione capitalista. L’obiettivo della rivoluzione francese non era quello di distruggere la religione organizzata o lo stato, ma d’imporre una riforma economica, e in particolare l’eliminazione delle restrizioni alla proprietà privata. Nel 1789 questo è stato esplicitamente menzionato nell’articolo Diciassette della
Déclaration des droits de l’Homme et du Citoyen (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino): “La Proprietà è un diritto sacro e inviolabile, nessuno può essere privato di essa, a meno che sia illegale, la necessità pubblica lo esige evidentemente, a condizione di un giusto e prioritario indennizzo.”[16]
Nella sua ricerca per eliminare le restrizioni economiche al capitale francese (interessi economici) si è allineato con la richiesta di maggior libertà individuali e alle idee dell’Illuminismo francese. Sotto il nuovo ordine politico della Rivoluzione francese, i membri della borghesia del Terzo stato abolirono il controllo dei prezzi, furono messe fuorilegge le gilde (i precursori dei sindacati), rimosse le restrizioni sulla produzione, tolti i regolamenti in materia di finanza e banca, soppresso il diritto feudale dei contadini e, infine, stanziati e venduti le terre dello Stato e della Chiesa cattolica romana come proprietà privata.[17] Una massiccia ondata di privatizzazioni consumò la Francia rivoluzionaria. La Rivoluzione francese del 1848 ha anche visto svolgersi lo stesso scenario con una alleanza tra la classe operaia e il piccolo capitale. Questo scenario storico è per molti aspetti pertinente alla situazione attuale in Iran.
Dall’altra parte della divisione c’è il campo politico di Ahmadinejad e dei suoi alleati politici, che comprende sia ferventi ideologi rivoluzionari che interessi economici iraniani. Vogliono che l’Iran sia saldamente radicato all’interno dell’alleanza eurasiatica formata con la Cina e la Russia, o parte di un nuovo ordine regionale in Medio Oriente. La leadership militare dell’Iran, sia nelle Forze Armate regolari iraniane che la Guardia Rivoluzionaria Iraniana, supportano queste posizioni. D’altra parte, Akbak Ali Hashemi Rafsanjani, i suoi alleati, e molti dalle elite affaristiche dell’Iran, vogliono un corso più opportunistico o pragmatico per l’Iran, come nel caso dell’India. Quest’ultimo gruppo di cui Rafsanjani fa parte, inoltre, neanche desidera che la finestra di tempo per i negoziati con gli USA e l’UE passi.
Rafsanjani è un individuo molto ricco, un ex presidente iraniano e una potente figura politica. E’ presidente sia del Consiglio del Discernimento iraniano, nonché dell’Assemblea degli Esperti. Egli personifica il capitalismo iraniano e gli interessi delle élite economiche iraniane. Tra i suoi alleati vi è Mohammed Khatami, il presidente iraniano dal 1997 al 2005. Rafsanjani e i suoi alleati vogliono che l’economia iraniana sia de-regolamentata; si abbracci l’economia neo-liberista e desidera che l’economia iraniana sia  pienamente integrata nell’economia globale. Questo campo è anche disposto a lavorare contro gli interessi russi e cinesi, se ciò lo beneficia. Anche se la privatizzazione delle industrie nazionali e del patrimonio statale dell’Iran è continuato nel secondo mandato di Mahmoud Ahmadinejad, è stato inizialmente portato avanti da Rafsanjani, Khatami e dai loro alleati durante il mandato di Khatami come presidente.

In questo divario tra la classe dirigente iraniana, i sostenitori delle libertà civili  sono invischiati e sono anche usati come carte da gioco. Queste persone hanno affollato il fronte di Mir-Hussein Mousavi, l’ultimo primo ministro in carica dell’Iran, prima che l’ufficio fosse assorbito nella carica del presidente iraniano. Sia Rafsanjani che Khatami, hanno anche dato il loro sostegno a Mousavi. Maggiori libertà civili o i risultati delle elezioni potrebbero essere preoccupazione per molti dei manifestanti, ma per la maggior parte delle élite dominanti ciò che è in gioco è molto diverso.
Il divario all’interno della élite politico iraniana ha causato una frattura politica a Teheran. Entrambe le parti si accusano l’un l’altro pubblicamente di corruzione. Sulla televisione pubblica iraniana, un esempio notevole c’è stato durante i dibattiti presidenziali iraniani, quando Ahmadinejad ha accusato Rafsanjani e la sua famiglia di alto tradimento e corruzione. Ci sono state anche notevoli tensioni nella Banca centrale iraniana (CBI), l’opposizione ha sostenuto che la Banca centrale e le banche non dovrebbero essere subordinati al controllo politico.

Vi sono  minacce di guerra dirette al Medio Oriente o presso l’Heartland eurasiatico?
I realisti della politica estera statunitense e i  pragmatici iraniani hanno lavorato per colmare il divario tra gli Stati Uniti e l’Iran e giungere ad un accordo tra Washington e Teheran. Eppure, gli Stati Uniti e l’Iran hanno entrambi alleati che si oppongono a questo. Sebbene Tel Aviv serve agli interessi USA in Medio Oriente, è contro gli interessi d’Israele un riavvicinamento iraniano-statunitense e questo è il motivo per cui ci sono state reazioni ostili da parte delle lobby degli interessi israeliani. Anche alcuni governanti arabi temono che l’avvicinamento statunitense-iraniano possa portare gli Stati Uniti a non opporsi a un Iran che rimuove dal potere questi leader arabi. A causa dei loro interessi, Mosca e Pechino, sono anch’essi contrari ad una partnership strategica tra Stati Uniti e Iran.
La geo-strategia degli Stati Uniti in Eurasia è fondata su una base esigua, e le élite degli USA hanno investito troppo in essa, tra cui la configurazione dell’economia degli Stati Uniti, per vederla crollare. È per questo che la situazione è ancora più critica. Individui disperati possono prendere misure frettolose, imprudenti e molto disperate.
Molti pretesti simultanei per una guerra contro l’Iran e i suoi alleati regionali in Medio Oriente sono stati accuratamente tracciati e preparati dalla Casa Bianca e al numero 10 di Downing Street. Ciò fa parte di una accuratamente predisposta dimostrazione per un ampio conflitto regionale in Medio Oriente che si svolgerebbe su un’area che si estende dalla costa del Mediterraneo orientale alle montagne e alle valli dell’Afghanistan.
La mossa di Washington di etichettare la Guardia Rivoluzionaria come organizzazione terroristica fa parte del processo di preparazione dei pretesti e delle giustificazioni per una guerra e per dei crimini di guerra. Questo non è solo una parte dell’approccio stilizzato per demonizzare i nemici, la cosiddetta “
Guerra globale al terrore”. La Convenzione di Ginevra e le leggi di guerra sarebbero  sospese, in quanto riguarda una futura guerra che coinvolgerebbe la Guardia rivoluzionaria iraniana. Inoltre fornirebbe un pretesto per un attacco degli USA contro l’Iran, col pretesto di combattere la “Guerra globale al terrore.” A causa di questa etichetta, il governo statunitense ha cominciato a sostiene che  Teheran ospita una organizzazione terroristica, come parte della sua campagna di disinformazione contro l’Iran. La campagna per isolare finanziariamente e imporre sanzioni all’Iran fa parte anch’essa di tutto ciò.
La dottrina militare iraniana è di natura difensiva, il che non significa che l’Iran non sia in grado di reagire. L’Iran ha notevole forza militare. Come nazione, l’Iran può infliggere perdite significative agli Stati Uniti e alle forze alleate. Ha la capacità di respingere gli attacchi degli Stati Uniti, salvo nel caso di un attacco nucleare massiccio. Nel corso della campagna elettorale del 2008, una delle principali figure politiche dell’Iran, Ali Larijani, ha dichiarato che un attacco statunitense contro l’Iran, che riteneva remota, non solo sarebbe un azzardo, ma sarebbe la causa di una grande sconfitta statunitense in Medio Oriente. Sarebbe anche la fine dello stato degli Stati Uniti come potenza globale. Il primo ministro siriano Al-Otri (Al-Utri), aveva anche lui lasciato intendere che un attacco israeliano contro l’Iran minerebbe lo status di Israele di importante potenza del Medio Oriente, così come segnerebbe la fine del progetto sionista.
L’Iran e i suoi alleati hanno messo smantellato quello che loro chiamano la guerra psicologica e focalizzato il pericolo imminente di un attacco statunitense, dicendo che gli Stati Uniti non sono in grado di eseguire un attacco del genere. Teheran, tuttavia, non ha escluso che operazioni di destabilizzare dell’Iran o  un attacco statunitense o israeliano, in particolare contro la Siria e il Libano. Voci ufficiale di Teheran hanno anche messo in guardia, più volte nel corso del 2010, che si aspettano attacchi contro i loro alleati arabi.
Quanto della marcia verso la guerra fa parte di una tattica di intimidazione o di una cortina fumogena, e quanto è reale? Per inciso, c’è una foschia in relazione ai rapporti internazionali, ma è innegabile che ci sono dei preparativi di guerra che vengono compiuti in tutta l’Eurasia. Lo scudo antimissile USA è una testimonianza a questo. Inoltre, gli iraniani e i loro alleati sono convinti che l’Iran non sarà attaccato. Ci sono anche segni che possono essere letti anche come un passo verso la creazione della distensione, le discussioni tra gli Stati Uniti e Iran sull’Iraq, la cooperazione turco-iraniana, l’impegno verso la Siria da parte dell’Unione europea e degli USA, il miglioramento dei legami tra la Siria e il Libano guidato dal movimento 14 Marzo di Hariri, e il riconoscimento pubblico dell’Iran, da parte del governo degli Stati Uniti, quale attore importante nella stabilizzazione dell’Afghanistan. Tutto ciò, però, potrebbe essere utilizzato in congiunzione con la politica degli Stati Uniti di perseguire gli obiettivi propri e dei suoi alleati, per controllare l’Eurasia. Il tempo lo dirà.


Note
[1] Halford J. Mackinder, Britain and the British Seas (Westport, Connecticut: Greenwood Press Publishers, 1969), p.309.
[2] Ibid.
[3] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and the Geostrategic Imperatives (NYC, New York HarperCollins Publishers, 1997), p.204. [4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] Mahdi Darius Nazemroaya, “The Sino-Russian Alliance: Challenging America’s Ambitions in Eurasia”, Centre for Research on Globalization (CRG), August 26, 2007.
[9] Ibid.

[10] Zbigniew Brzezenski, Out of Control: Global Turmoil on the Eve of the 21st Century, (NYC New York: Charles Scriber’s Sons, 1993) p.162.
[11] Ibid.
[12] European Commission, Bilateral Relations with Iran, 2004 Statistics.
[13] Ibid.
[14] “Iran proposes forming Asian union”, Tehran Times , April 10, 2008, p.2.
[15] Georg Stadtmüller, “Landschaft und Geschichte in Albanisch-epirotischen Raum”, Revue Internationale des Études Balkaniques, vol. 3 (1937-1938): pp.345-370.
[16] Frank Maloy Anderson ed., The Constitution and Other Select Documents Illustrative of the History of France, 1789-1907 (NYC, New York: Russell and Russell, 1908), pp. 59-61.

[17] Alexis de Tocqueville, The Old Regime and the French Revolution, trad. Stuart Gilbert, (NYC, New York: Anchor Books, [1856] 1955).


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/



Una pace possibile?

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Da alcune settimane circola la notizia che sarebbero in corso delle trattative tra il governo di Karzai e alcuni esponenti di spicco dei taliban per decidere il futuro dello Stato afghano.

Nonostante le smentite giunte dai taliban, i quali parlano di un’azione di mera propaganda tesa a scalfire il morale delle loro truppe, i contatti sono stati instaurati e si procede ormai, in maniera sempre più spedita, verso un negoziato che coinvolga i diversi attori in gioco.

Risale allo scorso 10 ottobre la notizia che il governo afghano aveva intavolato dei negoziati con alcune fazioni talebane. È stato lo stesso capo del governo, Hamid Karzai, a darne notizia in diretta televisiva, in un’intervista concessa alla CNN.

Non si tratta di contatti ufficiali e regolari con i talebani, ma piuttosto di contatti personali non ufficiali che vanno avanti da diverso tempo”, si è subito affrettato a precisare Karzai.

Accolto positivamente dalla comunità internazionale, questo è certamente uno dei passi più importanti intrapresi da Karzai da quando è al governo.

In passato, il capo dell’esecutivo afghano aveva optato per un approccio differente che si è dimostrato del tutto inefficace ai fini di una risoluzione dei problemi del Paese.

La jirga convocata lo scorso giugno ne è un esempio. Più che le 1600 personalità presenti, a spiccare erano soprattutto gli assenti e da varie parti erano giunte critiche nei confronti di questo approccio scarsamente inclusivo e destinato dunque al fallimento.

L’inizio del ritiro delle truppe straniere dal territorio afghano è previsto per il prossimo luglio e urge affrettare i tempi e adottare misure radicali.

La logica che sta dietro gli avvenimenti delle ultime settimane è abbastanza chiara: si vuole fare in modo che il ritiro dall’Afghanistan avvenga in condizioni tali da evitare un’archiviazione della missione come un totale fallimento operativo e strategico.

Questi ultimi mesi hanno visto un intensificarsi delle operazioni sul campo ed un uso sempre più massiccio dei droni per attaccare le roccaforti dei taliban nelle regioni tribali pakistane.

Vi sono stati anche casi di attacchi effettuati con elicotteri d’assalto sul territorio pakistano. Proprio uno di questi, lo scorso 27 settembre, ha provocato le aspre critiche dell’establishment di Islamabad, il quale si è scagliato contro l’azione delle truppe ISAF che non sarebbero autorizzate ad operare al di fuori dei confini afghani. In tale occasione, il governo pakistano ha ordinato la chiusura della maggiore via di rifornimento delle truppe stanziate sui territori orientali dell’Afghanistan, il cosiddetto Khyber Pass, bloccando di fatto, per i seguenti 10 giorni, gran parte dei cargo diretti verso Kabul.

La netta presa di posizione delle autorità pakistane appare più un tentativo di evitare un’ulteriore alienazione di consensi interni che una sincera difesa della sovranità statale.

Basti qui ricordare come già nel 2008, in seguito ad un raid delle US Special Operations Forces sul suolo pakistano, il Generale Kayani, avesse espresso il suo disappunto e ribadito per l’ennesima volta che non esisteva alcun accordo tra il governo pakistano e quello americano che permettesse alle truppe a stelle e strisce di condurre operazioni ad est del confine afghano.

Gli attacchi sono invece proseguiti e sorge dunque il sospetto che tra gli Stati Uniti e il Pakistan ci sia un’intesa in tal senso. E qualcosa comincia a trapelare.

Lo scorso febbraio Dianne Feinstein, presidentessa della Commissione di Intelligence del senato statunitense, svelò che i drone utilizzati per stanare i taliban nelle regioni tribali a confine con l’Afghanistan partivano proprio da una base sul territorio pakistano.

In quell’occasione, il primo ministro Gilani negò che potesse trattarsi della base aerea di Shahbaz e affermò che avrebbe investigato circa l’utilizzo, da parte delle truppe statunitensi, della base di Shamsi, situato nella regione del Baluchistan.

Tuttavia, già agli inizi del 2009, il Times aveva fatto trapelare la notizia che, stando a rilevazioni satellitari, sarebbe proprio quello il luogo da cui sarebbero partiti molti dei 184 attacchi che dal 2004 hanno colpito soprattutto le Federally Administered Tribal Areas.

Gilani ha affermato che effettivamente ci sarebbe un accordo tra Pakistan e Stati Uniti, ma che questo permetterebbe solamente l’effettuazione di voli di sorveglianza e ricognizione sullo spazio aereo pakistano. Nulla a che fare con attacchi missilistici.

Lo stesso primo ministro avrebbe inoltre criticato il Generale Musharaff, reo, a suo dire, di aver firmato tale accordo a spese della strenua difesa della sovranità statale.

Si tratterebbe dunque di una serie di abusi commessi dalle truppe statunitensi e sino ad ora tollerati dalle autorità pakistane. La realtà però appare differente.

Resta dunque da comprendere la strategia degli attori in campo e cercare di utilizzare gli indizi a disposizione per elaborare delle ipotesi circa gli scenari futuri del conflitto afghano.

Negli ultimi mesi, le truppe pakistane sono state molto attive in alcune delle agenzie costituenti le cosiddette FATA. L’obiettivo principale degli attacchi è rappresentato dal Tehrik-i-Taliban ossia, quei taliban di nuova generazione che tanti problemi stanno causando alle autorità di Islamabad.

Durante le operazioni, sono stati catturati anche membri di medio rango appartenenti alla rete di Al-Qaeda.

Nel febbraio scorso, è stato inoltre catturato il Mullah Baradar, numero due della shura di Quetta e dunque membro di spicco dei taliban afghani.

Molto si è discusso circa la sua cattura. Da più parti è trapelato che si sia trattato di un “errore” e che l’ISI (Inter-Services Intelligence) non fosse a conoscenza della presenza di Baradar. L’operazione condotta a Karachi non aveva quindi lui come obiettivo.

In passato ci sono stati diversi casi di personalità di spicco catturate e rilasciate pochi giorni dopo dall’intelligence pakistana. Tuttavia, il Mullah Baradar era una personalità troppo importante ed un suo eventuale rilascio avrebbe suscitato aspre polemiche.

Secondo altre fonti invece, l’arresto del numero due dei taliban aveva una logica diversa. L’obiettivo sarebbe stato quello di eliminare dalle scene un personaggio scomodo. Lo scopo dell’ISI sarebbe stato quello di punire il Mullah in quanto colpevole di aver intavolato dei negoziati col governo afghano, senza averne prima dato avviso alle autorità dell’intelligence pakistana.

Questa seconda ipotesi parrebbe piuttosto sconvolgente, ma non farebbe che confermare il ruolo attivo giocato dall’ISI sullo scacchiere afghano.

La notizia della liberazione del Mullah Baradar è apparsa lo scorso 16 ottobre sul giornale pakistano Daily Times secondo cui questa mossa andrebbe letta nell’ambito del dialogo avviato dal governo di Karzai con i talibans.

La liberazione di Baradar deriverebbe dunque dalla volontà di facilitare i futuri negoziati e costituirebbe un’ulteriore prova di quanto sia imprescindibile un coinvolgimento del Pakistan ai fini del buon esito degli stessi.

Il primo ministro Gilani, sempre in occasione dell’intervista rilasciata al quotidiano pakistano Dawn avrebbe sottolineato l’importanza di un ruolo attivo del Pakistan nei futuri negoziati, ribadendo come Islamabad costituisca una preziosa risorsa più che una fonte di problemi.

Il governo pakistano ha diversi assi nella manica e pare sia giunto il momento di tirarli fuori e giocarseli nel migliore dei modi.

La relazione privilegiata che intercorrerebbe tra l’ISI ed i vertici della shura di Quetta e della rete degli Haqqani rappresenterebbe la maggiore arma a disposizione del Pakistan.

Sebbene le autorità pakistane abbiano sempre negato ogni possibile collusione, ci sarebbero diverse prove e dichiarazioni che testimonierebbero il contrario.

La reticenza dell’esercito pakistano ad avviare operazioni nel Nord Waziristan nonostante le pressioni statunitensi sarebbe solo uno degli indizi che testimonierebbero l’esistenza di tale relazione.

Da molte parti, all’interno del paese, si sente dire che se ciò fosse vero, non sarebbe altro che un modo di perseguire un legittimo interesse nazionale.

Stanco dell’ostilità mostrata dai vari governi che si sono succeduti in Afghanistan prima dell’ascesa dei taliban, l’establishment pakistano vorrebbe evitare che ciò riaccada una volta che le truppe straniere avranno abbandonato il terreno di battaglia.

Il concetto di strategic depth applicato al territorio afghano rappresenta ancora un caposaldo della strategia militare pakistana e costituisce un’ulteriore prova di quanto Islamabad sia condizionata, in politica estera ma anche in quella domestica, dalla forte ostilità con l’India.

Il Pakistan ha accolto con una certa soddisfazione gli ultimi disordini che hanno scosso il Kashmir e sta tentando, ancora una volta, di inserire la questione kashmira nell’agenda della comunità internazionale. “Il Kashmir scorre nelle nostre vene”, affermava Musharraf pochi anni or sono ed è dunque evidente come un eventuale riavvicinamento tra i due vicini Stati nucleari, non possa prescindere da una soluzione di questa questione.

Le ultime dichiarazioni del portavoce del Dipartimento di Stato americano Philip Crowley non lasciano presagire evoluzioni rilevanti. Egli si è detto infatti preoccupato per i disordini, ma ha anche ribadito che tale questione deve essere risolta sulla base di negoziati bilaterali.

Aspettando che nuove indicazioni giungano dal viaggio che il prossimo novembre, il Presidente Barack Obama effettuerà in India, gli Stati Uniti stanno cercando di mettere sul piatto altre carte.

Nell’incontro tenutosi il 22 ottobre tra il Segretario di Stato Hillary Clinton ed il ministro degli esteri pakistano Mahmood Qureshi, si è parlato della possibilità di stringere un accordo che permetta al Pakistan di accedere alla tecnologia utile per il nucleare civile, riducendo così la sua dipendenza dall’importazione di gas e petrolio.

Inoltre, gli Stati Uniti hanno proposto un piano quinquennale di aiuti militari che si aggirerebbe intorno ai 2 miliardi di dollari. Pare che dietro questa offerta ci sia la volontà di rafforzare la presenza della CIA sul territorio pakistano, ipotesi sino ad oggi osteggiata dal governo di Islamabad, ma soprattutto dall’intelligence pakistana.

La trama dunque si infittisce e gli attori in campo cercano di accrescere il loro potere negoziale in vista dei negoziati.

Obiettivi divergenti si scontrano con la necessità di porre fine ad un conflitto che dura ormai da oltre 9 anni.

Sul terreno di battaglia si continua a combattere e il frastuono provocato dalle armi è forte più che mai.

Attendiamo dunque che scenda copiosa la neve a nascondere il sangue che scorre per le strade afghane e ad ostruire le vie di passaggio, costringendo le parti ad una tregua forzata. È proprio allora che l’High Peace Council dovrebbe avviare dei negoziati formali con i vari gruppi coinvolti nei combattimenti e l’unica cosa che possiamo prevedere è che si tratterà di un compito tutt’altro che semplice.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore, e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

Il Mediterraneo e la prospettiva eurasiatica

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Giovedì 28 ottobre alle ore 16.00 e venerdì 29 ottobre alle ore 9.30 si sono tenuti a Enna, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Kore”, i seminari “Il Mediterraneo e la prospettiva eurasiatica”, con relatore Tiberio Graziani, direttore della rivista “Eurasia”. L’organizzazione è stata a cura dell’Università “Kore” di Enna.

I rapporti tra hindu e musulmani in India

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La “creazione” della rivalità tra Hindu e Musulmani

Il passaggio della questione dei rapporti tra Hindu e Musulmani in territorio indiano da dato di fatto a problema politico può essere fatto risalire al momento in cui nel Subcontinente indiano si cominciò a riflettere sull’idea di “nazione”.

A metà dell’Ottocento l’immenso territorio che andava da Peshawar, a nord, a Colombo, a sud, fino all’attuale Myanmar, ad est, era un possedimento britannico, interrotto solo da alcune aree, formate dagli stati indiani indipendenti. La grande rivolta del 1857 era stata da poco sedata, la Corona aveva assunto il controllo diretto dell’India, sostituendosi nel governo del “gioiello della Corona” alla compagnia mercantile East India Company, quando il governo coloniale cominciò ad indagare sulla composizione sociale dei propri sudditi, istituendo un sistema di rilevazioni censuarie che, a partire dal 1871, classificò gli abitanti dell’India in base alla loro appartenenza religiosa e castale. Questi criteri vennero applicati anche al reclutamento e alla promozione nell’ambito della burocrazia coloniale, un meccanismo che il Raj britannico giustificava come volto a tutelare i gruppi più deboli e minoritari, mascherando l’effettiva intenzione di frammentare la società indiana in gruppi che potessero essere facilmente messi in concorrenza tra loro, al fine di indebolire legami di solidarietà politica e omogeinizzazione sociale che potessero condurre alla formazione di un eventuale fronte anti-britannico.

Il criterio di classificazione linguistica venne trascurato dal governo coloniale – poiché avrebbe condotto alla formazione di gruppi omogenei, spalmati su grandi porzioni di territorio –, fuorché in un caso: quello delle lingue hindi e urdu.

Queste due lingue – oggi gli idiomi rispettivamente di Unione Indiana e Pakistan – non esistevano in questa forma fino a fine Settecento. Non esisteva, cioè, questa classificazione, essendo all’epoca l’India del nord un luogo dal panorama linguistico variegato e perlopiù caratterizzato dall’oralità, in cui l’identità della lingua era definita da relatività e relazionalità e in cui, semmai, “la linea di demarcazione più netta […] era quella tra idioma o idiomi delle città e idioma o idiomi delle zone rurali. Nelle città, ove più forti erano i legami economici, culturali e amministrativi con le corti, prevaleva la tendenza alla persianizzazione della lingua, mentre nelle campagne si registrava il forte influsso degli idiomi regionali.”1

Fu il regime coloniale a introdurre il “problema della lingua”, applicando anche a questo settore della civiltà indiana la propria volontà classificatrice, sovra-imponendo nuovi nomi e categorie e sostituendoli alle costruzioni di carattere locale, vivisezionando il corpo della società indiana ed istituzionalizzandone la scomposizione; fine ultimo di questi processi era lo smantellamento di uno dei fondamenti della civiltà indiana, quello dell’unità e dell’integrazione delle varie parti nel tutto, e – di conseguenza – l’imposizione del proprio potere. Nel corso dell’Ottocento, dunque, andò cristallizzandosi nell’India del nord la dicotomia linguistico-religiosa fra lingua degli Hindu, la hindi scritta in alfabeto devanagari, e lingua dei Musulmani, l’urdu-hindustani scritta in alfabeto persiano.

Ma, come si è detto, quello della lingua non fu che uno dei campi in cui il regime britannico mise in atto la propria opera di progressivo smembramento sociale che, tra gli altri, ebbe l’effetto di contrapporre gli Indiani di fede hindu a quelli di fede musulmana; inaugurata dal Raj, questa politica poi si estese ben oltre i cancelli del potere coloniale, per diventare parte integrante delle menti e delle narrazioni delle élite indiane occidentalizzate, che avrebbero guidato il movimento nazionalista e in seguito ereditato il governo dell’India indipendente.

L’idea di Pakistan e la Partizione

L’estate del 1947 non fu come le altre estati indiane. Quell’anno persino il tempo, in India, sembrava diverso. Faceva più caldo del solito, e tutto era più secco e polveroso. E l’estate durò più a lungo. Nessuno ricordava un’epoca in cui i monsoni erano giunti con tanto ritardo. Per settimane, le nubi produssero solo ombre. Niente pioggia. La gente cominciò a dire che Dio li stava punendo per i loro peccati.

Alcuni avevano buone ragioni per ritenere di aver peccato. L’estate precedente a Calcutta erano scoppiati disordini scatenati dalle notizie della imminente divisione del paese in un’India hindu e in un Pakistan musulmano, e nell’arco di pochi mesi il numero dei morti era stato nell’ordine di svariate migliaia…”

Khushwant Singh, Quel treno per il Pakistan2

Fu proprio all’interno del movimento nazionalista che prese lentamente forma l’idea di Pakistan. Inizialmente la “Terra dei puri” (questo il significato letterale di “Pakistan”) non era tra i sogni della All India Muslim League e del suo fondatore, il giovane avvocato laico e progressista Muhammad Ali Jinnah. Tuttavia, il primo trentennio del Novecento – denso di avvenimenti che pesarono enormemente sulla storia indiana – favorì l’incubazione dell’idea che Hindu e Musulmani indiani dovessero avere due nazioni distinte. Un’idea che fu il prodotto non solo del comunitarismo musulmano, ma anche del nazionalismo hindu (un’ideologia che considerava sinonimi i termini “hindu” e “indiano”, immaginando l’India indipendente come patria degli Hinduisti) e delle politiche attuate dal governo coloniale. Il risultato di queste forze fu la Partizione tra India e Pakistan, che ebbe luogo al momento dell’indipendenza, nell’agosto del 1947.

La Partizione si risolse nell’esodo di circa quindici milioni di persone, Musulmani indiani in viaggio verso il neonato Pakistan e, viceversa, Hindu che si spostavano in India dalle regioni del nord, ora appartenenti al Pakistan. Il massacro ebbe proporzioni enormi, causando la morte – secondo le stime più ottimistiche – di circa 500mila persone e scatenando una serie infinita di violenze e rappresaglie nell’India intera. La popolazione musulmana indiana, che prima della Partizione ammontava a circa il 24% della popolazione totale, venne ridotta a meno del 10%, perlopiù rurale e privata della propria élite intellettuale ed economica – ormai quasi interamente trasferitasi in Pakistan.

I Musulmani indiani, dunque, si trovarono dal 1947 in poi in una condizione fortemente svantaggiata: in minoranza sia dal punto di vista numerico che da quello sociale, economico ed intellettuale, nonché privati dell’appoggio loro garantito in passato dal regime coloniale, il quale – pur con il fine di inasprire i rapporti tra Hindu e Musulmani – aveva comunque concesso ai secondi una certa protezione.

Tuttavia, dopo la Partizione e per tutto il periodo nehruviano (1947-64) i rapporti tra le due comunità furono pacifici, una conseguenza tra le altre del pensiero e dell’opera di governo di Nehru, attento a preservare la laicità dello stato indiano e a non imporre al proprio Paese un’identità unica e fissa, salvaguardandone invece le molteplici diversità e la tipica varietà di appartenenze (religiosa, castale, economica, etnica, linguistica…).

Il dopo-Nehru e l’inasprimento dei rapporti hindu-musulmani

Le provocazioni tra le due comunità ricominciarono a metà degli anni Sessanta, secondo procedure secolari e ormai fisse, consistenti nella deliberata profanazione da parte di una o dell’altra comunità di uno dei simboli più cari alla tradizione religiosa della comunità “rivale”; profanazione che, tipicamente, conduceva e conduce a scoppi di feroce violenza, rappresaglie a catena, distruzioni e violazioni di ogni sorta.

I disordini del 1964 furono scatenati dal furto di una reliquia del Profeta – un pelo della sua barba – da una moschea di Srinagar, in Kashmir, dove era conservata. Mentre gli Hindu perseguitati in Pakistan si riversavano in India come rifugiati, nelle città indiane imperversava la rappresaglia anti-musulmana, tanto efferata da sconvolgere tutto il Subcontinente. Nel 1969 ad Ahmedabad, in Gujarat, i morti furono più di un migliaio.

Se non ne furono certamente la conseguenza diretta, questi episodi ebbero in qualche modo una relazione con il momento storico-politico in cui si svolsero e furono sentore della svolta che avrebbe investito la politica indiana. Era questo, infatti, un periodo in cui la grandezza del partito del Congresso – che, attraverso figure come Nehru e Gandhi, aveva guidato il Paese verso l’Indipendenza – già sfumava. Agli ideali universalisti su cui Nehru aveva costruito il proprio governo si sostituiva, lentamente ma inesorabilmente, la tentazione di utilizzare le diverse appartenenze delle varie comunità a fini politici – un metodo che tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta avrebbe trovato in Indira Gandhi la teorica principale e che, poco dopo, avrebbe aperto le porte della scena politica indiana a formazioni dalle retoriche sempre più costruite sui particolarismi (prima tra tutte, il partito della destra nazionalista hindu “Bharatiya Janata Party”, il BJP).

Un tassello importante della storia dei rapporti tra Hindu e Musulmani è rappresentato da una vicenda giudiziaria, che attirò l’attenzione dell’India intera a partire dal 1985: il “caso Shah Bano”. Shah Bano era un’anziana signora di fede musulmana, che il marito ripudiò tramite la procedura, prevista dal codice musulmano, del triplo talaq, ovvero la ripetizione per tre volte della frase “ti ripudio”. Privata in questo modo di ogni fonte di sostentamento, Shah Bano si appellò al codice di procedura penale, affinché le venisse riconosciuto il diritto ad una cifra mensile per il suo mantenimento; ottenne ragione dalla Corte, che deliberò in modo contrario a quanto previsto dal diritto di famiglia musulmano.

Questa decisione, per di più adottata da un giudice hindu, scatenò le proteste di buona parte dei Musulmani indiani, indignati per quell’intromissione. Shah Bano dovette rinunciare “volontariamente” alla pensione che le era stata riconosciuta come diritto e Rajiv Gandhi – Primo Ministro dopo l’assassinio della madre Indira – annullò il giudizio della Corte attraverso una legge ad hoc: il Muslim Women (Protection of Rights) Bill, del 1986, stabilì che ai Musulmani non venisse imposto l’obbligo di concessione degli alimenti dopo una separazione, e che potessero provvedere autonomamente – attraverso le istituzioni caritative musulmane – alle necessità delle donne ripudiate. Questa legge, creata dal governo nazionale con l’ovvio intento di non alienarsi le simpatie della comunità (e quindi dell’elettorato) musulmana, denuncia due gravi falle, una di carattere generale e una specifica invece del sistema congressista del tempo. In primo luogo, tramite questo provvedimento il governo calpestò un diritto delle donne, anteponendovi la necessità di preservare – a parole – una “tradizione” e – nei fatti – le proprie esigenze elettorali: cioè, in ogni caso, un potere maschile di qualche tipo. In secondo luogo, esso dimostrò ancora una volta l’abitudine ormai sedimentata del ricorrere, per fini politici, ai particolarismi, distribuendo favori e privilegi all’una o all’altra comunità (o gruppo castale, o minoranza etnica…), invece di invocare diritti universali per l’intera popolazione indiana. Paradossalmente, il successo del Congresso a livello panindiano era ormai del tutto dipendente dal modo in cui esso riusciva a coccolare i particolarismi, i campanilismi, i provincialismi dei vari sotto gruppi che componevano lo sfaccettato popolo indiano.

La rielaborazione della tradizione in chiave hindu-nazionalista: l’episodio della moschea di Ayodhya

Fu sempre intorno alla metà degli anni Ottanta che emerse un’altra spinosissima questione, la cui eco risuona ancora oggi.

Dal 1984 il nazionalismo hindu rimise mano all’antica rivendicazione del sito di Ayodhya (in Uttar Pradesh), considerato luogo di nascita del dio Ram (Ram Janm Bhumi) e, dal XVI secolo, sede di una moschea, la Babri Masjid, che all’epoca sarebbe stata edificata sulle rovine di un tempio dedicato a Ram e deliberatamente profanato. Poco dopo la Partizione, il governo dell’Uttar Pradesh aveva dichiarato la moschea e i suoi dintorni “area contesa”, impedendovi l’accesso sia a Musulmani che a Hindu.

Nel 1986 Rajiv Gandhi cominciò a prendere provvedimenti per la riapertura del sito religioso, facendo approvare ad un tribunale compiacente una sentenza, che aprì ai soli Hindu il culto all’interno dei confini della Babri Masjid. Questo provvedimento e quello sul caso Shah Bano dovevano comporre, negli intenti di Rajiv Gandhi, una sorta di “pacchetto” che accontentasse entrambe le comunità.

La sentenza sulla Babri Masjid scaldò ulteriormente gli animi alla destra hindu radicale, che cominciò più o meno velatamente ad auspicare che la moschea venisse “rimossa”, per far posto ad un tempio dedicato a Ram, cui quel sito – sostenevano – spettava di diritto. Nonostante non esistessero prove di questo e un tempio hindu che sorgeva in quel luogo fosse stato abbattuto mille anni prima della conquista musulmana dell’India, le masse hindu si aggregarono ingenuamente alle richieste degli estremisti, lasciandosi coinvolgere in una serie di agitazioni sempre più violente ed andando ad ingrossare le fila dei sostenitori del partito nazionalista hindu BJP, favorito anche dall’assassinio di Rajiv Gandhi, nel 1991.

Il 6 dicembre 1992 una massa di Hindu si accanirono sulla Babri Masjid, radendola letteralmente al suolo in poche ore, mentre in tutto il Paese si compivano giganteschi pogrom anti-musulmani, ai quali i Musulmani risposero con uguale efferatezza, in una escalation di violenza che venne sedata solo nel marzo dell’anno dopo.

La questione dell’appartenenza hindu o musulmana del sito di Ayodhya riaffiorò nel 2002, nello stato del Gujarat – a ridosso delle elezioni regionali, previste in quello stato per il 2003, e di quelle nazionali del 2004.

Il BJP sfoderò ancora una volta l’arma Babri Masjid-Ram Janm Bhumi a fini elettorali, insistendo sul progetto di costruzione di un tempio hindu al posto della moschea distrutta dieci anni prima – ma i tribunali lo impedirono, e questo accese gli animi dei nazionalisti hindu gujarati.

Il 27 febbraio di quell’anno, un treno su cui viaggiavano i nazionalisti hindu di ritorno da un pellegrinaggio ad Ayodhya – che per tutto il percorso e nelle stazioni avevano scandito slogan e provocazioni anti-musulmani – venne fermato nel quartiere musulmano della città di Godhra; un incendio divampò in uno dei vagoni, provocando la morte di cinquantasette pellegrini hindu. Questo fornì il pretesto per il dilagare della violenza anti-musulmana in tutto il Gujarat, dove le vittime furono circa duemila, i feriti migliaia e migliaia, i rifugiati 125mila, i luoghi di culto distrutti oltre cinquecento, in una furia che ricordava il tentativo di pulizia etnica dei tempi della Partizione e che denunciava una buona dose di premeditazione a livello del governo regionale gujarati.

Grazie ai disordini, in Gujarat le elezioni furono anticipate alla fine del 2002, garantendo al BJP una vittoria alla quale difficilmente avrebbe potuto aspirare, solo un anno prima.

Con le elezioni generali del 2004, che riportarono al governo una coalizione di centro-sinistra guidata dal Congresso, la antica questione Babri Masjid-Ram Janm Bhumi venne di nuovo sopita. Ma quello che ormai è divenuto il simbolo dei conflitti fa Hindu e Musulmani in India doveva tornare agli onori della cronaca; in questo caso, non per essere stato il pretesto di nuovi massacri.

Il 30 settembre 2010, tre giudici dell’Alta Corte di Allahabad hanno emesso il tanto atteso verdetto sul sito di Ayodhya, destinato a decidere una volta per tutte l’appartenenza originale e l’utilizzo futuro di quel terreno conteso. Il verdetto – articolato in migliaia di pagine – stabilisce, tra le altre cose, che “il sito oggetto della contesa è il luogo di nascita del Signore Ram”; che “l’edificio oggetto della contesa fu costruito da Babur; l’anno non è certo, ma fu costruito contro i dettami dell’Islam. Dunque, non può avere il carattere di una moschea”; che “la struttura oggetto della contesa fu edificata sul sito di una vecchia costruzione, dopo che quest’ultima fu demolita. L’Archaeological Survey of India ha provato che quella struttura era un grande edificio religioso hindu”; che “le tre parti – i Musulmani, gli Hindu e Nirmoi Akhara [una setta hindu, NdA] – sono designate come i tre proprietari congiunti del sito in questione… nella misura di un terzo, da utilizzarsi a scopi di culto.”3

Il sospetto è che il verdetto – accolto con tiepido entusiasmo da alcuni, con aperta delusione da altri (“It’s no-one victory, no-one defeat”, ha commentato il leader del movimento estremista hindu RSS), con timore e prudenza dal governo centrale –, pur cercando un ragionevole compromesso, non risolva in nessun modo l’antica querelle. Che, come sempre in casi simili, non è (o non è solo) religiosa, ma ha a che fare con più profonde questioni identitarie.

Non convince l’ipotesi di alcuni, secondo i quali il cambiamento che ha investito l’India negli ultimi anni rende il Paese in cui è avvenuta la distruzione del 1992 profondamente diverso da quello che, oggi, accoglie il verdetto sul sito di Ayodhya e può reagire con maturità e ragionevolezza.

Pur essendo il mutamento del Paese negli ultimi vent’anni innegabile, infatti, questa lettura può ipotizzare una conclusione solo parziale del problema-simbolo Babri Masjid-Ram Janm Bhumi. Essa non tiene conto del periodico riaffiorare della questione, maneggiata ad arte, come si è visto, a fini politici ed elettorali, e sempre capace di incendiare gli animi e le ire degli uni e degli altri – un mix esplosivo degli elementi che da sempre, a tutte le latitudini, fungono da pretesto per lo sfogo di svariate e più profonde frustrazioni: appartenenza identitaria, religione, tradizione.


* Elena Borghi, dottoressa in Studi linguistici e antropologici sull’Eurasia e il Mediterraneo (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), è autrice di Sai Baba di Shirdi. Il santo dei mille miracoli (Red, Milano 2010) e Vivekananda. La verità è il mio unico dio (Red, Milano 2009)


1 Milanetti, G., “La tradizione inventata: in qual modo una bella lingua indiana senza un nome preciso fu chiamata hindi e trasformata in power construction”, in M. Torri e E. Basile (a cura di), Il Subcontinente indiano verso il Terzo millennio, Franco Angeli Edizioni, Milano 2002, p. 458.

2 Khushwant Singh, Quel treno per il Pakistan, Marsilio, Venezia 2002.

3 “Ayodhya Judgment”, 30 Sept. 2010, http://www.bbc.co.uk/news/world-south-asia-11443110

La strategia cinese estromette gli USA dal Medio Oriente

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Osservazioni preliminari
Il Medio Oriente ha sempre figurato in cima alla Grande Strategia della Cina, non solo in termini di mercato redditizio per l’economia e la sicurezza energetica cinesi ma, di gran lunga più importante, in termini geopolitici. Circondata dal vasto Oceano Pacifico sotto il controllo e la supremazia militare degli Stati Uniti, la Grande Strategia della Cina “
Guarda a Ovest”, una strategia in contrapposizione alla strategia del “Guardare a Est” del suo rivale asiatico, che ha ricevuto una concertata attenzione strategica. Questo è il fattore determinante nella formulazione della politica cinese verso il Medio Oriente e l’Asia Centrale.
La Cina considera il Medio Oriente come una lucrativa regione strategica in cui la Cina può sfruttare lo squilibrio strategico generato dagli Stati Uniti, con le loro azioni e omissioni negli ultimi dieci anni circa. La Regione è quindi matura per una sottrazione strategico agli Stati Uniti da parte della Cina.
Indubbiamente, gli Stati Uniti sono la potenza strategica e militare dominante nel Medio Oriente, storicamente durante la Guerra Fredda e che continuerà a esserlo nel corso di questo secolo, nonostante la turbolenza generata nel Medio Oriente, regione situata presso il “
crocevia del radicalismo e della tecnologia.”
La Cina è pienamente consapevole di non poter sloggiare gli Stati Uniti dal Medio Oriente, anche con la sua crescente capacità militare, ma questo non significa che la Cina mollerà il suo progetto strategico di destabilizzare l’egemonia regionale degli Stati Uniti, che controlla le risorse energetiche vitali estremamente importante per la crescita strategica e politica della Cina.
La Cina, a differenza dell’Asia orientale, vede il Medio Oriente come un trampolino di lancio che può facilitare alla Cina la possibilità di cogliere la status di superpotenza con una presenza strategica e militare invadente facilitato dal risentimento mediorientale verso lo sfrenato controllo della regione da parte degli Stati Uniti. Cina percepisce che le nazioni arabe e del Medio Oriente guardano l”ascesa della Cina’ come una assicurazione strategica e come un contrappeso contro gli Stati Uniti o, in mancanza, come un importante ‘leva politica’ che può essere usata per resistere alle pressioni degli Stati Uniti.
Questo sentimento predominante è miglio catturato dalle osservazioni di un noto analista egiziano che afferma che: il mondo arabo sta ancora piangendo per l’età d’oro della “Guerra Fredda”. Contemporaneamente, sembra che questa Regione si aspetti che la Cina possa creare un polo contrapposto agli Stati Uniti in Medio Oriente, e che il Medio Oriente sia maturo per una Guerra Fredda Cina-Stati Uniti.
Nei prossimi anni nei giochi di potere globale, si può pensare che la Cina aumenti la sua presa e le sue orme strategiche in Medio Oriente, espandendo la corrosione del controllo strategico degli Stati Uniti sulla regione del Medio Oriente. Va sottolineato che la Cina si è costruito un notevole profilo di grande potenza, usando in suo favore il proprio ‘soft power’ e fornendo arsenali di missili a paesi come l’Arabia Saudita, l’Iran e altri.
Ultimamente la Cina ha introdotto un nuovo elemento dell’uso del ‘potere duro’ (dimostrazione simbolica), coinvolgendo la Turchia in esercitazioni aeree congiunte condotte nello spazio aereo turco con aerei da combattimento cinesi, che si sono riforniti facendo scalo nelle basi aeree pakistane e iraniane.
Il presente testo si propone di esaminare le seguenti questioni legate alla strategia della Cina dell’erosione degli Stati Uniti in Medio Oriente:
La Cina compie un grande balzo in avanti nel forgiare una sostanziale presenza strategica in Medio Oriente: Ambizioni Strategiche e Leve Geopolitiche della  Cina
Il Pakistan come moltiplicatore di forza nella crescente allargamento della presenza strategica della Cina nella regione del Golfo e del Medio Oriente: prospettive
La Cina lotterà strategicamente e militarmente contro gli Stati Uniti, in caso di uno scontro in Medio Oriente?
Le Opzioni degli Stati Uniti in Medio Oriente

La Cina compie un grande balzo in avanti nel forgiare una sostanziale presenza strategica in Medio Oriente: Ambizioni Strategiche e Leve Geopolitiche della  Cina
La Cina, nel forgiare una crescente sostanziale strategica presenza in Medio Oriente, gode dei crescenti benefici che ha avuto nell’espansione della propria presenza strategica negli ultimi 20-25 anni. Il modello accertato della Cina, fino ad ora, si  concentrava nell’attrarre gli alleati più forti degli USA nella regione, come l’Arabia Saudita, e rafforzando le capacità militari delle nazioni e delle entità contrari agli Stati Uniti come l’Iran, la Libia, le milizie in Libano e il regime dei taliban in Afghanistan.
I toni sinistri della Cina nel creare le sue orme strategico nel Medio Oriente, si sono manifestati nella fornitura di missili balistici a lungo raggio (IRBM) della Cina, direttamente o per procura attraverso la Corea del Nord, all’Arabia Saudita e alla Iran, e dando accesso alla tecnologia delle armi nucleari di origine cinese, attraverso il Pakistan a Arabia Saudita, Libia e Iran.
Inserita in queste mosse strategiche da parte della Cina, c’è stata una vasta gamma di collegamenti economici e commerciali che la Cina ha predisposto nel corso degli anni, per rafforzare la dipendenza politica ed economica dalla Cina delle nazioni del Medio Oriente.
Le deduzioni che devono essere registrate dal modello di cui sopra, sono le seguenti:
.La forniture di IRBM della Cina, l’accesso alla tecnologia delle armi nucleari di origine cinese e le forniture considerevoli  di armi convenzionali in una regione altamente instabile come il Medio Oriente, indicano che la Cina non è un attore responsabile della sicurezza e la stabilità in Medio Oriente. Il Medio Oriente è una pedina strategica della Cina nel suo braccio di ferro globale con gli Stati Uniti.
.L’accusa contro la Cina si aggrava ulteriormente, poiché la Cina non ha avuto alcun rimorso nell’inviare armamenti a noti rivali regionali come l’Arabia Saudita e Iran, quindi, aggravando ulteriormente i focolai delle tensioni regionali.
·La Cina non ha avuto scrupoli nel tessere forti legami militari con Israele,  odiato in Medio Oriente dagli stati musulmani, arabi e non arabi.
L’attuale incremento della Cina nel forgiare una forte presenza in Medio Oriente, deve essere inteso nel contesto delle ambizioni strategiche della Cina, che sono:
Costretta nell’est asiatico dalla supremazia degli Stati Uniti, la Cina avverte che, nonostante l’egemonia degli Stati Uniti (percezione cinese) sul Medio Oriente, il Medio Oriente offre alla Cina la prospettiva di stabilire una forte presenza strategica nella regione.
Le ambizioni strategiche della Cina d’emergere come superpotenza globale, può essere agevolata dalle nazioni del Medio Oriente, con il Medio Oriente che oggi  costituisce ampiamente il centro di gravità nel calcolo strategico globale.
La Cina percepisce, a differenza della Russia con limitate risorse economiche, si essere  in una posizione migliore per emergere come potenza alternativa agli Stati Uniti e di poter riempire il vuoto strategico che ne può derivare se essi lasciassero l’Afghanistan. Con un deleterio effetto a cascata sulla regione del Golfo, i calcoli strategici della Cina potrebbero concludere che, in termini di proiezione di potenza della Cina a un ruolo globale più grande, il Medio Oriente ne fornisce un utilissimo trampolino di lancio.
I fattori geopolitici che facilitare l’avanzata strategica della Cina in Medio Oriente, possono essere attribuiti a quanto segue:
Le nazioni in Medio Oriente sono strategicamente inclini ad accogliere un abbraccio strategico cinese, spinti dal desiderio di trovare nella Cina un contropotere agli Stati Uniti.
Le nazioni in Medio Oriente sentono che, anche se la Cina non può fornire un potere di contrasto diretto agli Stati Uniti , la Cina può ancora fornire una forte leva alle nazioni del Medio Oriente, per resistere alle pressioni degli Stati Uniti su questioni conflittuali
Geopoliticamente la Cina e il Medio Oriente hanno punti di vista convergenti sul potere globale e la sostenibilità degli Stati Uniti sia in declino dopo gli avvenimenti in Afghanistan, aprendo la strada a un reciproco avvicinamento.
Oggi la Cina sta fortemente sostenuta da tre nazioni musulmane in questa parte del mondo, e cioè l’Arabia Saudita, Iran e Pakistan; Arabia Saudita e Iran,  situati su entrambe le coste del Golfo, e il Pakistan posto sul versante orientale dello stretto strategico di Ormuz. Tutti e tre possono dirsi strumentali, aprendo la strada a un grande punto d’appoggio strategico della Cina in Medio Oriente.

Il Pakistan come moltiplicatore di forza nella crescente allargamento della presenza strategica della Cina nella regione del Golfo e del Medio Oriente: prospettive
L’insidioso ruolo del Pakistan nel promuovere la presenza strategica della Cina nella regione del Golfo, è più particolare, essendo poco notato o commentato da parte della comunità globale. Il Pakistan è un alleato strategico e una leale pedina che promuove i disegni strategici della Cina nella Grande Asia del Sud-Ovest, che comprende la regione del Golfo.
Si possono elencare quattro coinvolgimenti strategici del Pakistan con la Cina, che facilitano i disegni della Cina per erodere la presenza strategica degli Stati Uniti in Medio Oriente. Questi sono:
La Base Navale di Gwadar, un accesso alla presenza navale della Cina nell’Oceano Indiano, a nord del Mar Arabico e nel Golfo.
Il Corridoio Karakoram che rifornisce la Cina dal Pakistan, integrando l’esistente Karakoram Highway che collega il Pakistan e la Cina, e con i previsti collegamenti stradali e le linee ferroviarie che collegheranno la Cina con Gwadar.
Il Pakistan punta al restauro di regime taliban in Afghanistan filo-Cina e filo-Pakistan, in modo che la vulnerabilità dei due alle azioni militari degli Stati Uniti sia liquidata.
Pakistan, per via delle sue armi e tecnologia nucleari di origine cinese, genera gravi rischi per la sicurezza globale degli Stati Uniti.
Il punto importante da notare è che il Pakistan sta fornendo l’accesso via terra e via aria alla Cina per stabilire un contatto in Medio Oriente, e Gwadar in Pakistan è uno nodo strategico per una presenza navale cinese nella regione del Golfo. E’ anche significativo che anche l’Iran, a differenza del Pakistan, debba ancora fornire l’uso delle sue basi navali alla Cina.
Tutto quanto sopra sarebbe emersa come moltiplicatore d forza della Cina, la cortesia l’esercito pakistano nel sabotare strategicamente il radicamento degli Stati Uniti nel Golfo e del Medio Oriente.

La Cina lotterà strategicamente e militarmente contro gli Stati Uniti, in caso di uno scontro in Medio Oriente?
Notato dagli analisti strategici statunitensi, hanno giustamente rilevato che la strategia della Cina contro gli Stati Uniti in Medio Oriente, ruoterà attorno al principio di “
né pace né guerra” e inoltre “la Cina eviterà sia la collaborazione che il confronto diretto con gli Stati Uniti“.
Alla sommatorie di cui sopra, si può tranquillamente affermare che nella dinamica contorta del Medio Oriente, la Cina sarà sempre attenta a un’imboscata e a sabotare gli Stati Uniti in questa regione strategicamente vitale, fondamentale per gli interessi strategici degli Stati Uniti.
L’esempio recente più importante di questo è l’avvicinamento strategico della al Turchia alla Cina, in un momento in cui la Turchia è disillusa verso l’Occidente e gli Stati Uniti. Prendiamo il caso del programma nucleare iraniano, che è uno spauracchio per gli Stati Uniti, dove la Russia ha virato affiancandosi agli Stati Uniti, mentre la Cina resta a favore dell’Iran.
Il Medio Oriente nei prossimi anni è probabile che assisterà ad un intensificarsi della “guerra fredda” da parte della Cina per erodere strategicamente gli Stati Uniti in Medio Oriente. La Cina spingerà le nazioni del Medio Oriente guidate dall’Arabia Saudita ad allentare i loro legami con gli Stati Uniti.
Infine, si potrebbe affermare che, anche in caso di una qualsiasi evenienza di una remota prova di forza, la Cina sarebbe riluttante ad entrare in un qualsiasi conflitto militare con gli Stati Uniti sul Medio Oriente. Al contrario, la Cina non esiterebbe ad entrare in un conflitto armato con gli Stati Uniti per un qualsiasi intervento militare statunitense in Pakistan. Senza il Pakistan come un leale pedina della Grande Strategia della Cina in Medio Oriente e del mondo islamico, l’intero progetto cinese per erodere la presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente fallirebbe e la Cina sarebbe ridotta al confinamento strategico in Asia orientale.

Le Opzioni degli Stati Uniti in Medio Oriente
In breve, gli Stati Uniti devono cercare di inserire i principali seguenti ingredienti nella loro formulazione politica in Medio Oriente per dare scacco matto ai disegni strategici della Cina:
Israele non dovrebbe essere spinto a rinunciare ai suoi interessi essenziali per la sicurezza nazionale, che incidono sulla sua sopravvivenza, in nome della Pace nel Grande Medio Oriente. La pace in Medio Oriente non è possibile fino a quando i leader dei paesi arabi non riconoscano Israele come Stato sovrano all’interno dei suoi confini attuali.
(*all’autore indiano sfugge il particolare che Israele non riconosce nessun SUO confine. NdT)
La Turchia deve essere corteggiata e conquistata di nuovo dall’Occidente e dagli Stati Uniti, tolta dalla sua strategia attuale alimentata dalla suo disillusione per l’opposizione  alla sua adesione all’Unione europea. La Turchia è la potenza naturale regionale del Medio Oriente e gli Stati Uniti dovrebbero cercare di dare spazio alle sue aspirazioni.
L’Iran una volta era un fedele alleato degli Stati Uniti. Tentativi dovrebbero essere fatti per riavvicinarlo  un’altra volta, nonostante le pressioni arabo saudita affinché gli Stati Uniti facciano il contrario.
La Russia ha bisogno di essere cooptata dagli Stati Uniti in un partenariato efficace per la gestione strategica del Medio Oriente.
Il Pakistan, che non è solo un ostacolo regionale in Asia meridionale è ormai emerso come “
la punta di diamante cinese” ed assiste la Cina nell’erosione strategica degli Stati Uniti in questa regione. Gli Stati Uniti hanno urgentemente bisogno di “resettare” la sua politica col Pakistan.
Gli Stati Uniti, a nessun costo dovrebbero uscire strategicamente dall’Afghanistan. Un efficace e forte radicamento degli Stati Uniti in Afghanistan impedirebbe e anticiperebbe la strategia della Cina per l’erosione strategica degli Stati Uniti nel Medio Oriente.
Infine, è mia sensazione che gli Stati Uniti siano fuori dalla deferenza verso le sensibilità dell’Esercito del Pakistan, avutasi negli ultimi dieci anni circa, sia un modo molto sottile per motivare l’India a “
Guardare a Est“. Il tempo è giunto per gli Stati Uniti per incoraggiare l’India a guardare a ‘Ovest‘ verso un ruolo più importante nel Medio Oriente.
La Strategia del ‘
soft power’ della Cina in Medio Oriente può essere affrontata in modo più efficace da un approccio del ‘soft power’ dell’India in Medio Oriente. L’India ha collegamenti storici, economici e culturali più lunghi con il Medio Oriente che non la Cina. Ironia della sorte, l’India ha dato l’accesso del Medio Oriente alla Cina, col Vertice delle Nazioni non Allineate di Bandung, nello spirito di grande spensieratezza, senza visualizzarne le ripercussioni.

Osservazioni conclusive
Nella Grande Strategia della Cina per afferrare lo status di superpotenza, il Medio Oriente figura  come la “
chiave di volta” con cui la Cina potrebbe ragionevolmente aspettarsi di spostare il predominio dagli Stati Uniti verso l’est asiatico.
La Cina finora ha fatto affidamento su’ progressi strategici in Medio Oriente, con l’uso fantasioso del
‘soft power’ e avvantaggiandosi dei rancori delle nazioni del Medio Oriente verso gli Stati Uniti, tuttavia ciò che si sta svolgendo ora, nell’erosione strategica cinese degli Stati Uniti in Medio Oriente, è anche un uso muto degli ingredienti dell”hard power‘.
Gli Stati Uniti farebbero bene a distogliere la loro attenzione da un accordo di pace in Medio Oriente, per esplorare urgentemente le opzioni politiche che gli permetterebbero d’impedire alla Cina di escluderli strategicamente dal Medio Oriente.
Gli Stati Uniti devono riconoscere che una pace in Medio Oriente non è all’orizzonte, mentre le nazioni in Medio Oriente percepiscono gli Stati Uniti come una potenza declino di fronte alla crescente potenza della Cina. Gli Stati Uniti hanno la necessità di riparare questa errata percezione.
La ‘chiave di volta’ degli Stati Uniti, per sventare i sabotaggio strategico della Cina in Medio Oriente, si trova in un efficace radicamento politico e militare in Afghanistan.

(L’autore è un analista in Relazioni Internazionali e Affari Strategici)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Colloqui di pace in Palestina: i perché dello stallo

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I colloqui di pace tra Israele e palestinesi sono cominciati il 2 settembre scorso, con un incontro a Washington tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Il padrone di casa, il presidente Barack Obama, aveva incluso la pacificazione della questione palestinese tra le sue priorità di politica estera.

Come deciso precedentemente, i colloqui sarebbero dovuti continuare per un anno, con incontri tra le parti ogni due settimane. L’ultimo mese, tuttavia, ha visto una serie di sviluppi che rendono sempre più lontana la prospettiva di un accordo tra israeliani e palestinesi. Per comprendere meglio la situazione passeremo in rassegna gli snodi principali dei negoziati in corso.

Gli insediamenti

Con la guerra dei sei giorni Israele conquistò Gaza, la penisola del Sinai, varie città della Cisgiordania, Gerusalemme est,  e le alture del Golan, trovandosi a controllare il triplo del territorio assegnatogli dalla risoluzione 181. In seguito il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva imposto ad Israele il ritiro dai cosiddetti territori occupati, ma questo è avvenuto per il Sinai solo nel 1982 e per Gaza nel 2005. I territori occupati, pur restando nelle mani di Israele, non sono stati annessi allo stato, sia per salvaguardare le caratteristiche etniche e demografiche dello stato ebraico sia perché potevano costituire un’importante moneta di scambio nei futuri negoziati.

La politica ufficiale, dunque, è stata di colonizzare esclusivamente per ragioni di sicurezza, cioè senza costruire vicino alle zone abitate dai palestinesi. D’altro canto, come riporta Americans for Peace Now, questo ha portato alla reazione di gruppi di nazionalisti religiosi che si opponevano all’idea di cedere la terra conquistata. I nuovi coloni si sono insediati vicino ai luoghi biblici, considerando queste terre come legittima proprietà del popolo ebraico. Questi insediamenti, pur essendo illegali per il diritto israeliano, non sono stati sgomberati dal governo di Tel Aviv e costituiscono, ora, il nucleo del problema degli insediamenti.

Quei coloni che dalla fine degli anni sessanta si sono stabiliti nelle zone assegnate dall’Onu al futuro stato palestinese si sono moltiplicati e ora desiderano costruire nuove abitazioni o ampliare quelle esistenti. I coloni, distribuiti in un centinaio di insediamenti, sono ora circa mezzo milione e hanno subito un netto incremento durante i negoziati di pace degli anni novanta, quando sono passati da 200.000 a 400.000. Il muro di sicurezza, costruito a partire dal 2000 per proteggere Israele dagli attacchi terroristici, include anche alcuni dei maggiori insediamenti della Cisgiordania, sebbene ne rimangano esclusi vari ancora più a est. Tanto gli insediamenti come il muro sono stati definiti illegali dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

Il presidente statunitense Barack Obama, un anno fa, aveva insistito perché Israele abbandonasse la costruzione degli insediamenti nei territori occupati. Chiarendone la posizione, il Segretario di Stato Hillary Clinton aveva affermato: “[il presidente] vuole vedere un’interruzione di tutti gli insediamenti – senza eccezioni per alcuni insediamenti, per avamposti o per crescita naturale”. Tuttavia Obama era riuscito solamente a far accettare a Israele una moratoria di dieci mesi sulla costruzione di insediamenti nei territori occupati, tranne a Gerusalemme Est, a partire da novembre 2009.

Alla scadenza prefissata, il 26 settembre 2010, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato che le costruzioni sarebbero ricominciate. Le pressioni statunitensi ancora una volta si sono dimostrate inefficaci, non riuscendo neppure a convincere Tel Aviv ad un’estensione di 60 giorni. In cambio Washington aveva promesso ingenti aiuti militari, appoggio per il mantenimento di una forza israeliana nella valle del Giordano, aiuto per contrastare il contrabbando di armi nei territori palestinesi, lo scudo del veto nel Consiglio di Sicurezza e l’impegno a favorire la stipula di un accordo di sicurezza per la regione.

L’intervento della Lega Araba

Il capo negoziatore palestinese Saeb Erakat aveva annunciato che avrebbe abbandonato i colloqui di pace nel caso la moratoria non fosse stata estesa, tuttavia Abu Mazen ha fatto sapere che avrebbe aspettato l’incontro del 4 ottobre della Lega Araba prima di decidere come reagire. Così, i ministri degli esteri del mondo arabo si sono riuniti in Libia e hanno dato il loro appoggio alla decisione di lasciare il tavolo negoziale se non fosse cessata la costruzione di insediamenti. Tuttavia, la Lega Araba ha anche dato ai negoziatori un altro mese di tempo per trovare un accordo, premendo sugli Stati Uniti perché intercedessero presso Israele.

Ultimamente Abu Mazen cerca sempre l’appoggio della Lega Araba prima di intraprendere svolte politiche, data la sua estrema debolezza interna. Questo gli permette di mostrare che quanto da lui deciso gode del supporto dei vicini arabi, oltre a migliorare la sua legittimità di fronte alla comunità internazionale, necessaria per mantenere gli aiuti economici da cui l’Anp dipende.

Fatah, inoltre, ha perso buona parte del consenso interno, anche per via della dilagante corruzione che macchia l’Anp. D’altra parte i colloqui di pace sono estremamente importanti per Fatah dato che storicamente la legittimità dell’Anp aumenta sempre quando esiste la possibilità di raggiungere una soluzione negoziata. Al contrario, Hamas si trova sempre a vincere popolarità quando i colloqui saltano.

Il mandato di Abu Mazen a presiedere l’Autorità palestinese è scaduto all’inizio del 2009, ma questi si è rifiutato di convocare nuove elezioni per via dello scontro interno tra Fatah e Hamas. Infatti, la sua legittimità è ampiamente contestata da Hamas, che ha rifiutato in anticipo qualsiasi accordo preso senza la sua partecipazione. Il partito islamista che controlla Gaza non è stato incluso nei negoziati e rimane critico rispetto alle posizioni di Fatah.

Un’altra possibilità ventilata dalla Lega Araba, ma anche dai paesi europei, è proporre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione che riconosca l’esistenza dello stato Palestinese nei confini precedenti le conquiste del 1967. Alcuni hanno letto in questa ottica il programma lanciato dal primo ministro palestinese Salam Fayyad per costituire entro il 2011 le necessarie istituzioni economiche e di sicurezza per uno stato funzionante. Rimane tuttavia molto improbabile che gli Stati Uniti aderiscano al progetto di riconoscimento nel foro onusiano, dato che sostengono che lo stato della Palestina dovrebbe essere il risultato di un negoziato tra Israele e palestinesi.

Lo stato ebraico

L’11 ottobre Netanyahu ha fatto una offerta ad Abu Mazen: avrebbe chiesto al suo gabinetto di estendere la moratoria agli insediamenti per altri due mesi se i palestinesi avessero riconosciuto Israele come “lo stato nazione del popolo ebraico.” L’ironica risposta non si è fatta attendere: riconosceremo Israele come desidera – anche come stato cinese, se è ciò che vuole – però in cambio vogliamo la restituzione dei territori conquistati nel 1967, ha dichiarato Yasser Abed Rabbo, dell’Anp.

I palestinesi non sembrano intenzionati a svendere un’arma negoziale per una concessione estremamente limitata. Per l’Autorità nazionale palestinese sarebbe estremamente problematico riconoscere Israele come stato ebraico, perché implicherebbe la rinuncia del diritto di ritorno dei rifugiati palestinesi. Netanyahu, con questa proposta, sembra cercare di ottenere delle concessioni in termini di rifugiati prima di impegnarsi a negoziare la questione. La richiesta avanzata dal governo israeliano è stata anche letta come un tentativo di far ricadere sui palestinesi la responsabilità per un inevitabile collasso dei negoziati.

Allo stesso tempo il premier israeliano si troverebbe sotto pressione anche dai membri del suo gabinetto più ostili alla pace, come il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Il giornalista israeliano Uri Avnery sostiene che a sua volta Lieberaman stia cercando di sabotare i colloqui di pace per rafforzare le proprie credenziali di fronte al suo elettorato. Bisogna anche segnalare, però, che il riconoscimento del carattere confessionale dello stato risponde ad una preoccupazione di lungo termine di Israele, cioè la salvaguardia della sua identità nazionale quale stato ebraico. Difatti, se tutti i profughi palestinesi (e i loro eredi) tornassero alle loro case in Israele provocherebbero un grosso balzo nella bilancia demografica del paese, visto che ad oggi se ne contano quattro milioni.

Alla stessa ansia demografica pare voler rispondere una contestata proposta di legge che sottoporrebbe l’acquisizione della cittadinanza israeliana ad un giuramento di fedeltà al carattere “ebraico e democratico” dello stato. La proposta, presentata alla Knesset il 10 ottobre scorso, esigeva il giuramento a tutti i non ebrei che volessero prendere la cittadinanza israeliana, ma era stata tacciata di razzismo dai membri più progressisti del gabinetto di Netanyahu. Per venir loro incontro, la richiesta di giuramento era stata estesa a tutti i nuovi richiedenti, rischiando, però, di alienare l’ala più estremista del governo. L’uguaglianza formale tra i cittadini nati in Israele e gli ebrei immigrati, infatti, è un tema particolarmente sentito dagli ebrei dell’ex-Unione Sovietica che, grazie alla “legge del ritorno” del 1950 hanno goduto tutti i privilegi della cittadinanza.

Gli ebrei che negli anni novanta sono emigrati dall’ex-Unione Sovietica costituiscono lo zoccolo duro dell’elettorato di Yisrael Beitenu (“Israele è la nostra casa”), il partito del Ministro degli Esteri Lieberman. Questi aveva puntato la sua campagna elettorale nel 2009 proprio sul giuramento di fedeltà allo stato ebraico e su uno scambio di territori e popolazioni che permetterebbe di mantenere i maggiori insediamenti in Cisgiordania, in cambio delle zone di Israele abitate da arabi. Molti di questi elettori, infatti, sono coloni che osteggiano i colloqui di pace per timore che lo stato palestinese diventi un focolaio estremista e ammirano Lieberman in quanto uomo forte che sosterrà i loro diritti.

Il governo di unità nazionale di Netanyahu, dunque, si trova diviso dato che comprende una estrema divergenza di vedute, da quelle del partito laburista, al suo Likud e ai più radicali Yisrael Beitenu e Shahs. Questi ultimi rappresentano circa il 20% dei seggi della Knesset e molto spesso riescono ad orientare il premier verso le proprie posizioni.

Se la proposta di legge dovesse andare avanti, questo sarebbe un duro colpo per il milione e mezzo di cittadini arabi che costituiscono 1/5 della popolazione dello stato di Israele. Ancor di più, però, verrebbero colpiti i diritti di quei tanti ebrei israeliani che credono che giurare alleanza allo stato ebraico implichi una rinuncia al suo carattere democratico. La Dichiarazione d’Indipendenza dello stato di Israele, d’altronde, garantisce completa uguaglianza di diritti politici e sociali a tutti i suoi abitanti, indipendentemente da religione, razza o sesso.

Il rabbino progressista Donniel Hartman, il 17 ottobre scorso, ha ricordato il quindicennale del tragico assassinio dell’ex primo ministro Yitzhak Rabin, ucciso perché “dei membri della nostra società credevano che le loro convinzioni e il loro fervore nazionalista fossero più importanti del dovere dalla moralità”. Questa data dovrebbe essere utilizzata, secondo Hartman, per riesplorare il legame esistente tra nazionalismo ebraico e stato e su quale componente debba prevalere tra giudaismo e democrazia.

* Roberta Mulas è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

Venezuela: dal “cortile” al mondo multipolare

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Fonte: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=21667

Il riuscito tour in 7 paesi di tre continenti fatto dal presidente Hugo Chavez, ha prodotto 69 nuovi accordi che rafforzano lo sviluppo nazionale e consolidano la difesa più potente contro l’aggressione imperiale: l’unione delle nazioni e dei popoli.
L’ideologa più influenti del ventesimo secolo negli Stati Uniti, Henry Kissinger, ha dichiarato durante negli anni ’70 per quanto riguarda l’espansione del socialismo nella regione, “
Se gli Stati Uniti non possono controllare l’America Latina, come possono dominare il mondo?” Oggi,la preoccupazione di Kissinger è tornato a tormentare gli Stati Uniti e le forze imperiali, ma questa volta il loro pugno cospirazionista non riesca a far tacere il risveglio dei popoli nella rivoluzione.
La disperazione degli Stati Uniti in quegli anni, nel subordinare i paesi del loro “cortile di casa”, ha portato ad una serie di colpi di stato, dittature brutali, sabotaggi, omicidi politici, torture e sparizioni di massa e alla realizzazione dei modelli di capitalismo neoliberista che ha causato la peggiore miseria, esclusione, povertà e alienazione conosciuti nella regione nel corso della storia.
Sotto la visione limitata degli Stati Uniti, le strategie e le tattiche di aggressione hanno raggiunto il loro scopo entro la fine del secolo, e in quasi tutte le nazioni dell’America Latina, con l’eccezione di Cuba rivoluzionaria, i governi sottomessi sono stati instaurati, salutando l’imposizione del modello politico-economico USA della democrazia rappresentativa neoliberista.
Quando un soldato rivoluzionario venezuelano, Hugo Chavez, ha guidato una ribellione contro il governo criminale, assassino e corrotto di Carlos Andres Perez – uno stretto alleato di Washington – il 4 febbraio 1992, gli Stati Uniti lo sottovalutarono. Un documento segreto del Dipartimento di Stato, ora declassificato, ha commentato la manifestazione dichiarando che “
Il tentativo di colpo di stato sembra essere stato il lavoro di un gruppo di ufficiali di livello medio dell’esercito… Non vi è indicazione di un sostegno popolare ai golpisti…
Allo stesso tempo, il governo USA ha riconosciuto dalle  proprie indagini condotte in segreto in Venezuela, “
L’incentivo a continuare il supporto a Carlos Andres Perez è scarso, un recente sondaggio ha rivelato che gode meno del 20% del sostegno degli elettori...” In altri parole, la gente non supporta il modello neoliberale imposto alla loro nazione.
Un altro rapporto segreto dal 10 marzo 1992 rivelò la vera preoccupazione di Washington per quanto riguarda le rivolte popolari in Venezuela, “
un colpo di stato in Venezuela sarebbe un colpo grave per gli interessi degli Stati Uniti nell’emisfero. Nonostante l’impatto negativo a breve termine sui poveri e la classe media, riteniamo che le politiche economiche di Carlos Andres Perez (PAC) siano esattamente ciò che è necessario per riformare l’economia venezuelano… il rovesciamento di PAC avrebbe inviato un messaggio raggelante alla regione, circa la fattibilità dell’attuazione di riforme economiche“. [*Sebbene gli Stati Uniti classificato l'azione come un "golpe", Hugo Chavez l'ha definito "una ribellione popolare contro una dittatura mascherata da democrazia"].
Parafrasando Kissinger, se gli Stati Uniti non possono controllare il Venezuela, come potrebbero controllare la regione? La preoccupazione principale degli Stati Uniti non era se la povertà aumentava e la classe media fosse scomparsa, ma piuttosto se il modello neoliberista sarebbe stato attuato ad ogni costo, perché questa sarebbe l’unica garanzia di domini permanente degli Stati Uniti nella regione.
Quando Hugo Chavez venne eletto in Venezuela nel 1998, Washington non sapeva cosa fare. La politica ufficiale era “
aspettare e vedere” prima di agire. Gli interessi imperiali cercavano di “comprare” il neoeletto presidente del Venezuela parecchie volte, ma i loro tentativi non diedero i loro frutti: il Venezuela aveva scelto un percorso irreversibile verso l’indipendenza, la sovranità, la dignità e la rivoluzione.
Con i primi cambiamenti – la riforma costituzionale, l’aumento dei prezzi del petrolio e il salvataggio di OPEC – potenti interessi erano stati colpiti e il controllo degli Stati Uniti in Venezuela era diminuito. La voce di Hugo Chavez, ha cominciato ad essere sentita in tutta la regione, risuonando come una canzone ribelle che ha ispirato i movimenti deò popolo inquieto.

AGGRESSIONE PERMANENTE
Poco dopo, le azioni vennero avviate per cercare di neutralizzare ciò che Washington credeva impossibile: una rivoluzione socialista e anti-imperialista nel XXI secolo, poco a sud del confine.
Una ondata di aggressioni ha colpito il Venezuela – il colpo di stato nell’aprile del 2002, lo sciopero del petrolio e il sabotaggio economico, tentativi di assassinio, la sovversione, il finanziamento multimilionario dei gruppi di opposizione, ingerenza nelle elezioni e una brutale guerra psicologica attuato dai mass media – ma non hanno raggiungere il loro obiettivo, le forze rivoluzionarie hanno cominciato ad ascendere in tutto il continente.
La nascita dell’Alleanza Bolivariana degli Americani (ALBA), nel 2004 ha aperto la strada verso una nuova politica estera basata su cooperazione, integrazione e solidarietà. Le relazioni tra popoli fratelli nella regione cominciarono a crescere, rafforzando i legami tra gli stati che condividevano una visione collettiva dell’umanità e la costruzione di un nuovo modello economico del commercio, che promuove benefici e di sviluppo reciproci.

L’ALBA di un mondo multipolare
Dall’ALBA, nacque l’Unione delle nazioni sudamericane (Unasur) con lo scopo di creare scambi regionali e per creare un blocco continentale delle potenze in grado di affrontare le sfide del mondo.
Come la Rivoluzione in Venezuela cresceva, l’aggressione degli Stati Uniti aumentava. Nel 2005, Washington ha lanciato una campagna internazionale per “
isolare il governo venezuelano” e classificarlo come “stato canaglia“. “Hugo Chavez è una forza negativa nella regione”, ha dichiarato il segretario di Stato Condoleezza Rice nel gennaio 2005, iniziando il bombardamento di menzogne sul Venezuela di fronte all’opinione mondiale, che da allora non è cessata. Un anno dopo, il Segretario della Difesa Donald Rumsfeld ha paragonato il Presidente Chavez a Hitler e insieme con il direttore della National Intelligence, John Negroponte, hanno definito il Venezuela la “più grande minaccia agli interessi Usa nella regione“. Quell’anno il Venezuela è stato inserito nell’elenco del nazioni “che non collaborano pienamente con la guerra al terrore” e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti hanno proibito la vendita di attrezzature militari con tecnologia degli Stati Uniti, alla nazione sudamericana.
Chavez, che riconosce il tentativo di indebolire le sue forze armate, ha cercato altri partner che non fossero sottoposti al dominio statunitense. La Russia è stata il primo paese ad offrirsi di sostituire le forniture militari del Venezuela. Per la prima volta dopo la caduta dell’Unione Sovietica, una nazione latino-americana ha iniziato a costruire legami con la Russia, senza il coinvolgimento degli Stati Uniti. Il primo acquisto di attrezzature militari aprì la porta a un nuovo rapporto commerciale e strategico tra il Venezuela e la Russia, grazie all’embargo degli Stati Uniti.
Dopo la Russia, il Venezuela ha iniziato a costruire relazioni con la Cina, Bielorussia, Iran, Giappone, Siria, Libia, India e altri paesi africani, asiatici ed europei. La politica estera di Chavez ha avviato una radicale trasformazione nella regione e ha messo il Venezuela sulla mappa mondiale. “
Ha radicalmente modificato le regole del gioco: abbiamo voluto metterci in relazione con il mondo e non solo con una parte di essa. In realtà, stavamo solo imparando a camminare con i nostri piedi proprio sulla scena internazionale. Non dimenticate che, prima, non avevamo una nostra politica estera. La nostra politica estera era diretta da Washington”, spiega il presidente Chavez.

Mutando l’equilibrio del potere
Chavez visitò Russia, Bielorussia, Ucraina, Iran, Siria, Libia e Portogallo dal 13-24 ottobre 2010, un segno del nuovo mondo multipolare all’orizzonte. Dai 69 accordi firmati con queste nazioni, il Venezuela avrà numerosi preziosi benefici, compresa la costruzione di decine di migliaia di case per il popolo del Venezuela, lo sviluppo agricolo, la crescita economica, la produzione di energia, nuove industrie, esportazioni diversificate e strategiche, relazioni equilibrate con le altre nazioni – tutto per il massimo vantaggio del popolo del Venezuela.
Non uno dei 69 accordi contiene elementi di sfruttamento che potrebbero causare svantaggi al Venezuela. La politica estera del governo Chavez non consente che lo sfruttamento o la contaminazione capitalista che possa danneggiare la nazione sudamericana.
Per esempio, in Bielorussia, il Venezuela non solo comprerà autocarri pesanti per le miniere e mezzi di trasporto pubblico, ma anche creerà joint venture con le aziende bielorusse per stabilire fabbriche in territorio venezuelano, assicurandosi il trasferimento tecnologico, aiutando la diversificazione delle industrie del Venezuela e la creazione di posti di lavoro per il popolo venezuelano.

In un mondo multipolare, non ci può essere nessun impero
Il Venezuela deve obedire”, ha dichiarato il presidente Obama in riferimento al contratto con la Russia per sviluppare l’energia nucleare per uso pacifico. “Stiamo monitorando gli accordi tra il Venezuela e l’Iran per vedere se violano le sanzioni“, ha annunciato Philip Crowley, portavoce del Dipartimento di Stato, come se Washington sia ancora la polizia mondo.
Il tono disperato usato dalla Casa Bianca è il prodotto dell’indebolimento del suo potere globale – il tempo dell’Impero è scaduto e un nuovo mondo multipolare è nato. L’incubo di Kissinger è diventato realtà – gli Stati Uniti non possono più dominare l’America Latina, e tanto meno il mondo. Il soldato rivoluzionario venezuelano una volta sottovalutato, è diventato un simbolo della resistenza contro l’egemonia degli Stati Uniti, ed ha ispirato milioni di persone che cercano un mondo migliore.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Nagorno Karabakh: la guerra continua?

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A molti anni dalla fine di un sanguinoso conflitto, in questi giorni si torna a parlare della questione del Nagorno Karabakh.

Questo piccolo stato autoproclamatosi indipendente, fu teatro di una lunga guerra tra Armenia ed Azerbaigian, tra il 1988 ed il 1994 con migliaia di vittime civili e rifugiati. Le radici del conflitto vanno ricercate nella storia del paese, conteso tra le due Repubbliche fin dai primi anni del secolo scorso.

Entrambe infatti, confinando con il territorio del Nagorno-Karabakh, ne rivendicano l’appartenenza al proprio stato e cercano l’appoggio di alleati esterni che ne confermino la validità.

Già nel 1917, con la Rivoluzione Russa e la creazione degli stati della Georgia, Azerbaigian ed Armenia, la questione dei confini territoriali divenne di primo piano, poi con la Prima Guerra Mondiale il governo della regione fu affidato ad un governatore azero, riconosciuto anche dalla comunità internazionale.

Questo pose le basi per le rivendicazioni dell’Azerbaigian sulla regione, ma gli armeni la considerarono una mossa strategica delle potenze occidentali, interessate ai giacimenti petroliferi, e non accettarono il nuovo governo.

Nel Febbraio 1988 la situazione di tensione accumulata nei decenni precedenti, degenerò con dei violenti scontri tra le due etnie, che culminarono con due morti azeri e l’inizio di veri e propri pogrom contro gli armeni presenti nel territorio.

Questo diede inizio alla fuga di migliaia di persone verso Armenia ed Azerbaigian nel tentativo di sfuggire ai massacri ed inasprì ancor più i rapporti tra i due paesi.

Nel 1989 il livello delle violenze crebbe a tal punto da spingere la Russia ad aumentare i poteri del governo azero per tentare di sedare gli scontri, ma la mossa si rivelò inutile poiché una sessione congiunta del Consiglio Nazionale del Nagorno-Karabakh ed il Soviet Supremo Armeno, proclamarono la creazione di una repubblica indipendente.

Ancora a metà del 1990 gli scontri non accennavano a fermarsi e continuavano episodi di pulizia etnica nei confronti di entrambe le popolazioni; nel 1991 venne allora indetto un referendum in favore dell’indipendenza della regione, boicottato dalla popolazione azera, e nemmeno la proposta della Russia di concedere maggiore autonomia alla regione portò ad un appianamento del conflitto tra le due Repubbliche.

Con la dissoluzione dell’URSS le tensioni interne al paese crebbero insieme ai tentativi dell’Armenia di riunire questo territorio al proprio stato e la guerra riprese senza soste fino al 1994, quando dopo sei anni di intensi combattimenti, fu firmato da entrambe le parti un cessate il fuoco, tuttora in vigore, mediato dalla Russia e controllato dal gruppo Minsk dell’OSCE.

A tutt’oggi, il conflitto è congelato e la regione ha un governo indipendente ed un proprio esercito, seppure non sia mai stata ufficialmente riconosciuta come nazione autonoma e continuino a manifestarsi occasionali situazioni di scontro.

La guerra ha causato più di 300.000 morti e 100.000 feriti, da entrambe le parti, e ancora a distanza di sedici anni molti profughi vivono nei campi attrezzati per accogliere i rifugiati.

La situazione attuale

Nel 2007 a Madrid si è tenuta la conferenza dell’OSCE sulla questione del Nagorno-Karabakh, ed è stato deliberato che la risoluzione del conflitto dovrà essere portata avanti gradatamente, iniziando con la liberazione dei territori azeri attorno ai confini dello stato, che furono occupati dall’Armenia e rimangono tuttora sotto il suo controllo.

Il Karabakh dovrà inoltre essere messo nella condizione di indire un referendum per decidere autonomamente riguardo la sua indipendenza, o eventuale annessione ad uno dei paesi coinvolti.

Dal 2008 agli inizi del 2010 le trattative per un negoziato di pace sono proseguite aprendo uno spiraglio sempre più ampio sulle possibilità di una soluzione pacifica del conflitto nel breve termine, seppure la posizione di entrambe le nazioni riguardo la possibile spartizione del territorio, o la sovranità assoluta di uno dei due contendenti, rimanga fermamente contraria.

La traballante pace tenuta in piedi fino ad oggi potrebbe essere minacciata da recenti dichiarazioni del governo azero, il quale avrebbe stanziato per le spese militari di quest’anno 3,12 milioni di dollari, pianificando di aumentarle ancora sostanzialmente nei prossimi anni.

La situazione dell’Armenia non permette al paese di fare altrettanto, e l’aumento delle forniture militari porterebbe i due paesi ad una condizione di sbilanciamento molto profondo.

Questo scenario ha portato all’innalzarsi della tensione tra i due paesi, ed è soprattutto dalla parte armena che si avverte la paura che questa corsa al riarmo possa preludere ad un nuovo conflitto per il Nagorno-Karabakh.

Negli ultimi anni d’altra parte, gli azeri hanno assistito con crescente difficoltà e contrarietà alla ripresa del dialogo tra Armenia e Turchia, che ha portato, tra le altre cose, nell’ottobre 2009 alla riapertura delle frontiere tra i due paesi.

L’Azerbaigian ha contestato la ripresa della attività diplomatiche tra i due paesi che non era prevista dagli accordi stipulati con l’amministrazione statunitense, temendo la possibile creazione di un ponte tra le due nazioni, che possa influire sulla risoluzione del conflitto del Karabakh.

I possibili scenari di risoluzione del conflitto ad oggi sembrano tre:

- La ripresa della guerra: opzione presa in seria considerazione dal governo azero che ritiene di avere buone possibilità di vittoria, e di riottenere quindi il controllo completo dell’enclave e degli altri territori sottratti.

- Continuazione del cessate-il-fuoco senza limiti di tempo: situazione apparentemente auspicata dal governo armeno che non sarebbe in grado di portare avanti un conflitto in modo vittorioso a causa della disparità di forze in campo, ed escluderebbe il ritorno alla violenza interetnica.

- Negoziato di pace: certamente la soluzione più auspicabile per la risoluzione delle controversie, tuttavia di difficile realizzazione, visti i passati sedici anni di negoziati internazionali e la presentazione di cinque valide proposte di pace, di cui soltanto una è ancora al vaglio dei due governi.

Influenze esterne nel conflitto

Con l’ingresso della Turchia nello scenario politico delle relazioni tra Bakù e Erevan, la situazione sembra avvicinarsi ad una svolta.

Il governo azero teme fortemente l’instaurazione di legami tra Armenia e Turchia ed è arrivato a paventare la ricerca di soluzioni alternative per il trasporto del gas verso l’Europa, che tagli fuori il gasdotto turco.

Sebbene la messa in pratica di questa proposta sembri altamente improbabile, è indice della preoccupazione delle autorità azere, che il governo di Ankara ha immediatamente cercato di allontanare. Il governo ha infatti preso direttamente parte ai recenti colloqui di pace tra Armenia e Azerbaigian, ed ha lasciato intuire che l’ultima proposta sul tavolo delle trattative dei due governi potrebbe non cadere nel vuoto, ma che anzi esistono convergenze su più punti. Condivide tuttavia la posizione azera riguardo la necessità imprescindibile della restituzione all’Azerbaigian delle terre occupate indebitamente durante la guerra, e la graduale restituzione in cinque anni delle province di Kelbajar e Lachin.


* Valentina Bonvini è laureanda in Scienze umanistiche (Università “La Sapienza” di Roma)


Fonti:

http://www.osce.org/item/21979.html/

http://www.eurasianet.org/resource/armenia

http://www.rferl.org/content/NagornoKarabakh_War_Peace_Or_BATNA/1746559.html

http://www.rferl.org/content/Is_The_Karabakh_Peace_Process_In_Jeopardy/1732576.html

http://www.eurasianet.org/node/62162

http://www.eurasianet.org/node/62223

http://blog.ilmanifesto.it/estestest/tag/armenia/

“La sfida dell’India”, nuovo libro di Vincenzo Mungo

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L’interrogativo affrontato da questo libro è se il subcontinente indiano, tornando ad essere un’area determinante per il futuro del Pianeta, fondi il proprio processo di sviluppo su un progetto di tipo occidentale ispirato al processo di globalizzazione o se invece sia in grado di conservare la propria cultura specifica, implicitamente critica rispetto al sistema di valori su cui si basa il mondo contemporaneo. Molti osservatori considerano l’India contemporanea un Paese avviato verso un futuro positivo sulla base di un processo di sviluppo fondato su basi simili a quelle dei Paesi occidentali; altri sono invece più cauti, non perché non giudichino positivo il processo di sviluppo in atto nels ubcontinente, ma perché ritengono che, nel periodo della globalizzazione, esso non sia sufficiente a fare dell’India una grande potenza. Secondo l’Autore di questo saggio, invece, occorre valutare se l’attuale modello di sviluppo stia facendo crescere l’India senza divellerne le radici culturali. Infatti, qualore nel subcontinente lo sviluppo si accompagnasse ad una modernizzazione occidentalizzante, l’India finirebbe per essere un Paese al traino delle concezioni elaborate dalla grande finanza internazionale e dalle multinazionali, sicché, oltre a perdere la propria identità, rischierebbe di veder compromessa anche la crescita economico-sociale, una volta che questa non fosse più funzionale agl’interessi dei ceti dirigenti della globalizzazione.

L’Autore cerca perciò di capire se l’India stia realmente diventando una grande potenza o se stia solo vivendo un processo di sviluppo economico funzionale agl’interessi dei grandi gruppi economici mondiali. La realtà indiana viene quindi analizzata a partire dalla prima grande rivolta contro il colonialismo britannico, avvenuta intorno alla metà del XIX secolo, e con particolare riguardo al periodo della lotta per l’indipendenza. Molte concezioni ancora vitali nell’India contemporanea nacquero infatti proprio nel periodo di tale lotta, per cui è importante considerarle. Per quanto riguarda l’India contemporanea, vengono esaminati diversi aspetti istituzionali, politici, economici, sociali ecc. dell’odierna realtà del subcontinente.

Vincenzo Mungo, giornalista professionista, lavora attualmente per il Giornale radio della RAI come capo-servizio della redazione esteri. È inoltre consigliere dell’Istituto per gli Affari Internazionali. È autore de Il mondo in gabbia. Gli aspetti totalitari della globalizzazione, SEB, Milano 2000; Introduzione a Julius Evola. Il problema di Oriente ed Occidente, Fondazione Julius Evola, Roma 1995; L’attuazione degli itinerari turistico-culturali nel Mezzogiorno, Maggioli, Rimini 1986. Su “Eurasia” ha pubblicato “India oggi” nel numero 2/2008.

Il denaro iraniano irrompe sullo scenario afghano

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Lo scorso 23 ottobre, il New York Times ha riportato la notizia di finanziamenti segreti stanziati dal governo iraniano per il capo di stato maggiore afghano Umar Daudzai.

Fonti vicine al governo afghano avrebbero rivelato che si tratterebbe di milioni di dollari dirottati in un fondo segreto a cui avrebbero avuto accesso lo stesso Daudzai ed il Presidente afghano Hamid Karzai.

Questo denaro sarebbe stato utilizzato per comprare il consenso di capi-tribù e persino di alcuni comandanti talebani.

La notizia ha destato molto clamore ed è stata confermata due giorni dopo dallo stesso Karzai, il quale ha affermato che il capo di stato maggiore agiva seguendo le sue indicazioni. Il Presidente afghano ha inoltre aggiunto che la cifra in questione è ben al di sotto di quella paventata dai media e che si tratta di un aiuto versato dal governo iraniano per aiutare l’ufficio presidenziale a sostenere le spese a cui deve far fronte. Nulla di illecito o sospetto quindi, solo un sostegno economico come quelli di vari altri Paesi amici.

Resta allora da capire come mai la notizia abbia sollevato un tale polverone, sebbene gli Stati Uniti si siano affrettati a dichiarare, tramite il portavoce del dipartimento di Stato, Philip Crowley, che nessuno intendeva negare all’Iran il diritto di fornire assistenza finanziaria all’Afghanistan e a questa di accettarla. Tuttavia, subito dopo lo stesso portavoce ha aggiunto che gli Stati Uniti credono che sia importante che gli afghani abbiano la possibilità di delineare il loro futuro in maniera autonoma, senza condizionamenti negativi degli Stati vicini.

Per uno Stato come quello afghano trattasi di una speranza difficilmente realizzabile.

Il suo montuoso territorio, privo di sbocchi sul mare, ospita varie etnie e ciascuna di queste è legata ad un vicino Stato sponsor. Una tale caratteristica è difficilmente conciliabile con un’effettiva indipendenza, soprattutto alla luce della debolezza attuale delle istituzioni afghane.

Così come altri Stati, anche l’Iran intrattiene rapporti privilegiati con alcune delle popolazioni afghane. La sua maggiore zona di influenza si trova nella regione di Herat, capitale dell’impero persiano agli inizi del XV secolo.

Teheran ha da sempre stretti legami con le popolazioni di lingua persiana e con gli hazara, etnia di fede sciita che occupa la regione centrale dell’Afghanistan.

L’influenza iraniana sul territorio afghano fu messa a dura prova dall’ascesa dei talebani, i quali si resero colpevoli di veri e propri atti di pulizia etnica nei confronti degli hazara e dell’uccisione, nel 1998, di diversi diplomatici iraniani presenti nella regione occidentale di Herat. In tale occasione, i due Paesi furono ad un passo dallo scontro armato.

L’11 settembre e la conseguente invasione dell’Afghanistan da parte delle truppe degli Usa e dei suoi alleati, fu accolta con un misto di preoccupazione e soddisfazione dal governo iraniano.

Il timore derivante dalla presenza delle forze armate statunitensi sui territori dell’Asia centro-meridionale era infatti accompagnato dalla soddisfazione derivante dalla lotta in atto contro i talebani. Per l’Iran vi era dunque la possibilità di rientrare nei giochi afghani e ristabilire la propria influenza.

Sebbene sia evidente la convergenza degli obiettivi americani ed iraniani, l’ostilità sviluppatasi specie negli ultimi anni tra questi due Paesi ha costituito un grave ostacolo alla collaborazione.

Dopo i primi mesi in cui Teheran ha giocato un ruolo importante nel bloccare i terroristi che tentavano di trovare rifugio sul suo territorio, il supporto iraniano si è fatto sempre più debole.

Negli ultimi anni, l’Iran è stato persino accusato di fornire armi a gruppi talebani. Alcuni esperti affermano che l’obiettivo del governo di Ahmadinejad sarebbe quello di mantenere una sorta di “managed chaos” sul territorio afghano e infliggere così duri colpi al morale delle truppe straniere.

Un’altra ipotesi vedrebbe nella fornitura di armi il tentativo di estendere la propria influenza su un più ampio numero di attori sullo scenario afghano.

Quando il Pakistan decise di dare pieno sostegno alla causa talebana, voltando le spalle all’Hezb-e-Islami di Hekmatyar, l’Iran offrì rifugio e protezione al mujaheddin.

Sebbene in seguito alle pressioni degli Stati Uniti e del governo Karzai, gli uffici iraniani dell’Hezb-e-Islami siano stati chiusi ed Hekmatyar sia stato espulso dall’Iran, sembra che i legami tra le parti siano stati conservati.

Il dialogo di pace avviato tra il governo afghano e gli insorgenti non può prescindere da un coinvolgimento della fazione guidata da Gulbuddin Hekmatyar.

I calcoli iraniani si sarebbero dunque rivelati corretti e Teheran avrebbe oggi un’importante carta da giocarsi sullo scacchiere afghano per limitare l’influenza dei sauditi e dei pakistani, i quali invece sponsorizzano il gruppo degli Haqqani e conservano contatti con i vertici della sura di Quetta.

I finanziamenti stanziati dal governo iraniano in favore di Karzai e del capo di stato maggiore Umar Daudzai andrebbero letti proprio alla luce di questi fatti.

Quest’ultimo infatti, stando a fonti vicine a Karzai, rappresenterebbe il principale punto di contatto tra Teheran e Kabul. Ambasciatore afghano in Iran dal 2005 al 2007, il Generale Daudzai ha dei trascorsi da militante proprio nelle fila dell’Hezb-e-Islami di Hekmatyar, ai tempi dell’invasione sovietica.

Pare dunque che l’Iran sia riuscito, almeno nel caso afghano, a seguire le indicazioni di Henry Kissinger, il quale si augurava che l’Iran smettesse i panni ideologici e cominciasse ad agire da nazione.

Storia e cultura hanno cementato i rapporti di Teheran con tagiki e hazara; denaro ed armi hanno invece dato vita a legami altrettanto importanti con comandanti talebani e militanti guidati da Gulbuddin Hekmatyar.

L’ora dei negoziati sta ormai per scoccare e l’Iran non ha alcuna intenzione di farsi trovare impreparato per quel momento.

* Daniele Grassi è dottore in Scienze Politiche e specializzando in “Relazioni Internazionali” presso la LUISS Guido Carli. Attualmente è impegnato in uno stage di ricerca presso lo “Strategic Studies Institute” di Islamabad.

Marcelo Gullo, La costruzione del potere. Storia delle nazioni dalla prima globalizzazione all’imperialismo statunitense

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La costruzione del potere
Storia delle nazioni dalla prima globalizzazione all’imperialismo statunitense

Vallecchi, 2010

Alternando elaborazioni teoriche e analisi di casi : l’Italia delle Repubbliche marinare, la Spagna delle esplorazioni oceaniche, il Giappone della Rivoluzione Meij; Gullo redige una breve storia della “costruzione” del potere delle nazioni, che intende come risultato di una serie di ponderate manovre economiche e politiche per innalzare, di volta in volta, la “soglia di potere” e accedere al nucleo delle potenze egemoniche. Possesso di tecnologie, industrializzazione, controllo delle risorse, ma soprattutto l’“insubordinazione fondante”, che identifica con il gesto di insurrezione delle ex-colonie contro il potere subordinante della madrepatria, sono alla base di questo processo. L’intento dichiarato è una rinnovata comprensione dello scenario odierno, con nuove ipotesi per l’emancipazione degli Stati latinoamericani ancora alla periferia del sistema. Gullo scrive dalla periferia e alla periferia si rivolge per invitarla a uscire dalla subordinazione: questo sguardo decentrato costituisce il tratto distintivo delle categorie analitiche e concettuali che l’autore elabora ed è l’elemento di grande originalità di questo saggio nello studio delle relazioni internazionali.

L’autore: Marcelo Gullo è nato in Argentina nel 1963. Dal 1981 è attivo oppositore politico della dittatura militare e nel 1983 contribuisce a fondare il Centro de Estudios para la Política Exterior Argentina (CEPEA). Docente presso le più prestigiose università del Sudamerica, insegna attualmente alla Universidad de Lanús (Buenos Aires). Le sue pubblicazioni sono numerosissime. Nel 2008 il suo libro La Insubordinacíon Fundante ha ottenuto il Premio Oesterheld come miglior libro dell’anno.

La traduttrice: Anna Boccuti, dottore di ricerca in Studi Americani e ricercatrice di Lingua e Letterature Ispanoamericane presso l’Università degli Studi di Torino. Ha compiuto varie incursioni nell’ambito della traduzione, di cui si è occupata sia sul piano della riflessione teorica, sia su quello della prassi traduttiva, che ha affrontato anche in qualità di docente a contratto presso l’Università Roma Tre.

Il curatore: Claudio Ongaro Haelterman, Professore di Estetica Contemporanea e Filosofia Latino-Americana presso l’ Università Nazionale di Buenos Aires e Istituto Universitario Nazionale dell’Arte Argentina; Assessore accademico dell’Unità Nazionale di Progetti speciali di Cultura del Ministero degli Affari Esteri dell’Argentina, membro della Fondazione Internazionale Leopoldo Marechal, membro Associazione italiana Studi ibero-americani.

FORUM MONDIALE DI CULTURA SPIRITUALE, ASTANA, REPUBBLICA DEL KAZAKHISTAN

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FORUM MONDIALE DI CULTURA SPIRITUALE, ASTANA, REPUBBLICA DEL KAZAKHISTAN

ESOPOLITICA: UNA CARTINA NELLA NOOSFERA

Il concetto di Noosfera elaborato dal visionario scienziato russo V I Vernadsky è entrato a far parte del dizionario scientifico e filosofico contemporaneo ed alcuni cibernetisti e futuristi predicono che la geopolitica e la geoeconomia verranno inglobate o rimpiazzate nei prossimi decenni da noopolitica e nooeconomia dal momento che gradualmente ma rapidamente ci stiamo sollevando sopra il livello planetario verso uno stadio cosmico della nostra evoluzione.

L’articolo 28 del capitolo 2 della Costituzione etica noosferica per il genere umano riguarda “gli artefatti dell’informazione dei contatti con le civiltà extraterrestri” e tali strumenti di apprendimento sono parte indispensabile per raggiungere la Grande Sintesi che dà la Nuova Conoscenza a cui allude il Dr. Liubov Gordina, in linea con l’affermazione dell’accademico Vlail Kaznacheyev della connessione intrinseca della civiltà con l’Intelletto Cosmico o la Coscienza.

Il genere umano fino adesso resta sotto l’autorità di quello che possiamo chiamare un ordine cosmologico intellettualmente pre-Copernicano che vede ancora la Terra e le sue specie umane dominanti come uniche o perlomeno eccezioni molto rare nell’universo dotate della straordinaria, semi-soprannaturale capacità di pensare la realtà esterna ed interna e sviluppare teorie per spiegarla. Usando le parole dello scienziato pioniere del computer Jan Amkreutz: “Gli umani…sono stati la prima specie a rompere la catena tra il pensiero e la macchina biologica che ha creato il pensiero…gli umani hanno spezzato il cordone ombelicale che unisce il pensiero all’esecuzione automatica del pensiero” (in un articolo intitolato “Essere Digitali o perché il Futuro ha bisogno di noi” per World Affairs, Vol. 14, no. 3, Autunno 2010).

Anche degli studi scientifici così lungimiranti e apparentemente imparziali come il Millenium Project della Foundation for the Future (FFF) nelle sue relazioni dei seminari Humanity 3000 del 1999-2000 non vogliono prendere seriamente in considerazione l’evidenza che siamo su un pianeta che ruota attorni ad uno dei trilioni di stelle come il Sole in universo apparentemente infinito che esiste da sedici bilioni di anni mentre le nostre specie sembrano essere apparse solo poche centinaia di migliaia di anni fa al massimo. Le loro conclusioni considerano relativamente poco importante e probabile la possibilità di contatto extra-terrestre (3.825 e 2.359 rispettivamente per un indice composito di 25.702, vicino al fondo della loro scala di priorità per il futuro genere umano). Si azzardano a prevedere che la ricerca di vita extra-terrestre sarà deludente visto che non sarà trovato niente di interessante nemmeno nei prossimi mille anni, al contrario della probabilità calcolata da Frank Drake. Questa è paura dell’ignoto o la vecchia arroganza umana?

Richiede una visione “dispensionalista” basata sulla fede teologicamente parlando, piuttosto che una valutazione spassionata, il ritenere che siamo i soli o addirittura la forma di vita più avanzata in questo cosmo così vasto e vario che nemmeno ci si immagina. Tuttavia, i nostri scienziati che sono presumibilmente imparziali e razionali tendono ad affermare anche oggi che possiamo essere l’unica specie che gode di una intelligente natura avanzata, o almeno la più altamente evoluta in uno spazio interstellare che sarebbe altrimenti deserto.

L’alternativa, una visone davvero post-copernicana, sostenuta quattro secoli fa da Giordano Bruno (1548-1600) e altri pionieri della cosmologia, è che siamo uno delle innumerevoli specie più o meno evolute su un equivalente genetico della scala di Jacob in cui ci troviamo ad un livello indeterminato. L’universo allora non ha bisogno di noi per essere visto e capito ma piuttosto, esso produce in maniera costante e pervasiva forme di vita uguali o differenti dalle nostre, proprio come un albero produce fiori e frutti o come le nebulose generano le stelle. Siamo espressioni mentali e biologiche della Mente Cosmica, proprio come un’ipostasi o un prosopon di Energia e la nostra percezione di realtà esterne ed interne è un’interfaccia insieme con la loro essenza altrimenti indefinibile. Si può dire che il Cosmo comprende ed inventa se stesso- è una ricreazione, in entrambi i sensi di tutte le sue creature frutto del verbo che insieme lo creano e lo mantengono attraverso la loro esistenza e la loro riproduzione. L’intero e le parti sono inseparabilmente interdipendenti.

L’esopolitica, come la definiscono i suoi fondatori e pionieri- il canadese Alfred Lambremont Webre, l’australiano Michael Salla, l’italo-americana Paola Leopizzi Harris e l’americano Steve Bassett- (www.exopolitics-institute.com) è la scienza che traccia la mappa e studia le leggi della Città Cosmica che si estende oltre il sistema solare verso la galassia e l’universo o oltre il multiverso. In quanto tale fa parte della Noopolitica dal momento che ogni forma di vita fa parte del Nous.

Non dovrebbe sorprendere che un orizzonte così cosmo-centrico e bio-centrico non piaccia alla nostra coscienza egocentrica e che i “poteri” che controllano il Zeitgeist si rifiutino fortemente di accettarlo e cercano di nasconderlo da quelli che governano. Quindi le antichissime credenze, supportate quasi quotidianamente da solide e univoche osservazioni, secondo cui ci sono molti altri abitanti nell’universo e alcuni sono attorno a noi o addirittura tra di noi sono state praticamente bandite dalla comunità scientifica, religiosa e politica e sono rimaste fino ad ora ai margini della realtà pubblicamente conosciuta.

Tuttavia questo sta cambiando adesso sotto l’irresistibile pressione dell’evidenza e negli ultimissimi anni e mesi, possibilmente a causa di tutta la complessiva crisi che ha avvolto l’intera società, numerose irrecusabili conclusioni e dichiarazioni pubbliche ufficiali stanno preparando la strada per un’epifania noosferica. L’esopolitica aiuta a rivelare la complessità dell’universo e la sua profusione biologica e noetica nonché il suo Ordine che si cela dietro il Caos. Non siamo i primi, non siamo gli ultimi, non siamo i più grandi ma neanche i più piccoli. Come tutte le particelle dell’infinito, comprendiamo tutto l’infinito. Come gli altri innumerevoli esseri, siamo permanentemente in transizione lungo un corso infinito verso un obiettivo indefinito che possiamo chiamare Punto Omega, Tao,Cunya, Parabrahman, Al Azal, Ain Soph o semplicemente lo sconfinato Oceano di Luce che li comprende tutti.

Ecco alcuni dei recenti o attuali sviluppi e rivelazioni che, arrivando come una lunga successione di eventi che sono stati per lo più nascosti o ufficialmente negati, ci mostra che la nuova era sta tramontando. Un’era nella quale si può raggiungere un potenziale illimitato per l’apprendimento e il progresso oltre le nostre più ambiziose speranze, non esclusivamente da soli ma come ha scritto Costa Andrade “stando sulle spalle dei giganti”.

Dall’ultima guerra mondiale, è stata raccolta una considerevole quantità di dati che, presi insieme forniscono gli elementi di una nuova visione del mondo, non più geo o antropocentrica.

Molti oggetti nello spazio funzionanti artificialmente e intelligentemente, definiti nel gergo tecnico militare come UCT (bersagli scoordinati), sono stati rilevati nell’ultimo mezzo secolo da telescopi, radio-telescopi e satelliti esploratori. Lo spazio è infatti abitato da veicoli di origine sconosciuta.

La prima reazione dei governi che si sono trovati di fronte all’evidenza di interventi da parte di sconosciuti poteri intelligenti è stata previdibilmente dettata dallo sconcerto, incredulità e confusione. Tra il 1946- quando la fine della guerra ha dato un’opportunità a coloro a cui spettavano le scelte civili e militari di studiare i fatti- e nel 1960, una politica di rifiuto ufficiale accoppiata con la ricerca di alta priorità e l’analisi segrete sono state scelte dal governo statunitense e qualche altro stato.

In America in particolare è stata sviluppata una strategia di sistematico rifiuto attraverso la derisione e il ridicolizzare da parte delle relative agenzie militare e dei servizi segreti, in particolare la CIA, all’interno del programma Mockingbird ideato da Frank Wisner Sr. per manipolare i media e i contenuti dei notiziari attraverso talune manovre psicologiche e la cosiddetta Voliera. Il rifiuto e lo “sfatare” sono stati raccomandati nel Durant Report del gruppo di Robertson promosso dalla CIA sulla questione UFO nel 1953. Tuttavia è stato riportato che è stata adottata una politica di segretezza riguardo agli avvistamenti di UFO dai governi degli USA e del Canada dal lontano 1936. Gran parte delle prove dell’occultamento è stata accuratamente raccolta da Steven Greer nel suo libro Disclosure – Military and Government Witnesses reveal the Greatest Secret in Modern History (Crossing Point, 2001 e www.disclosureproject.com).

Questa Ricerca e Analisi ha portato alla R&S di tecnologie ricavate da o inspirate ai veicoli alieni e ai loro passeggeri. Il processo, che si cela sotto diversi strati di segretezza e inganno, all’interno della classificazione ripartita dei SAP (Special Access Projects) e dei CAP (Classified Access Projects), altrimenti comunemente detti “Black Programmes”, è stato in parte rivelato da alcuni agenti ai vertici dell’esercito e dei servizi segreti, spesso durante eventi molto pubblicizzati quali la Disclosure Conference che si è tenuta al National Press Club a Washington DC il 12 novembre del 2007 sotto la presidenza dell’ex-governatore dell’Arizona Fife Symington che è stato testimone diretto degli incredibile avvistamenti “luci di Phoenix” nel 1997.

Uno studio scientifico commissionato dalla canale televisivo della National Geographic ha stimato che l’alzata richiesta dal massiccio veicolo (circa 450 metri d’ampiezza) avvistato su Phoenix da centinaia di testimoni quell’anno, era di cira 112.000 tonnellate, così che proprio come è stato scritto nel LIFE Magazine nel 1952, “non esiste né è stato progettato alcun sistema umano di sollevamento capace di una cosa simile” (citato da Larry Lowe, autore del documentario per la National Geographic).

Successivamente è stato reso pubblico in Francia il Cometa Report del 1999 del GEPAN (www.cnes-geipan.fr), affiliato allo Stato, seguito dal Sigma/3AF Progress Report del 31 marzo 2010 da parte della French Association of Aeronautics (AAAF), che affermavano entrambi che un’origine extra-planetaria era la più probabile o meglio l’unica soddisfacente spiegazione per giustificare gli UFO e i relativi fenomeni. Bisogna notare che tra i 1600 casi registrati dalla GEIPAN dal 1954, circa il 25%, o i 400 strani casi, sono di Tipo D, cioè fondati, confermati e non spiegati.

La diffusione da parte del Ministero della Difesa britannico di 7200 file finora riservati e confidenziali, che risalgono al solo 1967, che è iniziata nel 2008 continuerà fino al 2012. Nel secondo caso, ogni successiva diffusione è stata abbondantemente commentata dalla BBC e il Brasile nell’agosto del 2010 ha abrogato lo State Security Institutional Act 5 che proibiva a tutti i media di comunicare avvistamenti ed incontri di UFO in mancanza di previa approvazione dell’Air Force.

Il nuovo regolamento adottato dall’aeronautica militare brasiliana e firmato dal suo comandante, il generale Juniti Saito nell’agosto del 2010, dopo varie dichiarazioni pubbliche e la diffusione il 20 maggio del 2005 di rapporti fino ad allora segreti da parte dei quartieri generali dell’Air Defence, invece impone a tutti i piloti di comunicare qualsiasi osservazione o esperienza anomala. Molti altri governi si stanno dimostrando sempre più interessati ad ammettere che la presenza aliena non può più essere negata a priori. I media cinesi ad esempio hanno fatto vedere una serie di avvistamenti di massa spettacolari nell’estate del 2010 e i commenti che hanno portato nelle istituzioni scientifiche. Una valutazione dell’astronomo dell’osservatorio Red Mountain, Wang Si Chao, che ha affermato che gli oggetti osservati nel Paese negli ultimi tempi erano guidati intelligentemente, extra-terrestri o di certo non umani, è stata riportata dal People’s Daily.

Nel frattempo i frequenti e singolari “cerchi nel grano” che sono apparsi in Inghilterra e in qualche altro paese attraverso un processo misterioso, che comporterebbe l’emissione di microonde da una fonte sconosciuta ed invisibile per produrre istantaneamente forme molto complesse, sofisticate dal punto di vista geometrico e ricche di simbolismo, è considerato dai più seri studiosi della materia come un’altra traccia dell’attività “aliena”, con l’apparente intento di sollevare domande ed aspettative tra la gente.

Alcuni leader politici e altre personalità eminenti si sono battuti a lungo e con forza per far un po’ di luce sull’enigma degli UFO e attraverso gli sforzi di Eric Gairy, allora Primo Ministro del Grenada, è stata presa una decisione dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1978 (No. 22/426) per incoraggiare i governi di tutto il mondo a condividere ogni informazione trovata in materia e a sostenere la creazione di un’istituzione internazionale di ricerca.

Tuttavia è ampiamente diffusa l’idea che dalla sua posizione nel Consiglio per la Sicurezza gli USA hanno bloccato qualsiasi azione su questa risoluzione e, che sia un caso oppure no, Eric Gairy è stato spodestato da Maurice Bishop in un colpo favorito dagli USA mentre si trovava ad un incontro ai quartieri generali dell’ONU a New York con il Segretario Generale non per sua iniziativa.

Negli USA stessi si sta portando avanti un lento ma intenso processo di istruzione pubblica, soprattutto da parte dei mass media nel genere della fantascienza mentre sono state intraprese poche iniziative importanti. Tra esse c’è il cosiddetto Piano C, una bozza di Libro Bianco per la divulgazione ideato da Scott Jones, un veterano investigatore di fenomeni paranormali che è stato consulente scientifico dell’ultimo senatore Claiborne Pell del Rhode Island, Presidente della Commissione Relazioni Internazionali del Senato dal 1987 al 1994 e lui stesso vivamente impegnato a raccogliere informazioni relative agli UFO.

L’inventore ed industriale Robert Bigelow, fondatore e presidente della Bigelow Aerospace (Nevada, USA), che sta costruendo una stazione spaziale commerciale privata, ha difeso la ricerca sugli UFO per molti anni attraverso il suo Institute of Discovery Science e ha parlato delle sue ricerche al reporter Kenneth Chang in un articolo pubblicato sull’International Herald Tribune del 9 giugno 2010. Un’altra impresa nello stesso campo è nota come iniziativa Rockefeller intrapresa da Laurance Rockefeller nel 1997 per convincere i suoi amici, il presidente Bill Clinton e la moglie a lanciare una ricerca pubblica sul mistero degli UFO ed aprire i relativi archivi segreti. Pare tuttavia che Bill Clinton abbia detto all’ultimo Larry Rockefeller che avrebbe corso un rischio a livello personale e politico troppo grande a fare una cosa del genere.

John Podesta, capo dello staff del presidente Clinton e quindi capo del team di transizione per Barack Obama, ha partecipato alla conferenza stampa sulla divulgazione all’NPC e ha espresso ufficialmente in altre occasioni il suo supporto alla ricerca o almeno al governo USA per scoprire i suoi file sul tema degli UFO. Negli ultimi anni una serie di documentari supportati da fatti, come quelli diretti da James Fox e abbondantemente pubblicizzati in famosi talk show americani come Larry King Live hanno reso la politica ufficiale del silenzio e del rifiuto sempre più insostenibile.

Pare che gli USA e le strutture del potere militare e civile della NATO siano profondamente divise, specialmente da quando dei veicoli molto grandi sono stati non solo avvistati ma anche rilevati dai radar dell’Air Defence e seguiti da caccia a reazione nel solo piccolo spazio aereo sopra Stephensville in Texas, vicino al ranch Crawford dell’allora presidente George W Bush, nell’estate del 2008.

Fin da settembre di quest’anno, il presidente Kirsan Ilyumzhinov di Kalmykia nella Federazione russa, che dichiara di essere stato rapito a bordo di un’astronave aliena dalla sua casa a Mosca nell’aprile del 1997, ha chiesto la creazione di un istituto di ricerca sugli UFO e fenomeni del genere dopo che un membro italiano del Parlamento europeo Mario Borghezio ha promosso una risoluzione affinché gli stati membri rivelino quello che sanno e ha costituito una commissione d’inchiesta.

Non è trapelato molto di quello che gli USA ed altri governi hanno scoperto nel corso di decenni di ricerche sul fenomeno. Più di 30 anni fa, il noto scienziato e ricercatore “UFO” Jacques Vallee ed alcuni suoi colleghi hanno espresso dei dubbi riguardo la divulgazione di informazioni conservate da agenzie ufficiali o segrete in un reame, che si dimostra ostinatamente impenetrabile alla luce dell’ (allora) attuale sapere scientifico e che sembra ancora eludere il comprendere la razionalità umana.

Se contiamo su quello che si evince da vari rapporti trapelati ma fino ad adesso mai confermati, possiamo concludere che molte razze “aliene”, alcune molto simili se non identiche all’“homo sapiens” e altre piuttosto diverse, operano in varie dimensioni, si muovono dentro e fuori al “nostro” spazio-tempo e dimostrano la padronanza delle tecnologie connesse alla gravitazione, all’elettromagnetismo e con proprietà di fisica quantistica. Alcuni mostrano una mente collettiva come se fossero tutti agganciati senza fili ad un comune supercervello (o supercomputer) che controlla sia loro che le loro imbarcazioni.

Alcuni ufficiali militari di alto livello impegnati a monitorare la ricerca, come l’ammiraglio George W Hoover (un pioniere dei viaggi spaziali e il padrino assieme a Wernher von Braun del programma Orbiter prima di diventare il capo dell’intelligence navale) e il colonnello Philip Corso che ha appoggiato al Consiglio di sicurezza nazionale ha attribuito un origine eso-cronica ad almeno alcuni dei “visitatori”, intendendo che venissero da un’altra dimensione spazio-temporale, specificamente dal “nostro” futuro come se fossero stati mandati in retromarcia per osservare e forse dar forma agli eventi in vista di un risultato desiderato o programmato. In questa realtà ricorsiva e teolologica, ciò che sarà determina ciò che è stato ed è, indirizzandolo verso corsie preferenziali all’interno di un labirinto a ragnatele di strade possibili.

Una tale visione ha gettato una nuova luce sulla rappresentazione sanscrita del monarca supremo come Governatore del Tempo e spiega perché secondo la cosmologia hindu il Tempo è creato, o piuttosto ha origine prima dello spazio che è una sua conseguente estensione.

Il probabile processo in azione dietro al fenomeno UFO può essere analiticamente diviso come una complessa operazione a lungo termine che implica i seguenti interventi che, per una questione mnemotecnica chiamerò le dieci I:

-         Iniziazione: innescando visioni ed esperienze trascendentali mentali e fisiche, con elementi “fuori dal corpo”, il che suggerisce l’esistenza di una realtà più alta, soprannaturale e misteriosa.

-         Ispirazione: trasmettendo messaggi, in forma letterale o simbolica (come affermazioni telepatiche o vocali, “cerchi nel grano” o segni nel cielo, ecc.)

-         Informazione: inoltrando dati e strumenti spirituali, scientifici e tecnologici in vari modi, quando si rapiscono esseri umani per esempio o si comunica con individui selezionati o presi a caso, come quello contatti dagli enigmatici “Ummiti” in Europa durante gli anni ’60 o dagli altrettanto numerosi membri del gruppo italiano di studio Amicizia negli anni ’70 e ’80, come riportato in libri scritti da alcuni testimoni.

-         Innesto: come viene definito nel film di Christopher Nolan; “innestare” idee e concetti nella mente delle persone, possibilmente attraverso i sogni e per mezzo di:

-         Impiantazione di vari meccanismi microscopici che sono stati rilevati ed identificati in un gran numero di essere umani.

-         Infiltrazione di individui “ET”, macchine biologiche e cellule in mezzo alla società, anche con l’aiuto di:

-         Inseminazione di essere umani con geni alieni (possibilmente per scatenare l’azione del cosiddetto “DNA spazzatura”) per creare esseri ibridi con maggiori capacità e funzioni.

-         Invasione: una “fusione” pacifica, ordinata e graduale delle specie umana ed ET su questo pianeta e nello spazio per una cooperazione ad ampio raggio. Fa parte di questo processo l’indagine e il monitoraggio degli UFO, almeno dalla Seconda Guerra Mondiale negli importanti impianti e strutture strategici di tutto il mondo, in particolare i centri di ricerca atomica e le centrali nucleari, aeree per il lancio di astronavi e satelliti artificiali, silos ICBM, basi di sottomarini dell’Air Force e nucleari, gruppi che trasportano velivoli e cose del genere.

-         Immanenza sarà il risultato di un’interpenetrazione profonda tra gli ET e noi nel senso che, come sta già succedendo da decenni, molti intervalli tecnologici e trasformazioni euristiche frutto dell’influenza “aliena” si stanno portando avanti come fossero completamente domestiche ed indigene rispetto alle nostre specie.

Quindi un grado minimo, sebbene sostanziale, di “alienazione” è stato causato dall’attuale rivoluzione epistemica e tecnogenica poiché non è vista come il risultato di un coinvolgimento esterno da parte di un’entità molto più alta e potente così che stiamo attraversando, apparentemente da soli, con il processo radicale dell’Invenzione e chiudendo il cerchio attraverso la nostra propria invasione di entrambi le dimensioni esterne (macroscopiche) ed interne (microscopiche) della linea spazio-temporale.

Il risultato cercato dall’alto è la “fusione senza (con minima) confusione” descritto dal cardinale Nicolaus Cusanus nel XVI secolo.

Così “essi” ci stanno influenzando su vari livelli (molti di essi, subconsci o completamente impercettibili) per destare lacune facoltà mentali latenti, sfidare le nostre percezioni e credenze, indurci a modificare la nostra visione del mondo e a sviluppare un certo numero di tecnologie che ci permettano di incontrarci a metà strada. Se degli umani diventano più simili a loro, può avere luogo la connessione o fusione senza grandi traumi dal momento che diventerebbe un processo immanente.

Possiamo brevemente menzionare alcune scoperte epistemiche e tecnologiche che rappresentano dei punti di riferimento nel processo di trasformazione nella condizione meta-umana che impressa nella nostra programmazione genetica, come se l’individuo completamente sviluppato è compreso nell’embrione così che ogni presente contiene sia il suo passato che il suo futuro. Il futuro è la spiegazione di quello che è stato e di quello che questo passato sta divenendo.

Di seguito quelli che abbiamo scelto, senza un ordine particolare:

1-     Il futuro Punto di Singolarità come definito da Ray Kurzweil (La singolarità è vicina: quando gli esseri umani trascendono la biologia, 2005) cioè quando la velocità del computer supererà la capacità del cervello umano, che dovrebbe essere raggiunto nel 2048, nello stesso anno in cui la Cina dovrebbe diventare la prima potenza economica mondiale e l’India la terza sebbene il PRC potrebbe fare concorrenza agli USA in termini di PIL entro il 2029 quando Kurzweil prevede che le nostre macchine intelligenti passeranno per prime il test di Turing. A quel punto ci saranno le condizioni per la completa convergenza tra organismi biologici e tecnogenici.

2-     Information Technology, IT si sta facendo spazio tra tutte le nostre strutture tecnologiche, economiche, logistiche e politiche. Sulle sue orme l’AIT, l’Artificial Intelligence Technology sta rapidamente crescendo e portando all’ET: Exotechnology, portandoci oltre la nostra condizione fisiologica, che in cambio ha le chiavi della TT: Transtechnology che i nostri visitatori padroneggiano.

3-     Il conseguimento degli stadi successivi di Alvin Toffler nell’evoluzione umana, dall’Era dell’Informazione siamo passati all’Era Transumanista e Tecnologia cognitiva alla quale William E Halal aggiunge un livello successivo: quello Esistenziale (The Life Cycle of Evolution, nel Journal of Future Studies, Vol. 9, No. 1, Agosto 2004).

4-     Futuristi come Kurzweil e Gregory Stock (Metaman: The Merging of Humans and Machines into a Global Superorganism, New York, 1993) hanno parlato della fusione dell’uomo con le macchina caricando la “mente” umana o almeno le funzioni e le memorie celebrali su un chip e raggiungendo così virtualmente l’immortalità fisica.

5-     Il Millenium Project prevede che la tecnologia e la relativa e conseguente evoluzione umana porteranno a “offuscare il confine tra le capacità individuali e il potenziale ambientale” attraverso l’uso della Nanotecnologia, insieme con la Robotica e l’Ingegneria Genetica (NRGE) e le future Picotecnologia (la manipolazione di nuclei atomici), Femtotecnologia (il controllo di particelle subatomiche) e l’assistenza di computer quantistici dotati di microchip interni. La tecnologia digitale è già aperta non solo a leggere ma anche riscrivere alcuni codici neuro-genetici, utilizzando byte anziché geni in un modello di realtà virtuale dell’universo fisico che evoca un ologramma ultramoderno del mondo delle idee di Platone.

6-     L’astrofisico Paul Davies acclama una rivoluzione della coscienza umana come risultato delle scoperte contemporanee e convergenti nello spazio interno (coscienza) ed esterno. Il suo libro Are we Alone? –Philosophical Implications of the Discovery of Extraterrestrial Life (1995, Basic Books) ha ispirato successivamente Laurance Rockefeller a lanciare la sua iniziativa sopramenzionata.

7-     Stanno aumentando le prove dell’esistenza di un metodo per catturare o meglio integrare coerentemente l’EFTV, l’energia dal “punto zero” sub-atomico o il vuoto quantico (descritto come un flusso virtuale di particelle) che è in effetti tutt’altro che vuoto. L’introduzione di una massa carica in uno spazio senza masse genera un’interazione che viene registrata come un campo o una forza fisica. Un campo elettrico è, come dice il tenente colonnello T E Bearden: “Una condizione senza forze in uno spazio senza masse” (World Affairs, Vol. 9, no.4, inverno 2005)

In ricerche condotte nell’ex URSS, negli Stati Uniti e in altri paesi è stato sperimentato l’utilizzo delle onde longitudinali o onde elettromagnetiche scalari in un certo numero di applicazioni, in base alle scoperte basate sul lavoro di Maxwell, Poynting, Faraday e ET Whittaker, fatte da pionieri quali  Nikola Tesla, TT Brown, J Searl, JL Naudin, PK Anastasovsky  e T E Bearden (www.cheniere.org). Implicazioni di questa proprietà della Natura, uscendo fuori dal modello Kaluza-Klein, includerebbero la possibilità di fermare o invertire la corrente del tempo e l’invecchiamento delle cellule viventi (organismi).

8-     Un Sistema di Controllo globale è stato postulato da Jacques Vallee nel suo libro Le College Invisible (1975), in analogia con la teoria comportamentale di “programma di rinforzo” progettata da B F Skinner (Reinforcement Programs di Ferster e Skinner, Appleton-Century, 1957) attraverso la ricerca sostenuta dall’Ufficio per la ricerca navale (ONR) degli USA.

Skinner ha dimostrato che il modo più efficace per trasportare animali ed esseri umani è rinforzare in maniera selettiva e a caso certe azioni inspiegabili che dovrebbero determinare il loro adattamento ad una nuova realtà. L’apprendimento trasmesso in questo modo apparentemente imprevedibile è irreversibile dal momento che si insinua nei livelli più profondi di coscienza creando miti che sono “più veri della verità”. La Terra e tutto i suoi abitanti sembrano funzionare in base ad un sistema di controllo cibernetico che agisce attraverso un’ampia gamma di processi apparentemente “naturali” o computerizzati che a volte ci appaiano come soprannaturali o interventi “divini” e a volte possono celarsi dietro eventi geologici, meteorologici o causati dall’uomo.

Pare infatti che gli alieni utilizzino questo metodo mentre restano misteriosi e “meta-logici” nelle loro apparizioni e interventi. Il potere specifico di un mistero, sottolinea Vallee, risiede nel non essere spiegato o dissipato. Egli cita il famoso pioniere di una cultura psichedelica, Timothy Leary che ha trasmesso il seguente messaggio: “L’obiettivo dell’evoluzione è produrre sistemi nervosi capaci di comunicare e rispondere nella rete galattica dove noi, i vostri parenti interstellari, vi aspettiamo”. Cita anche l’opera del collega di Leary, John Lilly, Programming and Meta-Programming in the Human Bio-Computer (Crown,1887). Ci può essere una connessione tra questa più ampia comprensione delle funzioni cerebrali e l’enigma posto dal millenario teschio messicano studiato da Lloyd Pye (www.starchildproject.com) in cui è stato rilevato un DNA con un nucleo ibrido umano-alieno nonché componenti apparentemente sintetici nel materiale del teschio che è in parte organico e in parte di ceramica. Pye è un esponente dell’Intervention Theory (“A Brief Introduction to Intervention Theory” in www.lloydpye.org) che postula un ruolo determinante degli ET nella creazione dell’homo sapiens.

La teoria è ben illustrata in una dichiarazione scritta trovata in uno dei molti documenti che sono stati mandati a molti ricercatori in un certo numero di paesi negli anni sessanta e settanta dagli Ummiti dei quali abbiamo prima parlato: “non abbiamo intenzione di interferire con l’evoluzione sociale del vostro pianeta per ragioni trascendenti. Una moralità superiore impedisce qualsiasi atteggiamento paternalistico” e in un altro brano: “Non cambiate le vostre idee per le nostre” citato in Vallee, Ibid.). Sembra esserci la volontà di informare, almeno coloro che sono pronti ad ascoltare o leggere ma non di imporre l’informazione in modo da non creare stress o panico nella società.

9-     Il sopramenzionato Millenium Project ha messo in evidenza un certo numero di speranze di cambiamento che appaiono al nostro orizzonte sociale. Li citiamo insieme con altre ugualmente importanti vie di trasformazione:

-         l’espansione di Internet. Vinton Cerf, inventore del TCPIP e Vicepresidente di Google, sta ideando una rete Internet interplanetaria per sostenere l’esplorazione e la colonizzazione dello spazio.

-         l’interfaccia cervello-computer e la simbiosi tra cibernetica e cervello, compresa la tecnologia per il monitoraggio del cervello (lettura della mente) che la NASA sta elaborando e altre organizzazioni pubbliche e private sulla base di tecniche inventate da Igor Smirnov e Robert Parks nell’area della psicotronica.

-         l’ingegneria genetica sulla base della decriptazione dei codici delle bio-informazioni elettromagnetiche nelle interazioni intercellulari, in base alla ricerca di V Kaznacheyev.

-         trasferimento da umano a umano delle interconnessioni e download sinattici.

-         la creazione di chip quantici (che non funzionano più con la fotolitografia).

-         la capacità di connettere macchine AI alle reti globali di conoscenza.

-         la generazione di forme di vita artificiale prive di citoplasma e modelli neurali biologicamente basati.

-         la mappatura di sinassi e neuroni (simili ma più grandi di dimensioni rispetto al Progetto Genoma Umano) per sviluppare la neuro-biologia.

-         ottenere una sintesi meccanica per reazioni chimiche prodotte dall’ingegneria in modo da produrre i materiali desiderati da atomi e particelle sub-atomiche.

-         creare sinergia tra intelligenza artificiale, bionica, scienze dei materiali, nanotecnologia, telecomunicazioni e robotica, in modo da ottenere l’ “Internet delle cose” per rimpiazzare l’attuale Internet audio-visivo.

10- Nel campo dell’aero ed austronautica, sono stati condotti un certo numero di esperimenti e sono stati costruiti veicoli con forme e caratteristiche simili a quelle di alcuni UFO, secondo quanto detto. Un esempio attuale è il Locomoskyner russo, di forma discoidale, che cammina ad elio con motori elettrici, che stanno costruendo a Ulyanovsk e di cui è stato presentato un prototipo al Moscow’s MAKS 2009 Air Show a Mosca come pioniere per la generazione futura di velivoli che decolleranno e atterreranno verticalmente e non avranno bisogno di carburante liquido per cui non richiederanno più piste d’atterraggio.

11-  Un numero sempre maggiore di eminenti scienziati, come Michio Kaku della City University di New York (Parallel Worlds: A Journey through Creation, Higher Dimensions and the Future of the Cosmos, Random House, 2007) ed Elizabeth Sahtouris (Expanding Our Worldwiew to Other Dimensions , When Cosmic Cultures Meet, 1995) riconoscono che il nostro universo “ha molte mansioni” come Cristo disse nel Vangelo, nel senso che comprende molte dimensioni o piani paralleli, dentro e sotto la fetta di realtà che percepiamo con i nostri sensi. Quest’emergente “multi-visione del mondo” riflette le implicazioni della Teoria quantistica come l’Incertezza, il Non-Luogo e il Groviglio Quantistico. Può anche aiutare a giustificare l’influenza dimostrabile altrimenti impercettibile che le onde cerebrali hanno su “particelle materiali” ed organismi come i geni.

12-  Quelle scoperte propriamente scientifiche che spesso si possono definire come intuizioni (meta) logiche dedotte da equazioni matematiche ci portano a rompere con la logica convenzionale stessa in modo da percepire una realtà più ampia che sfugge alle norme di ragione sillogistica e sembra tanto assurda quanto gli aforismi taoisti, i paradossi dei Sufi o il Koan Zen. Così impariamo che, come aveva capito Francis Bacon più di trecento anni fa, il nostro sapere è modellato dalla nostra struttura di pensiero perché vediamo quello che crediamo nonostante sia evidente il contrario.

Conclusioni

Stiamo subendo un’associazione, a vari livelli di coscienza e attività (scientifica e tecnologica, economica, sociale, religiosa e politica), in una più ampia comunità di essere e di sapere attraverso un processo di transizione che serve probabilmente a proteggere la disintegrazione della nostra società o la scomparsa della nostra specie. Può essere il futuro stesso che agisce per portarci avanti se accettiamo la prospettiva teolologica nella quale “la finalità prevale sulla causalità (Costa de Beauregard e Kervran). Questa strada ha senso solo se siamo consapevoli che qual è l’obiettivo e se non ci siamo mai arrivati prima, siamo cechi per definizione e possiamo contare solo su guide più avanzate di cui ci fidiamo sulla base della nostra ragione, memoria e visione. In tal modo sì che possiamo avere una visione della storia olistica, stereoscopica, non-lineare ma ciclica e logaritmica.

Crediamo di stare andando avanti da soli mentre stiamo venendo trainati. L’espansione è l’effetto dell’attrazione verso i successivi stadi dell’essere e le dimensioni più alte.

Come Carpentier de Gourdon

Settembre 2010.

Traduzione a cura di Daniela Mannino

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